È davvero curiosa l’Italia. Tutti noi siamo sempre disposti a giurare con il dovuto orgoglio che il nostro è il Paese più bello del mondo. Per la sua natura, il clima, il paesaggio e per l’immenso patrimonio artistico. In effetti è senza dubbio un luogo traboccante di bellezza. Tuttavia se gran parte delle sue ricchezze non sono ancora state distrutte da scelte urbanistiche dissennate, avidità speculative e sciatta incuria si deve principalmente a poche persone che si sono battute da sole, in modo infaticabile, contro lobby potentissime. Uno di questi è stato Renato Bazzoni, che fu tra i fondatori del Fai – Fondo Ambiente Italiano. Il suo nome dovrebbe figurare in un ipotetico pantheon dei padri della “bella Italia”, a fianco di Giorgio Bassani, Elena Croce, Antonio Cederna e pochi altri. La storia delle loro vite ha coinciso con mezzo secolo di appelli e battaglie in nome della cultura e in difesa di un paesaggio aggredito da lottizzazioni, abusivismi e condoni. Appelli che, alla luce di quanto si presenta oggi ai nostri occhi, sono in gran parte caduti nel vuoto. Eppure Renato Bazzoni si distinse dagli altri pochi nomi impegnati in questa solitaria battaglia di civiltà, e proverò a spiegarvi perché.
Nel 1967 ideò la mostra “Italia da Salvare”, promossa da Italia Nostra, che fu tra le prime impietose testimonianze di beni e paesaggi culturali unici distrutti o fortemente minacciati. Ne curò sei edizioni in Italia, tre in Europa, diciannove negli Stati Uniti. Il momento sembrava propizio per scuotere le coscienze e mobilitare le iniziative. Bazzoni sognava di suscitare l’indignazione del mondo intero di fronte alla distruzione del Bel Paese, ma purtroppo si accorse di non riuscire ad ottenere neppure quella degli amministratori italiani. Così, anni dopo, cambiò strategia. Se lo Stato non aveva orecchie per ascoltare la rabbia di quanti avvertivano un “paese a termine”, tanto valeva sostituirsi alla sua ignavia. Nel 1975, con Giulia Maria Mozzoni Crespi, l’allora soprintendente di Brera Franco Russoli e l’avvocato Alberto Predieri, fondò il Fai – Fondo Ambiente Italiano. Fu questa la sua straordinaria, lungimirante intuizione. Non erano più sufficienti l’azione di denuncia, la protesta e l’indignazione. Con spirito pragmatico Bazzoni mise la cultura accanto alla disponibilità economica, sperando che in qualche modo avvenisse un’impollinazione incrociata, con un nuovo movimento per frutto.
Il seme attecchì. Quando nel 1975 mostrò il piccolo e commovente Monastero di Torba, all’epoca destinato a scomparire, a Giulia Maria Mozzoni Crespi, che l’anno prima aveva ceduto la proprietà del Corriere della Sera ad Angelo Rizzoli, s’innescò la scintilla fondatrice. L’imprenditrice mise a disposizione la somma necessaria per acquistare il complesso monumentale e l’avventura ebbe inizio. Da quel momento la Fondazione cominciò ad acquisire abbazie, castelli, ville, boschi e tratti di costa, sottraendoli alla speculazione e all’abbandono, recuperandoli e aprendoli al pubblico.
A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta ho lavorato con Renato Bazzoni. L’ho accompagnato in giro per l’Italia a spargere i semi della speranza. Erano momenti pionieristici, pochi ancora conoscevano il Fai. Intellettuali e imprenditori illuminati organizzavano nelle proprie città cene e conferenze offrendo a Bazzoni la possibilità di illustrare il suo progetto. Alcune delle donazioni ricevute dal sodalizio negli anni successivi si devono a quegli incontri. Bazzoni aveva moltissimo da raccontare e quando parlava produceva un magnifico fragore. Era convincente. La gente lo adorava.
La prima volta che visitai con lui Torba (che tra l’altro è un luogo adatto per trascorrere la vostra Pasquetta), volgendo lo sguardo alla torre costruita con materiale ricavato dalla demolizione di complessi cimiteriali di epoca romana mi disse: “Non è meravigliosa la fine tessitura della pietra di fiume?”. Certo, è meravigliosa. Ma quasi certamente non me ne sarei accorto se non mi avesse avvicinato a tanta bellezza con il suo entusiasmo. Ancora oggi, ogni volto che poso lo sguardo su uno scorcio di paesaggio, un’opera d’arte o un monumento ringrazio Renato Bazzoni per avermi insegnato a osservare.
Se qualcuno mi domandasse di indicare l’italiano dei nostri tempi che più di ogni altro si è adoperato per le nostre bellezze non esiterei a indicare il suo nome. Due giorni fa Renato Bazzoni avrebbe compiuto 91 anni. È volato ai Campi Elisi troppo presto, prima ancora di vedere la sua creatura decollare in modo definitivo verso il successo e la popolarità. Oggi, l’abside della chiesetta del Monastero di Torba custodisce le sue spoglie. Diciassette anni fa, pochi giorni prima di accasciarsi per strada mentre raggiungeva il suo ufficio, era stato insignito della medaglia d’oro di Europa Nostra per la causa cui si era interamente dedicato. Come un combattente. Il riconoscimento assegnatogli da una federazione pan-europea che ospita al suo interno 250 Organizzazioni non governative attive in 50 Stati, fu il segno evidente di come la sua attività e la sua persona avessero travalicato i confini. Eppure sul suolo patrio, in questo Paese dalla memoria corta, la sua figura è poco conosciuta.
