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Chi ha distrutto le nostre città?

centro commerciale

Ieri sera il TG LA7 ha dedicato un ampio servizio al dilagante fenomeno del gioco d’azzardo: un esercito composto prevalentemente di pensionati, lavoratori precari e casalinghe riempie le sale e i bar. Tutti ipnotizzati dalle slot machine. Lo spunto è arrivato dalla vicenda di Luigi Preiti, il calabrese di 46 anni responsabile della sparatoria davanti a Palazzo Chigi, che secondo le notizie diffuse sarebbe pieno di debiti a causa della sua passione per i videopoker. Il direttore Enrico Mentana ha commentato: visto che a guadagnarci, più ancora che lo Stato, è la criminalità organizzata, non sarebbe il caso di vietare queste macchinette?
Rispondo con un’altra domanda: si può non essere d’accordo con questa richiesta? No, non si può. Il problema però andrebbe affrontato con una visione più ampia. Gettiamo uno sguardo sulle strade di una qualsiasi città italiana, grande, media, ma anche piccola, e osserviamo il tessuto commerciale che la caratterizza. Presto ci rendiamo conto di cosa non troviamo più: il fruttivendolo, il macellaio, la latteria, la drogheria, la sartoria, la cartoleria, insomma tutte quelle attività che ancora un paio di decenni fa rendevano vive e vivaci le nostre città. Sono state spazzate via dal diffondersi di quelle strutture mastodontiche, quasi sempre mostruose, che sono fiorite in prossimità dei grandi svincoli autostradali, lungo le tangenziali, nelle periferie: i centri commerciali. Il fenomeno, che è stato ancora più aggressivo in provincia, ha dato origine al nuovo tipo di passeggiata: una monotona scarpinata fra vetrine di negozi poste in sequenza, interrotte solamente dai banchi e i tavoli di fast food, una simil-città sradicata da qualsiasi luogo definito sulla superficie terrestre. Una volta dentro si potrebbe essere ovunque, alla periferia di Los Angeles come a Viterbo, a Shangai come a Monza. Lunghi corridoi anonimi e coperti, illuminati artificialmente, popolati da giovani e adulti che non sanno resistere al desiderio di acquistare, quasi fosse il solo modo conosciuto per dimostrare di esserci. Lì dentro perlopiù si vendono merci scadenti, perché l’economia dei consumi facili predilige prodotti di bassa fattura, che si logorino in fretta o si possano migliorare continuamente. La tradizione, il valore artigianale, la cura per il bello sono considerate soltanto perdite di tempo.
La città redditizia ha sostituito la città bella e il processo è stato pianificato con attenzione. Tutto risponde a un disegno preciso, quello di trasformarci in stolidi consumatori perennemente indebitati. Intanto i nuclei storici svuotati di fruttivendoli, salumai e panettieri si sono ripiegati su stessi e sono stati occupati da altre attività commerciali: compro oro, sale giochi, centri massaggi, agenzie immobiliari e banche. Le prime sono spesso strumenti di riciclaggio del denaro in mano alla criminalità organizzata. Restano le banche. Già, le banche.

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Bettino Craxi, le monetine, l’euro e la svendita dell’Italia