Monthly Archives: marzo 2013
Senza Parlamento. Si può fare?
Mesi fa era in voga una teoria detta Tecnocrazia. Lasciamoci governare da tecnici e i nostri problemi saranno presto risolti. Abbiamo visto tutti come è andata a finire. La mia si potrebbe chiamare teoria dell’Assenza, e si spinge un po’ più in là della proposta di Beppe Grillo di fare a meno di un Governo e lasciare lavorare il Parlamento. In sintesi l’idea è questa. Togliamo gli chef dalla Tv. Togliamo gli architetti dalle Commissioni edilizie. Togliamo gli editorialisti dai giornali. Togliamo le Province e le Prefetture. Togliamo le l’Authority. Togliamo i “mandarini” dagli apparati di Stato. Togliamo le cariche multiple a professori universitari, consiglieri e accademici vari. Togliamo i monopoli.
Quanto al Parlamento. Ci sono milioni di italiani che sarebbero lietissimi di non tornare a votare. Togliamo i parlamentari dal Parlamento e non ci saranno più elezioni. Ma allora, si chiederà qualcuno, come la mettiamo con la prossima legislatura? Guardate, ho già dato un’occhiata alla prossima legislatura, e forse è meglio se chiudiamo bottega subito.
Quando i primi della classe cadono
Diciamoci la verità, i primi della classe non sono mai simpatici. Li si guarda con fastidio, perché lui e non io? Oppure con sospetto, mah sarà davvero tanto bravo!? A volte poi succede che i primi della classe sbaglino. E noi mediocri godiamo. Giustamente. Sì, perché il primo della classe non ha meriti. Il più delle volte è arrivato in cima perché ha un talento che altri non possiedono, e il talento non se l’è mica conquistato. E’ arrivato per caso, come un 6 al superenalotto. O è arrivato per vie genetiche, perché la biologia non è democratica. Ci sono poi delle volte in cui il primo della classe non è davvero primo. Lo è diventato solo perché è ruffiano, paraculo o raccomandato. Ecco quando cadono quei primi della classe, noi mediocri godiamo ancora di più.
Quelli che sono entrati a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa, i Monti, Fornero, Passera, Ornaghi, Grilli e compagnia cantante ci sono stati venduti dalla stampa e dalle televisioni “importanti” (i giornali e le Tv che vogliono influenzare l’agenda del Paese, non raccontare i fatti) neppure come i primi della classe, ma come autentici fuoriclasse, di quelli che sei costretto a guardare con sudditanza: economisti e tecnici onniscienti, provenienti dalle migliori università, banche e accademie. Gente che con un solo battito di ciglia sparge saggezza in tutta una sala dove uditori adoranti attendono di essere illuminati. Ebbene, ora questi geni stanno ripiegando rovinosamente, in modo scomposto e senza orgoglio, al pari di soldati senza gloria e senza onore. Alzi la mano chi non si è vergognato di essere italiano ieri dopo aver visto Terzi e Di Paola, uno accanto all’altro alla Camera, uno che si dimetteva e l’altro no. Ma quei due lì, Bibì e Bibò della diplomazia nostrana, sono stati scelti da un uomo che il mese scorso, durante la campagna elettorale, di fronte alla domanda chiara di un giornalista (lei è favorevole o contrario ai matrimoni omosessuali?) ha gorgogliato e rantolato per sessanta secondi prima di rispondere in modo confuso.
Ecco chi erano, i salvatori della patria, i primi della classe. Che ora se ne andranno e, percorrendo a ritroso la strada che avevano disceso con tanta tracotanza, torneranno ai loro stipendi milionari nelle nostre università, nelle nostre banche e nelle nostre accademie. W l’Italia.
Perché non amiamo l’Italia?
Chissà se i delegati del Touring Club Italiano e del Wwf avranno spiegato a Bersani la portata di ciò che ha fatto l’altro ieri Barack Obama. Il presidente Usa ha proclamato cinque nuovi monumenti nazionali: sono il Charles Young Buffalo Soldiers in Ohio, che preserva la casa del primo colonnello afroamericano, il First State in Delaware, che racconta la storia del primo Stato americano a ratificare la Costituzione, l’Harriet Tubman Underground Railroad in Maryland, che celebra la vita di un conduttore di treni e attivista per i diritti degli afroamericani, il canyon del Rio Grande del Norte in New Mexico e l’arcipelago San Juan Islands nello Stato di Washington. “Questi siti onorano gli eroi pionieri, i paesaggi spettacolari e la ricca storia che hanno plasmato il nostro Paese straordinario. La loro nomina a monumenti nazionali fa in modo che possano continuare a ispirare e essere goduti dalle future generazioni di americani” ha affermato il presidente durante la cerimonia di proclamazione. Nel suo primo mandato Obama aveva già “promosso” altri quattro siti. La legge che permette la nomina di monumenti storici, l’Antiquities Act, fu istituita nel 1906 dal presidente Theodore Roosevelt.
Secondo uno studio della National Parks and Conservation Association, ogni dollaro investito nei parchi nazionali genera almeno quattro dollari di indotto. Negli Stati Uniti le attività ricreative all’aperto creano un giro d’affari annuo di 646 miliardi di dollari, dando lavoro a più di sei milioni di persone.
Ci rendiamo conto di cosa si potrebbe fare in Italia? Ce lo sentiamo ripetere in continuazione: siamo il Paese che conserva la più alta percentuale di beni culturali al mondo. Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è sconfortante. C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici e paesaggistici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare. Ma se non sappiamo neppure quanti sono! Non esiste oggi una catalogazione dei nostri beni, specialmente dei reperti archeologici. E per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute. Molte delle quali restano chiuse nei magazzini. Serve sollevare ancora una volta lo scandalo della gestione di Pompei? In nessun altro luogo al mondo un’area archeologica tanto importante sarebbe abbandonata all’incuria e al degrado in modo così riprovevole. Da noi si aspetta il prossimo crollo prima di tornare ad occuparcene.
I nostri politici da anni ripetono al pari di scimmiette ammaestrate: “la cultura deve agire come volano reale per la crescita”. Ma la verità è un’altra: in Italia la cultura e la natura non sono viste come occasioni di sviluppo. Ci si strappa le vesti contro il vandalismo e contro i musei che non possono competere con quelli delle altre nazioni. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe. I fondi per i beni artistici e culturali sono allo 0,19% della spesa pubblica. Eppure qui si parla di crescita. Quella vera!
L’Italia barbara: più cemento per tutti
Se il compianto Francesco Rosi potesse girare un remake del film Le mani sulla città, sposterebbe il set da Napoli a Milano. Nella prima inquadratura, dall’alto, ci sarebbero i grattacieli in costruzione nel quartiere Porta Nuova-Garibaldi. Poi sorvolando la grigia città, la camera riprenderebbe l’area della vecchia Fiera, Santa Giulia, Porta Vittoria. Il sacco di Milano, quello che ha trasformato l’Expo del 2015 (dedicato all’alimentazione!) in una colossale operazione immobiliare, si consuma nel silenzio assoluto. Eppure i milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari, dei finanziatori.
Il consumo di suolo è la più grande emergenza ambientale italiana, dalla quale discendono gli altri disastri: impoverimento della biodiversità, perdita irreversibile di suolo fertile, alterazioni del ciclo idrogeologico, mutamenti microclimatici. Continua a leggere
Squinzi come i Maya
C’è un’eco di Vecchio Testamento, un sentore di piaghe di Egitto, pioggia di rane e sciame di locuste, nella dichiarazione di Giorgio Squinzi. Il presidente di Confindustria, a colloquio con il presidente del consiglio incaricato, Pierluigi Bersani, ha chiesto di fare presto e di formare subito «un governo stabile» perché per le imprese italiane il tempo sta scadendo. Ormai in uno stato «disperato», le aziende sono «vicinissime alla fine». In un post (Consumo quindi sono) di pochi giorni fa avevo ammirato la pacatezza di Squinzi, ma sono costretto a ricredermi. Definire dissennato il suo commento di ieri è dire poco. Da un imprenditore, anzi dal capo degli imprenditori è lecito attendersi toni più concreti e meno millenaristici. Ci siamo lasciati da poco alle spalle la fanfaluca delle profezia Maya e ora ci troviamo già a fare i conti con la vocazione apocalittica di Confindustria. La radicata tendenza dell’uomo, tramandata nei secoli, a credere sempre di vivere alla fine dei tempi, a considerare la propria scomparsa indissolubilmente legata all’estinzione del mondo intero, ha mietuto una vittima insospettabile. Squinzi, Confindustria, gli imprenditori tutti, o perlomeno buona parte di loro (tutti quelli che non accettano che siamo già entrati nella cosiddetta post growth economy, cioè in un’economia del “dopo la crescita”, e che non saranno più possibili incrementi esponenziali permanenti del Pil) farebbero bene a rivedere rapidamente i propri modelli economici di riferimento se non vogliono implodere divorati dalle loro stesse contraddizioni. La cosiddetta “terapia d’urto” invocata da Confindustria servirebbe soltanto a prolungare un poco l’agonia di un sistema tramontato. Tentare ancora di tenerci soggiogati, di promuovere la “fabbrica dell’uomo indebitato”, di spremerci fino all’ultimo centesimo significa non avere compreso la portata di ciò che sta accadendo.
Le iniziative messe in campo dalla governance internazionale dall’inizio della crisi ad oggi hanno assunto la dimensione di un crack senza precedenti che fanno legittimamente dubitare l’opinione pubblica europea. Austerità e deregulation del mercato del lavoro nascondono in realtà un segreto indicibile: la necessità di continuare a fare profitti. Ma la crisi finanziaria partita nel 2007 affonda le proprie radici proprio nella spinta estrema al consumismo generata in seno alla società americana. L’epilogo, come è noto, è stato che quella crisi ha contagiato buona parte del resto del mondo. E allora è ancora credibile chi ci spinge ad abusare dei prestiti ipotecari e delle carte di credito per vivere al di sopra delle nostre possibilità economiche reali? Chi ci spinge ad acquistare più beni di consumo e auto più grandi e lussuose di quanto ci potremmo permettere?
La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata e capace di affrontare l’enorme sfida di assicurare una prosperità duratura. Alle persone desiderose di confrontarsi con questi temi dovremmo accordare la nostra stima e il nostro sostegno. Il resto è disperazione fuorviante. Gli stessi soggetti che ci hanno trascinato nel baratro senza lanciare nessun allarme preventivo si erigono oggi al ruolo di professori, medici e stregoni e dettano le soluzioni. O meglio, la soluzione. La solita: crescita economica. E siccome ormai non ci credono più neppure loro, ora ricorrono perfino al mito della catastrofe. La vocazione apocalittica si è inventata un nuovo mostro: la fine delle imprese.