bettino craxi

Il 29 aprile del 1993 la Camera dei deputati negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, inquisito dalla Procura di Milano nel corso di Tangentopoli. Il diniego provocò l’ira dell’opinione pubblica e fece gridare allo scandalo numerosi quotidiani. In aula ci furono momenti di tensione, i deputati della Lega e dell’Msi gridarono “ladri” ai colleghi che avevano votato a favore di Craxi. Alcuni ministri del governo Ciampi si dimisero in segno di protesta.
Il giorno seguente si svolsero manifestazioni di dissenso: alcuni giovani sostarono in piazza Colonna scandendo slogan contro il Parlamento; altri protestarono davanti alla sede del Psi in via del Corso. Ci furono anche manifestazioni del Movimento Sociale Italiano e del Pds. Migliaia di persone si radunarono in piazza Navona per ascoltare i discorsi del segretario Occhetto, di Rutelli e di Ayala. Una folla infine invase Largo Febo e attese Craxi all’uscita dell’hotel Raphael, che da anni era la sua dimora romana.
Quando l’ex segretario del Psi uscì dall’albergo, i manifestanti lo bersagliarono con lanci di oggetti, insulti e monetine. Quest’episodio, riproposto centinaia di volte dai Tg, fu preso come simbolo della fine politica di Craxi e di un intero periodo.
Il giorno successivo, ritagliai dalla prima pagina di un quotidiano la foto che ritraeva quel momento e l’appesi alla parete del mio ufficio di allora. Avevo sempre nutrito una profonda antipatia per Bettino Craxi, un’antipatia umana prima ancora che politica. Di lui non sopportavo i toni, le lunghe pause, quel modo un po’ teatrale di parlare alla stampa e agli astanti. Nella mia visione immatura e integralista della situazione italiana, Craxi rappresentava la peggiore espressione del potere.
Mi ci vollero anni per comprendere che la vicenda umana e politica di quell’uomo era assai più complessa di quanto avessi inteso fino ad allora. E mi vergogno ancora oggi per avere affisso quel ritaglio di giornale. Fu un gesto sciocco e vigliacco.
Il processo di revisione storica sulla figura di Bettino Craxi è tuttora in corso e la temperatura è sempre altissima quando di parla di lui. I fomentatori di odio che si arricchiscono attraverso la stampa nazionale e anche una parte della classe politica continuano a usare insulti non appena si evoca la figura di Craxi.
Non provo neppure a riassumere in queste poche righe l’esperienza craxiana, né intendo esprimere un giudizio politico sul suo percorso di segretario di partito, premier e statista. Il Psi in quegli anni degenerò e diede vita a una classe politica locale compromessa. Questo è un fatto che molti hanno potuto osservare. Tuttavia dipingere Craxi come un criminale è una caricatura stupida e inaccettabile. I suoi peggiori nemici si annidano a sinistra, sebbene Craxi sia stato indubitabilmente un politico di sinistra, nel solco della storia del socialismo riformista. Ha rivitalizzato il Psi, ha intuito prima di altri quanto l’Italia avesse bisogno di una modernizzazione economica e istituzionale, e su questo sfidò due grandi forze come la Dc e il Pci.
La storia di questi ultimi due decenni ha ampiamente dimostrato che il malcostume nelle vicende politiche italiane è così ben radicato da non poter essere estirpato mediante l’uso di simboli e capri espiatori. Non occorrono nomi, ma credo che ciascuno di noi possa elencare molti episodi al cui confronto le malefatte socialiste di quegli anni paiono furtarelli. In ogni caso non si restituisce la verità sul caso Craxi stando a ragionare se lui fu meglio o peggio, o come tanti altri. Di alcune cose però possiamo essere certi. La prima: tutta la classe politica italiana fu reticente e ambigua davanti al discorso che Craxi fece alla Camera e nel quale disse con parole crude che il problema del finanziamento illegale non riguardava soltanto il Psi ma l’intero sistema. La seconda: Craxi si assunse spesso la responsabilità di posizioni difficili e decisioni conflittuali, soprattutto nelle scelte internazionali. Chiudo riproponendo lo stralcio di una sua intervista rilasciata nel 1997, da due anni era considerato, per lo stato italiano, un latitante. Le sue previsioni in merito all’euro e all’Europa e alle conseguenze devastanti che avrebbero portato si sono dimostrate vere in forma drammatica. Attenzione, Bettino Craxi non fu mai un oppositore dell’idea di un’Europa unita. Anzi, più volte si espresse a favore di una grande Europa, ma dall’ampio respiro mediterraneo. Ecco, non vorrei scivolare nella fantapolitica, però è lecito interrogarsi, a distanza di anni, se un uomo con queste idee potesse sopravvivere alla forza ineluttabile dei poteri che si stavano affermando.