Angelo Rizzoli: legge fuorilegge?
Tra nuovo pontificato, manovre per un nuovo governo e la crisi che morde, è difficile trovare spazio per altre notizie. Ma la vicenda di Angelo Rizzoli invoca attenzione. In breve: l’ex editore del Corriere della Sera travolto nel 1981 dallo scandalo P2 (dopo 25 anni di battaglie giudiziarie e la depenalizzazione del reato di bancarotta fraudolenta in amministrazione controllata ne è uscito assolto, ma nel frattempo, piccolo particolare, aveva perso la società Rizzoli-Corriere della Sera) si era reinventato imprenditore televisivo. Lo scorso 14 febbraio è stato di nuovo arrestato con l’accusa di aver provocato una bancarotta fraudolenta cagionando “con dolo e per il profitto personale” il fallimento di quattro società controllate.
L’ex editore, 70 anni, soffre di sclerosi multipla, diabete mellito, cardiopatia (ha avuto un infarto), insufficienza renale cronica prossima alla dialisi, ipertensione arteriosa, pancreatite, una pregressa mielopatia che comprime il midollo cervicale e aggrava l’emiparesi del braccio destro. Tutto certificato dai medici curanti e riscontrato dalla perizia del gip. Corrado Zunino due giorni fa ha trattato la triste vicenda sulla prima pagina di Repubblica. Finito di leggere l’articolo, Ivan Scalfarotto si è immediatamente recato in visita ad Angelo Rizzoli, avvalendosi della facoltà che gli è concessa in quanto parlamentare, e ha poi pubblicato sul Post un intervento di cui riporto un passaggio “ Ora io non sono né un giudice né un medico. Ma mi ha fatto impressione vedere un uomo di quell’età e in quelle condizioni di salute essere rinchiuso in una struttura carceraria. Per la mia mente, per la mia coscienza, per la mia lontana ma amatissima formazione giuridica, la libertà personale dovrebbe essere qualcosa di cui non essere privati mai, salvo che non sia assolutamente indispensabile. Con gli occhi del profano, e senza voler entrare nel merito, non posso non dire che la situazione di Angelo Rizzoli mi è sembrata abnorme. L’attesa di 40 giorni per un interrogatorio che confermasse la necessità di lasciarlo dov’è ora, mi è sembrata troppo lunga”.
Stamani il Giornale è tornato sulla vicenda con un articolo intitolato: “Rizzoli in carcere Ora anche il Pd grida alla barbarie“. Il deputato Verini del Pd ha commentato il caso usando lo stesso aggettivo di Scalfarotto: abnorme. Il sentimento di riprovazione per il trattamento riservato a Rizzoli quindi sembra ora condiviso da molte forze politiche. Qualche bontempone si è invece spinto a dire che Rizzoli è uno della casta, un potente che sa difendersi da solo e non ha certo bisogno del sostegno di onorevoli, stampa e di altri ancora.
Angelo Rizzoli è uno della casta? Mah! L’espressione casta a questo punto meriterebbe una revisione o forse, ancor meglio, sarebbe da gettare nella spazzatura insieme con tutte le parole di cui si abusa e che vengono svuotate di significato. Ad ogni modo l’intera vicenda umana e professionale di Rizzoli sembra dimostrare che non è mai stato un potente e non ha mai fatto parte della nomenklatura. Per carità ci avrà messo anche del suo per consolidare un destino di imprenditore mediocre e uomo sfortunato, ma la sensazione è che di spinte verso il baratro ne abbia ricevute molte. Il punto però non è questo. Ciò su cui ci si deve soffermare è altro: Angelo Rizzoli è un uomo vecchio e malato. Perché viene tenuto in carcere in queste condizioni? E perché in più di quaranta giorni, tanti ne sono passati dall’arresto, è stato interrogato solo una volta, e frettolosamente?
La vicenda di cui è protagonista Rizzoli assomiglia a quella di tanti vecchi film già visti. Oh, per carità, come si conviene in questi casi, ricorro anch’io alla formula di rito: ho la massima fiducia nel lavoro dei giudici. Ma mi vergogno anche un poco di vivere in un Paese così.
Il mondo si prepara all’Ora della Terra
Sabato 23 marzo, in tutto il mondo, verranno spente le luci per un’ora. L’Ora della Terra è la più grande mobilitazione globale per fermare il cambiamento climatico. Dall’Opera House di Sydney che si colorerà di verde all’edificio più alto del mondo, il Burj Kalifah, dalle torri KLCC di Kuala Lumper alla Torre Eiffel di Parigi, passando per le Cascate del Niagara, l’Empire State Building, il Parlamento del Regno Unito e la Porta di Brandeburgo a Berlino, i monumenti più famosi del pianeta si stanno unendo a questa grande azione volontaria, che l’anno scorso è riuscito a coinvolgere oltre 2 miliardi di persone in 7000 città e 152 Paesi in un incredibile giro del Pianeta a luci spente. All’iniziativa organizzata dal Wwf hanno già aderito in tantissimi: cittadini privati, enti e istituzioni. In Italia, l’ora dello “spegnimento” è dalle 20.30 alle 21.30: l’evento centrale sarà in Piazza di Spagna a Roma, ma hanno aderito tutti i più importanti monumenti del Paese: l’arena di Verona, la mole antonelliana di Torino, il Teatro alla Scala di Milano, piazza san Marco a Venezia, piazza del Plebiscito a Napoli, l’Acquario di Genova, i ponti di Calatrava a Reggio Emilia e per la prima volta la basilica di San Francesco di Assisi e il David di Michelangelo a Firenze, che si spegnerà insieme a Palazzo Vecchio, Ponte Vecchio e il Duomo. Tutti siamo chiamati a partecipare, all’insegna del motto: “I will if you will – Io farò se tu farai”. E tu? Spegnerai la luce?
L’ORA DELLA TERRA:
IL PIANETA SI SPEGNE
PER 60 MINUTI
Walter Bonatti: una vita libera
Walter Bonatti è uno di quegli italiani che ha rappresentato il proprio Paese meglio di quanto a volte esso meriti. Grande alpinista, tra i migliori di sempre insieme a Riccardo Cassin e Reinhold Messner, ed eccellente reporter dalla metà degli anni Sessanta, è stato un uomo che bisognerebbe sempre additare quale esempio, proprio perché non è stato un uomo facile. È passato attraverso oltre cinquant’anni anni di menzogne e cattiverie, quelle che hanno accompagnato la travagliata conquista italiana del K2 nel 1954. È stato attaccato e umiliato. Per anni incompreso da molti, isolato. Alla dirigenza Cai dell’epoca, a tanti giornalisti e anche a gran parte dell’opinione pubblica la sua sembrava solo cocciutaggine. Protestava la verità dei fatti, ma in tanti sbuffavano spazientiti o al più tergiversano. Forse a nulla gli sono servite le battaglie giudiziarie vinte. Dentro di lui si era rintanata un’amarezza che comunque non gli ha impedito di vivere, lottare e amare. Ormai forgiato dalla vita a sopportare ogni nefandezza, l’ha attraversata a testa alta. Continua a leggere
Chi controlla chi?
I Grillini scoprono una delibera che autorizza l’assunzione senza concorso di oltre cento dipendenti. È stata Roberta Lombardi, capogruppo e portavoce del Movimento 5 stelle alla Camera, a denunciare il meccanismo introdotto da una delibera approvata lo scorso dicembre, grazie al quale un esercito di trombati alle recenti elezioni è pronto a rientrare nel Palazzo dalla finestra. Una pletora di personaggi, spesso di dubbio profilo, dal posto assicurato a spese dello Stato.
Intanto il Settimanale Chi pubblica le foto di Adriano Zaccagnini, deputato del M5S, “beccato” a cena alla buvette della Camera. Qualcuno dirà: si dovrà pur mangiare! Sì, ma non lì, perché dal blog di Beppe Grillo buvette e ristoranti di Camera e Senato sono sempre stati additati come privilegio della casta. Zaccagnini si è scusato dicendo di non sapere che in quel ristorante di lusso il deputato paga 15 euro e il resto del conto, si parla di 80-90 euro, è a carico dei contribuenti.
Tutto questo non vi fa ricordare la rivoluzione fallita narrata ne La fattoria degli animali di George Orwell? «Gli animali da fuori guardavano il maiale e poi l’uomo, poi l’uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l’uno e chi l’altro».
L’esilarante teoria del meno peggio
Una larga fetta di italiani insospettabili si sta facendo imprigionare nella teoria del “meno peggio”. A questi si è aggiunto perfino Michele Serra che nella sua Amaca di ieri ha esortato i grillini a prendere atto dell’esistenza del meno peggio in politica. Grasso è meno peggio di Schifani, Pisapia della Moratti. La parabola di Serra sembra essere tornata al “turiamoci il naso e votiamo Dc” di Montanelli. Anzi, la situazione è ancora peggiore. Perché Serra e quelli che la pensano come lui si fermano ai nomi, alle foglie di fico per dirla con le parole di Grillo. Ma ciò che conta è quello che poi si fa ogni giorno in Parlamento: gli intrallazzi per far passare questa o quella legge, le assenze strategiche, le persone che si mettono nelle utility o nelle banche, gli sperperi tollerati, le opere pubbliche inutili ma ugualmente sostenute e via dicendo. E quando sommiamo tutto questo improvvisamente ci rendiamo conto che le differenze tra uno e l’altro si riducono. Eccome si riducono!
“Il meno peggio è figlio del peggio (…) Il meno peggio ci ha portato l’indulto, l’inciucio, i condannati in Parlamento, gli inceneritori, la Campania-Chernobyl, Mastella ministro della Giustizia, un debito pubblico di 1630 miliardi di euro, la crescita economica più bassa d’Europa, il precariato, l’informazione imbavagliata, una legge elettorale incostituzionale (…) Il peggio e il meno peggio sono come due fratelli siamesi. Inseparabili dalla nascita (…) Peggio o meno peggio, sempre peggio è”. Così ha lucidamente scritto nel 2008 nel suo blog un tale che di nome fa Beppe Grillo.
Il nipote di Mubarak
Il caimano rosso
È dal 2008 che onnipotenti opinionisti ci spiegano perché la sinistra in Italia ha perso e continuerà a perdere. Taluni rimpiangendo Bertinotti, Diliberto, Rizzo, Ferrero e Pecoraro Scanio, altri esprimendo soddisfazione per la loro esclusione dal Parlamento italiano. Mentre accadeva questo, Nichi Vendola procedeva speditamente a occupare il campo della sinistra. Nulla sembra scalfire l’irresistibile ascesa del presidente pugliese. Ha superato abilmente il dissenso con Bertinotti, la perdita di pezzi all’interno di Sel, le disavventure giudiziarie, l’inimicizia di D’Alema, il diktat di Casini che con lui non voleva allearsi e perfino la temibile concorrenza di Grillo. Vendola è un leader carismatico e indiscusso e il gruppo dirigente del suo partito è compatto attorno a lui. Vendola esercita la guida ricorrendo alla motivazione ideale e sentimentale e questo ne fa un capo imbattibile. Continua a leggere
Consumo quindi sono?