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Gian Giacomo Gallarati Scotti: il conte amico degli orsi

orso

A differenza di quanto è accaduto sulle Alpi Francesi, Svizzere, Austriache e Tedesche, in Italia è sopravvissuto fino ai giorni nostri uno sparuto nucleo di orsi bruni. Pochi esemplari tenacemente arroccati nelle selve trentine della Val di Tovel e delle Dolomiti di Brenta. Attorno a quel minuscolo gruppo, tra la fine degli anni Novanta e il Duemila è stato avviato il progetto Life Ursus, che prelevando orsi bruni dalla Slovenia e liberandoli sui monti del Trentino occidentale ha favorito il processo di ricolonizzazione delle Alpi italiane. Non sono più rari gli avvistamenti di orsi in Alto Adige, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Alcuni animali particolarmente vivaci sono sconfinati anche in Svizzera, Austria e Germania, purtroppo a volte senza ricevere un’adeguata accoglienza. Se tutto questo è potuto accadere è merito di pochi uomini che nei decenni passati, quando il destino di questo animale, simbolo universale della natura selvaggia e icona delle Alpi, sembrava ormai tristemente segnato, non si sono rassegnati ad assistere inermi a una probabile estinzione, ma hanno lottato perché ciò non accadesse. Gian Giacomo Gallarati ScottiFra queste figure merita una menzione speciale Gian Giacomo Gallarati Scotti, che prima di ogni altro si è impegnato a favore dell’orso bruno delle Alpi. Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa di questo nobiluomo che ha vissuto in equilibrio tra il tramonto di un’epoca e la modernità di certe sue intuizioni e mi piace ricordare la sua figura. Gian Giacomo Gallarati Scotti nacque da una famiglia d’antichissime tradizioni, figlio di Gian Carlo, principe di Molfetta e duca di San Pietro, e di Luisa Melzi d’Eril dei conti di Magenta. Il nonno, il duca Tommaso Gallarati Scotti, era stato un personaggio mitico dell’aristocrazia milanese e quindi europea. Fin dall’infanzia Gian Giacomo visse nelle alte sfere e la sua fanciullezza trascorse felice. Fra i ricordi di bambino conservava con diletto le vacanze di fine Ottocento trascorse al Grand Hotel des Alpes di Madonna di Campiglio. Fu lì che la sua famiglia strinse amicizia con l’Arciduca Alberto, cugino dell’imperatore Francesco Giuseppe. I Gallarati Scotti furono sospinti verso le Dolomiti di Brenta dalla passione per la caccia del principe di Molfetta. Mentre i familiari s’intrattenevano con gli ospiti cosmopoliti di una élite di fine secolo, egli vagava per i monti, con le guide al seguito e la carabina in spalla, nella speranza di imbattersi in un orso. La famiglia Gallarati Scotti era solita trascorrere il mese d’agosto nell’astro di Campiglio. Il resto dell’estate, invece, lo passava nella villa di Oreno, ai margini meridionali della Brianza, dove si trasferiva dalla fine della scuola fino alla riapertura, dopo Ognissanti. In quel tranquillo paesino agricolo, la nobile casata possedeva un’importante dimora, cinta da un immenso e scenografico parco. Terminata l’estate, i Gallarati Scotti si ritiravano a Milano, nell’avita dimora di via Manzoni, situata di fianco alla chiesa di San Francesco di Paola. Lì, il giovane Gian Giacomo respirava a pieni polmoni tutto lo charme di un’epoca, e fra le pareti adorne dei quadri di Cesare da Sesto, Bergognone e Andrea Solario, assisteva all’andirivieni di ambasciatori, generali, baroni, contesse. Pare però che il “petit Molfetta” avesse una predilezione per Oreno, dove si poteva abbandonare al giocoso clima della vacanza fra ludi, danze e recite e, tra l’altro, nell’immenso parco che abbracciava la residenza estiva, poteva incontrare Griso, bellissimo esemplare d’orso bruno dei Carpazi, che suo padre, figura dai desideri “alquanto eccentrici e personali”, teneva in cattività. Il vecchio principe di Molfetta, con la sua passione per la montagna, l’escursionismo e gli animali, aveva tracciato attorno al figlio un circolo magico, dal quale era impossibile evadere. Così, a partire dagli anni Venti, Gian Giacomo Gallarati Scotti iniziò a dedicare risorse ed energie agli studi naturalistici, indirizzando in particolare i suoi sforzi verso la protezione dell’orso bruno. Ebbe una lunga e intensa vita politica che culminò con la nomina a Senatore del Regno. Forte di questo ruolo si adoperò per ottenere l’istituzione di un grande parco nazionale esteso ai gruppi orografici dell’Adamello-Brenta e della Presanella e con centro a Madonna di Campiglio. Purtroppo una forte ostilità fece cadere l’iniziativa. Riuscì invece, nel 1939, a far inserire nel nuovo Testo Unico sulla caccia, la protezione integrale dell’orso bruno su tutto i territorio nazionale.
Una volta ritiratosi a vita privata, la sua esistenza fu dominata da questa missione che restò viva fino alla morte: salvare gli ultimi orsi delle Alpi. Nel 1957 radunò nella sua villa di Oreno un piccolo gruppo di brave persone, che diedero vita a un sodalizio per la protezione dell’orso. Alla riunione era presente anche Dino Buzzati, il quale pubblicò, poi, un ampio e fantasioso resoconto. Dopo la nascita dell’Ordine di San Romedio, fra gli anni dal 1958 al 1962, il Gallarati Scotti pubblicò a proprio spese le sue tre monografie sull’orso: L’orso bruno di Linneo in Italia, La protezione dell’orso bruno in Italia e infine Gli ultimi orsi bruni delle Alpi. Nel 1967 finalmente fu istituito il Parco naturale Adamello Brenta, però ridotto nelle sue dimensioni rispetto alle proposte iniziali del conte. Purtroppo fino al 1988 è stato praticamente inesistente, tanto che ancora nel 1971 un orso fu ucciso proprio nei territori protetti. Per il ripopolamento, come spiegavo al principio, si è dovuto attendere fino al 1999, intanto i vecchi orsi trentini si erano ridotti a tre, forse quattro e non si riproducevano più da almeno dieci anni.
Dallo storico palazzo Soranzo di Venezia o dalla villa di Oreno, Gian Giacomo Gallarati Scotti continuò fino alla fine a dedicarsi ai suoi studi e a intrattenere rapporti con tutti coloro che avevano a cuore le sorti della natura. Il suo serbatoio vitale sembrava inesauribile. Tuttavia, nonostante la volontà di continuare non l’avesse ancora abbandonato, s’intuiva che fosse pervaso dal presentimento della fine. Gallarati ScottiEbbi occasione di incontrare l’anziano aristocratico nel 1981. Volli conoscerlo con tutte le mie forze dopo aver letto un suo vibrante intervento a favore della protezione dell’orso bruno pubblicato sulle pagine della rivista Airone, che proprio in quel periodo vedeva la luce. Ricevetti la netta sensazione di sedermi di fronte a un uomo d’altri tempi. Perdonatemi questa espressione di cui spesso si abusa, ma per quell’occasione è più che appropriata. Il Gallarati Scotti ha vissuto in un’epoca di transizione e ha conosciuto il senso amaro dell’inesorabile e reciproca indifferenza fra la storia e il destino individuale. Egli si è trovato in equilibrio tra il tramonto di un’epoca e la modernità di certe sue intuizioni. L’atmosfera di un mondo passato, il candore dell’idealismo e il sole della nobiltà d’animo hanno illuminato la sua lunga vita. Il 3 gennaio 1983 è volato ai Campi Elisi.