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, è un uomo pratico, dallo spiccato accento lombardo che trasuda voglia di fare e gronda concretezza. Non ha nulla di quel temperamento aristocratico di certi imprenditori, per intenderci alla Montezemolo. Parla in modo pacato e chiaro. Ieri nello studio di Che tempo che fa ha detto cose perlopiù ragionevoli, anzi così assennate da non strappare applausi. Sollecitato da Fazio, ha parlato anche del Movimento 5 Stelle. “Alcuni punti del programma sono anche condivisibili, ma non sono assolutamente d’accordo con l’idea della decrescita felice” ha detto Squinzi. Poi il presidente di Confindustria ha ricordato che “solo l’impresa può creare ricchezza, valore sociale e occupazione”. Tutto vero, ma a una condizione: che i consumatori consumino. Altrimenti l’impresa in quanto tale produce debiti e disoccupazione. Squinzi ha recitato con onestà la sua parte, quella di un imprenditore a capo degli imprenditori. Tuttavia continuare a praticare come una sorta di fede il mito della crescita non porta lontano. Proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità. Al momento nessuno propone un nuovo modello compiuto, una ricetta chiavi in mano. Ma tutti, imprenditori compresi, devono concorrere alla nascita di un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate. Nel quale sia possibile avere un sereno benessere senza invocare la bulimia consumistica.
Corsi e ricorsi
“Noi non eravamo nulla e non avevamo nulla. Siamo arrivati ai vertici dello Stato per cambiare le cose, armati solo delle nostre convinzioni, delle nostre forze. Abbiamo affrontato grandi fatiche e grandi sacrifici in nome di un ideale, con l’aspirazione di non subire più la storia, ma di divenirne artefici”. Sono pressoché certo che se domandassi a dieci persone da dove provengono queste parole, almeno la metà risponderebbe dal blog di Beppe Grillo o dal profilo Facebook di qualche esponete del M5S. E invece no. Sono prese dalla prefazione di Storia di un militante, un recente e-book (a breve pare anche in versione cartacea) di Roberto Castelli, nel quale l’ex ministro della Giustizia ripercorre i primi anni della Lega. Molto prima che l’ondata padana invadesse la Capitale, c’era già stata l’esperienza dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Due rovinosi precedenti per Grillo. La meteora di Giannini si disintegrò in pochissimo tempo, la parabola di Bossi si è spenta tra cerchi magici e compromissioni di vario genere. Ha dichiarato Castelli con quel suo solito ruvido linguaggio: “Roma, come tutte le grandi capitali, è un po’ puttana, ti prende, ti affascina. È accaduto a molti di noi, che si sono persi dietro a privilegi e poltrone”. Cos’è la vita se non la scoperta di ciò che siamo?
La faccia buona della cattiva politica
Niente di nuovo dal Parlamento italiano. No, non mi riferisco alla bagarre che ha investito il Movimento 5 stelle, messo già alla prova da tradimenti, voglia di epurazioni e umane debolezze. Sto parlando invece dei nuovi presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso. Ma come? – direte voi – sono nomi nuovi, eccome! Sì, certo, se paragonati a Schifani o al duo Franceschini-Finocchiaro, indigesto a tutti, perfino agli iscritti al Pd, sono freschi novelli. Vecchio è il metodo. Vecchio è il ricorso alle bandiere da sventolare, alle icone da esibire quando non si hanno programmi. La paladina dei popoli in fuga e il procuratore nazionale antimafia sono diventati i presidenti delle due Camere nel Paese messo ripetutamente all’indice da Human Rights Watch per le accuse di xenofobia, discriminazioni e respingimenti, nel Paese divorato da ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra. La mappa della criminalità organizzata in Italia è in costante espansione e le recenti prove delle infiltrazioni nelle regioni del Nord lo confermano. Nella Piana di Gioia Tauro e in molte altre parti i migranti africani sono trattati come schiavi. Siamo davvero disposti a credere che tutto questo cambierà solo per avere udito tromboneggiare alla Camera e al Senato opinioni generosamente generiche e ingenuamente ideologiche? Siate buoni, se potete. Vogliamoci bene. E vogliamone soprattutto ai deboli, giacché ci siamo. Il Parlamento vestito di nuovo è caduto in un equivoco di sostanza: credere che sia sufficiente esporre qualche icona per opporsi ai problemacci della vita. Sarebbe il momento di ostentare intelligenza più che simboli. Invece continuiamo a illuderci che sia sufficiente citare Madre Teresa per sentirsi misericordiosi e Martin Luther King per apparire tolleranti e giusti. Di questo passo aspettiamoci un governo “poetico”.
Per i capelli che portiam
Ancora a proposito del professor Paolo Becchi che sul blog di Beppe Grillo ha citato Pasolini e del mio post di ieri nel quale invitavo a citare un po’ meno Pasolini e a leggerlo di più, ebbene a proposito di tutto questo con profonda e fiera incoerenza mi è venuta una gran voglia di citare Pier Paolo Pasolini. “Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda”.
Ciao rivoluzionari.
Giù le mani!
Con un post pubblicato ieri sul blog di Beppe Grillo, Paolo Becchi, il “filosofo” del Movimento 5 Stelle, ha tentato di appropriarsi dell’eredità intellettuale di Pier Paolo Pasolini citando il verso di una sua poesia: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo”. Il professor Becchi ha usato l’intellettuale Pasolini come una clave per dare in testa agli “intellettuali” de La Repubblica. E fin qui passi, anzi si può perfino condividere lo scopo. I problemi sono altri. Primo: il verso richiamato da Becchi andrebbe riportato interamente: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente”. Pasolini in quella poesia (Il Pci ai giovani!!) parla dei fatti di Valle Giulia, schierandosi dalla parte dei poliziotti, non dei manifestanti universitari. Secondo: come capita alle icone, Pasolini è strattonato spesso di qua e di là, citato a sproposito, evocato per comodità. Salvo poi essere gettato nel fuoco quando occorre liberarsene. Gli intellettuali di sinistra italiani, da Asor Rosa a Sanguineti, lo sanno bene. Forse sarebbe meglio citarlo un po’ meno e leggerlo di più.
Il feticcio della politica
La politica è morta. W la politica! Scandali e miserie umane di ogni risma si susseguono da anni, anzi decenni, ma la strategia della distrazione (si legga al riguardo La fabbrica del consenso di Noam Chomsky) ripara tutto, e tutto fa dimenticare. Occorreranno ancora settimane per disintossicarci dall’ultima campagna elettorale, che per settimane ha avvelenato TV e stampa. Sembrava che gli italiani questa volta ne avessero davvero piene le scatole e invece la politica italiana per partenogenesi si è riprodotta ancora una volta. Non è stato necessario fecondarla con la passione dei cittadini, è bastato il diluvio di dibattiti e ospitate per imprigionare le nostre menti e condurle all’ovile delle urne. La politica ha generato l’antipolitica pur di perpetuarsi. E non è la prima volta. Continua a leggere
Consumi, consumi, consumi
Dicono che per far ripartire l’Italia occorre incrementare i consumi. Ma quali consumi? Dispongo di un’auto tedesca, uno scooter coreano, due personal computer taiwanesi, uno smartphone californiano, una fotocamera giapponese, un frigorifero olandese, svariate librerie svedesi. E poi scarpe per il running dall’Oregon, polo dalla Francia, felpe dal Regno Unito. Perfino i cereali che consumo al mattino vengono dalla Svizzera. L’unico prodotto nostrano resta (per ora) il grana padano. Ma quanto ne devo grattare sui maccheroni per far ripartire l’Italia?
Il cavallo di san Francesco
Il Santo d’Assisi ha lasciato tanti insegnamenti tra cui quello di muoversi tra le bellezze della natura utilizzando il mezzo di locomozione più semplice ed ecologico: le proprie gambe. Tra la moltitudine di notizie riguardanti il nuovo pontefice, che guarda caso ha preso il nome di Francesco, fa capolino anche questa: Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires gira in autobus. Che non è proprio come andare a piedi o in bicicletta, ma è sempre meglio che in elicottero.
Crollano i consumi di carburante. Evviva!
Fra i settori più penalizzati dalla crisi c’è quello dei carburanti. L’anno passato la caduta della domanda si è accentuata e i consumi petroliferi totali in Italia hanno registrato un calo dell’11,4%, toccando i minimi dagli anni Sessanta. La discesa sembra continuare anche in questi primi mesi del 2013. È un male? O forse gli italiani si stanno stancando di sottostare alla tirannia dei petrolieri? Magari è un’illusione credere che, oltre ai rincari e alle tasche vuote, abbia concorso a frenare la corsa alle pompe anche la preoccupazione per la propria salute e i cieli inquinati. Però sia l’una che gli altri ringraziano.
Cosa ha consumato il consumismo?
Nel 1962 fece la sua comparsa nelle librerie italiane un titolo profetico, La vita agra di Luciano Bianciardi, capace di prevedere, con mezzo secolo di anticipo, l’Italia di oggi. È un libro che dovrebbe rientrare di diritto nei programmi scolastici e che invece pochi conoscono e ancora meno leggono. In tempi di grande entusiasmo, ha prefigurato i temi che progressivamente hanno preso piede nella nostra società: la crisi economica e di valori, il precariato, lo sfruttamento del lavoro intellettuale.
Ma come parli? Le parole da evitare
Qualcuno prima o poi scriverà un libro o magari farà un film sulla “grande bolla” della comunicazione. È un tripudio di esperti e studiosi del linguaggio e dei processi comunicativi. Eppure mai come oggi le parole appaiono spesso prive di significato, consumate, fiacche, svuotate da un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Involucri vuoti. Nei telegiornali trionfano le frasi fatte. Sulle pagine dei giornali scorrono fiumi di parole che non parlano. Nelle pubblicità si ripetono slogan afoni. E le dichiarazioni dei politici sono costellate di formule fisse, che distraggono l’ascoltatore e denotano soltanto pigrizia e trascuratezza. Anche negli ambienti di lavoro la musica non cambia. È un tripudio di locuzioni letali e irritanti termini stranieri di cui ci si ammanta per sembrare più capaci.
Per tornare a essere ascoltati dovremmo rigenerare le nostre parole e restituire loro un senso. Ci sono problemi più importanti e urgenti, è vero. Manca il lavoro, ma non sarà certo con le parole vuote che ne creeremo di nuovo. La forma a volte è sostanza, soprattutto nel linguaggio.