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Napolitano, l’ultimo degli errori?

Giorgio Napolitano è un uomo che si è seduto per tutta la vita dalla parte sbagliata. Classe 1925, l’undicesimo e dodicesimo presidente della Repubblica ha attraversato tutte le stagioni della politica abbracciando posizioni che la storia ha ineluttabilmente bocciato: dallo stalinismo agli anni bui delle invasioni dell’Ungheria e Cecoslovacchia, dalla corrente migliorista alla fine del comunismo. Poi il Quirinale, che improvvisamente ha cancellato i fili di una storia da perdente e lo ha innalzato al ruolo di padre della patria. La saggezza solitamente contraddistingue chi, prima degli altri e non dopo, percorre le strade che conducono al futuro. La scaltrezza, invece, sorregge le figure che passano indenni sopra i propri errori. Napolitano non ha mai smesso di commetterne. Non ha saputo riformare il Quirinale e tantomeno il costume e la politica italiana. Anche l’invenzione Monti, da lui fortemente voluta per coprire il vuoto lasciato dai partiti e soprattutto per affrontare la crisi economica e il confronto con l’Europa, ha sortito gli effetti miseri e miserabili che conosciamo. Se oggi l’Italia è “costretta” ad affidarsi ancora a un uomo di 88 anni con un simile passato, a me non pare un buon segno. La retorica del “sacrificio” preferisco lasciarla al vocabolario di una classe politica inetta e pasticciona e di una stampa complice e altrettanto compromessa. Forse Napolitano sarà l’ultimo presidente di una lunga stagione costellata di errori e colpevoli ritardi. Forse siamo alla catarsi e dopo di lui potrà nascere un’altra politica, tutta da inventare. Forse.

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Abbiate rispetto almeno della povertà

la voce dei poveri

Gad Lerner parla di povertà. Fabio Fazio parla di povertà. Barbara D’Urso parla di povertà. Perfino Corrado Passera e Daniela Santanché parlano di povertà. Siamo un Paese fortunato, sempre più povero, ma ricco di paladini dei poveri. Parlare di povertà è diventato il nuovo esercizio di oratoria dei nostri politici e dei nostri conduttori televisivi. La Tv spazzatura ama mandare in onda scene di anziani ripresi mentre rovistano fra la spazzatura. È un cerchio che si chiude. 
Ma gli uomini e le donne del potere, i “grandi” delle nostre banche, della nostra politica, dei nostri mercati, della nostra cultura e del nostro intrattenimento, solitamente attratti dai rapporti di forza, dal braccio di ferro e dal peso del denaro, cosa ne sanno di povertà? Vallo a capire.
Eppure blaterano, finti contriti ma entusiasti. Blaterano come si blatera di tutto ciò che risulta misterioso, esotico, nuovo. I messaggi contro la povertà (che già di per sé è un’espressione stupida perché nessuno è a favore della povertà) arrivano più convinti e torrenziali proprio dagli ambienti radicalmente più chic. Parlano di un fenomeno che è a loro del tutto estraneo. E difatti mostrano puntualmente di non comprenderlo. Perché la povertà oggi non è più solo una condizione economica oggettivamente misurabile. È anche un senso di insicurezza. È quel camminare su una fune, in equilibrio precario, con il timore di cadere proprio là, dove vivono i poveri.
I confini tra chi è sopra o sotto certe soglie, tra chi è incluso e chi è escluso dalla povertà sono sempre più sfumati. C’è un’ampia zona grigia dove allignano precarietà e inadeguatezza a un sistema dominato dalla competitività. E in questa terra di mezzo, che si allarga senza pietà, si trovano persone non ancora classificabili come povere, ma che versano innegabilmente in uno stato di insicurezza crescente. Comprende pensionati, famiglie riformatesi a seguito di separazioni, giovani precari, quarantenni e cinquantenni espulsi dal mondo del lavoro. La povertà odierna è un concetto delicato e molto sfaccettato che accomuna chi ha paura del futuro e avverte un senso di instabilità.
I nostri filantropi a gettone invece hanno una visione ottocentesca del fenomeno, sul modello dama di carità. Sono rimasti ai pranzi celebrati al “tavolo dei poveri” che uniscono i benestanti ai diseredati, ma solo per pochi istanti. Il banchetto con i poveri, tornato tanto di moda, ha un sapore davvero antico e tetro. È un modo ridicolo e patetico di affrontare la povertà. L’immagine del magnanime personaggio pubblico che siede a tavola al fianco dei poveri è intrisa di ipocrisia e falsità. Serve solo a lavare la coscienza macchiata da privilegi inauditi.

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Chi è il maestro del lupo cattivo?

lupo cattivo

Conoscete la teoria della scala mobile? Vi trovate all’estero, in aeroporto o in metropolitana. Una o più persone, magari vocianti, anziché stare in fila a destra su una scala mobile o un tapis roulant, occupano con noncuranza la sinistra, impedendo a chi ha fretta di superare. Quella o quelle persone sono quasi certamente italiani.
Si tratta di un gesto piccolo, di poca importanza, compiuto più per disattenzione che per volontà di ostacolare gli altri. Eppure è paradigmatico della nostra diversità. Conosco molte persone intelligenti che scrollerebbero le spalle di fronte alle lagnanze sul nostro scarso senso civico, ritenendo che altri caratteri positivi del popolo italiano compensino in modo sufficiente questo difetto. Persone normali, a tratti educate, pronte ad accusare di moralismo o esterofilia chiunque osi far notare che nel nostro Paese c’è una diffusa sottocultura della legalità debole e dello scarso rispetto per tutto ciò che è collettivo. Persone per bene, cresciute però con una profonda convinzione: la fantasia e la creatività, la voglia di intraprendere, la capacità di arrangiarsi sono il nostro valore aggiunto.
Si tratta perlopiù di individui incapaci di comprendere che da tempo siamo entrati in una fase di sviluppo diversa. Una fase in cui un “capitale sociale” appropriato è diventato anche un potente motore di sviluppo. Una fase in cui un Paese e la sua economia sono competitivi in misura proporzionale al senso civico, al rispetto delle leggi, alla fiducia nelle istituzioni, alla capacità di cooperare onestamente che sanno esprimere.
Da noi invece serpeggia, e non solo fra i giovani, un generale senso di sfiducia nelle istituzioni. Del resto le istituzioni a loro volta ci restituiscono ogni giorno almeno un motivo per nutrire questa sfiducia. Secondo Eurispes un italiano su quattro non denuncia i reati subiti, in parte perché i danni ricevuti non sono gravi, ma anche perché tende a prevalere fra la gente un senso di arrendevolezza nei confronti delle forze di polizia e del sistema giustizia.
Lo scarso senso civico ci induce a credere sempre che il problema stia altrove, ovunque fuorché dentro noi stessi. La politica non dà risposte efficaci ai cittadini perché i governanti sono corrotti e incapaci. La pubblica amministrazione non funziona perché i dipendenti statali sono indolenti. La sanità è cattiva perché medici e infermieri sono assenteisti. Ma chi sono il politico incompetente e arruffone, il dipendente delle poste sfaccendato e villano, il medico cinico e inoperoso se non noi stessi?
Lo sdegno che mostriamo spesso, io per primo, non è necessariamente l’atteggiamento maturo e consapevole di chi desidera una Italia migliore. Anzi, credo che sia proprio la nostra incapacità di guardarci dentro il male peggiore del Paese. È questa presunta impunità personale che ci legittima a chiedere a gran voce tolleranza zero per i comportamenti illegali o semplicemente incivili, degli altri però. Invece dovremmo domandarci: chi è il maestro del lupo cattivo?