Pane, amore e…
Potranno ridurci i servizi, aumentarci le tasse e sottrarci pian piano ogni forma di agiatezza, potranno anche renderci più poveri e arrabbiati. Ma c’è una cosa che non potranno mai portarci via: la benevolenza e l’amore che abbiamo intorno. E allora, alla domanda che tutti ci poniamo di questi tempi – ma questa crisi prima o poi finirà? – rispondo così: sì, possiamo sperare in un futuro migliore. È giusto confidare. Nonostante tutto. Intanto però facciamo crescere il numero delle persone a cui vogliamo bene e che ci vogliono bene.
Mercati, maledetti mercati
A leggere i commenti sui giornali, a partire dal Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa e via via a scendere, sembra che la bontà di ogni scelta politica dipenda esclusivamente dal giudizio espresso dai mercati finanziari. Questi vengono considerati come attori economici neutrali, giudici spietati e inflessibili, ma imparziali, della credibilità e della reputazione di uno Stato sempre meno sovrano. Quand’è che i mercati finanziari hanno assunto questo peso specifico? Da quando rappresentano il senso comune? Da quando sono diventati l’espressione democratica ed efficiente delle scelte giuste?
Sempre più spesso di leggono frasi del tipo: “il provvedimento non piace ai mercati” oppure “i mercati bocciano la manovra” o ancora “attendiamo il giudizio dei mercati”. Chi diavolo sono questi misteriosi mercati? Ha scritto tempo fa Michele Serra su Repubblica: “Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio conta più del giudizio dell’intera classe politica mondiale? Perfino i più esecrabili dittatori ci mettono la propria faccia, e a volte finiscono la carriera appesi a un lampione. Perché i mercati no?”. Continua a leggere
La pelle di Curzio Malaparte
“Una volta si soffriva la fame, la tortura, i patimenti più terribili, si uccideva e si moriva, si soffriva e si faceva soffrire, per salvare l’anima, per salvare la propria anima e quella degli altri (…) Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Tutto il resto non conta (…) È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta ormai”.
Che libro scomodo, politicamente scorretto, crudo, implacabile e colto è La pelle di Curzio Malaparte. L’ho letto una prima volta al liceo, erano gli anni Settanta. Condizionato dal clima culturale, non ne colsi la potenza visionaria. Sprecai il tempo a cercare le prove dell’incoerenza di Malaparte, che è stato fascista e antifascista, vinto e vincitore. Solo molti anni dopo compresi che nelle sue contraddizioni l’autore era stato straordinariamente coerente. Aveva coltivato un’idea così diversa dell’Italia da riversare in quelle pagine grondanti di orrori tutto lo smarrimento per il martirio di un Paese e della sua identità. Continua a leggere
Contronatura
Durante gli anni Settanta e Ottanta, negli Stati Uniti veniva aperto un nuovo centro commerciale ogni sette ore. Credo che nessuno stia tenendo un conteggio del genere in Italia, ma da noi sta accadendo qualcosa di simile con tre decenni di ritardo. Strutture mastodontiche, quasi sempre mostruose, fioriscono in prossimità dei grandi svincoli autostradali, lungo le tangenziali, alla periferia di città grandi, medie e anche piccole. Il fenomeno appare ancora più aggressivo in provincia. Com’è possibile che la vita nelle metropoli sia meno subordinata al mondo del consumismo rispetto alla vita nei piccoli borghi, che all’apparenza dovrebbero offrire più libertà di movimento e svaghi genuini? Continua a leggere
Consumi come nel 2004. Ma è un bene o un male?
“Consumi in picchiata. Precipitano ai livelli del 2004”. Il dato, con relativo commento, è stato diffuso da Confcommercio e si è subito messa in moto la litania dei quotidiani. A nessuno è venuto in mente di interpretare il paragone. Cosa significa essere tornati al 2004? Qual era la situazione dei consumi delle famiglie italiane in quell’anno? “La spesa pro capite per consumi è oggi più che raddoppiata rispetto al 1970. La sua crescita si è però fermata negli ultimi sei anni, dopo essere stata pari in media all’1,7 per cento nel corso degli anni Novanta. Dal 1990 la dinamica dei consumi è stata comunque assai più sostenuta di quella del reddito disponibile, il cui valore pro capite è rimasto sostanzialmente stazionario per tutto il periodo“. Questo è un passaggio contenuto in una lezione di Mario Draghi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia, tenuta nel 2007 all’Università di Torino. Spiega molte cose. Innanzitutto che i consumi al 2004 non erano affatto male. In pratica, tolta una breve parentesi fra il 1992 e il 1993, erano cresciuti ininterrottamente per 30 anni, per poi assestarsi negli ultimi 5 o 6. Questo aumento dei consumi peraltro è avvenuto pur in presenza di un reddito stazionario negli anni Novanta. E allora occorre porsi qualche domanda: non siamo stati scriteriati prima? Era così necessario spingere i consumi in assenza di un’adeguata crescita della ricchezza individuale? Invocare la crisi, lanciare allarmi e seminare il panico, la stampa ormai sembra saper fare solo questo. Eppure basterebbe poco, forse soltanto un po’ di voglia di studiare, per analizzare in modo più approfondito i dati che vengono somministrati con generosità. Se rinunciamo a fare questo, non comprenderemo mai cos’è accaduto e men che meno dove stiamo andando.