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Tra il dire e il fare c’è di mezzo il Quirinale

Piazza del Quirinale

La rosa dei nomi per il Quirinale è ricca: Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Romano Prodi, Franco Marini, Anna Finocchiaro, Luciano Violante. A questi si sono aggiunti gli outsider mandati in orbita dal M5S di Beppe Grillo: Stefano Rodotà e Milena Gabanelli. Chi la spunterà? Difficile dirlo. Di una cosa però possiamo già essere certi. Fatta l’eccezione della giornalista di Report, con uno qualsiasi degli altri nomi il Quirinale è destinato a rimanere anche per i prossimi sette anni quella macchina mangiasoldi che ormai tutti conosciamo. In nome della trasparenza delle amministrazioni pubbliche, di recente anche il Colle ha deciso, per la prima volta nella sua storia, di rendere pubblico il bilancio di previsione. Così si scopre che la presidenza della Repubblica prevede di chiudere in pareggio il rapporto tra entrate e uscite, per una somma totale pari a 352.606.518 euro. Dei quali 228.500.000 a carico dei contribuenti italiani! Il Quirinale, non si deve mai smettere di ricordarlo, costa molto di più e ha molti più dipendenti di Buckingham Palace, dell’Eliseo francese e della Presidenza tedesca. Nel 2000 aveva 1.859 addetti civili e militari contro i 923 dell’Eliseo, nonostante il presidente francese abbia molti più poteri del nostro. Col risultato che mentre il Quirinale costava 151 milioni di euro, l’Eliseo ne costava 86. Negli anni successivi il personale è aumentato ancora di più, almeno fino al 2007, quando si è arrivati a 224 milioni di spesa complessiva. (Fonte, I costi della politica in Italia dell’Istituto Bruno Leoni). Dal 2008 a oggi il personale è stato ridotto. Tuttavia negli ultimi tre anni, nonostante si sia parlato tanto di spending review e a dispetto delle note diffuse dal Quirinale con le quali venivano annunciati tagli della spesa, la quota di 228 milioni provenienti dai fondi dello stato non si è ridotta di un centesimo. 
Addio, Presidente Napolitano. Avanti il prossimo.

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Boston: al terrore rispondiamo con un inno alla vita

Ivana

Sono un maratoneta. L’ultima mia maratona l’ho corsa a Firenze, meno di cinque mesi fa. Stamani continuano  a scorrermi davanti agli occhi, come credo a molti di voi, maratoneti e non, le drammatiche immagini di ciò che è accaduto in prossimità del traguardo alla maratona di Boston. Poche e crude sequenze ripetute all’infinito, che testimoniano un gesto abietto e vigliacco, come lo è qualsiasi atto terroristico. Nella mia mente si rafforza un pensiero, lo stesso che, sono certo, si sta facendo largo nella testa di molti maratoneti in tutto il mondo: il prossimo anno devo partecipare alla maratona di Boston. Il prossimo anno, però, è lontano e la strada di un podista è cosparsa di molte incertezze.
Intanto c’è una donna che proprio in questi giorni ha scelto la corsa per cantare il suo inno alla vita. Si chiama Ivana di Martino ed è una mia amica. Sì, lo dichiaro con orgoglio, con lo stesso orgoglio con cui da piccini ci si vanta di avere un cugino che promette di essere un futuro campione. Ivana però è già un campione: di coraggio, determinazione e volontà. Ecco in breve la sua impresa. Monzese di nascita e milanese d’adozione, 42 anni, madre di tre figli, Ivana Di Martino (che ha iniziato a correre a 11 anni) sta attraversando l’Italia di corsa: 21 mezze maratone, in 21 capoluoghi per 21 giorni consecutivi. Da Milano alla Sicilia, andata e ritorno. Tra le mete mi piace ricordare Medolla, in ricordo del sisma in Emilia e in Lombardia, le Cinque Terre per l’alluvione del 2011 e Brindisi in memoria dell’ordigno esploso davanti  all’Istituto «Morvillo Falcone» nel 2012 che causò la morte di una studentessa. Quest’ultima tra l’altro, per un capriccio del destino, è stata la tappa di ieri.  Ivana corre per sé e per il piacere di correre, ma soprattutto per somministrare il fuoco dei valori in cui crede: la difesa dei diritti delle donne (l’iniziativa è sostenuta dall’Associazione Doppia Difesa fondata da Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker che si occupa di accoglienza, assistenza consulenza psicologica e legale in favore delle donne vittime di ogni genere di violenza abuso e discriminazione) e la salute (l’atleta è stata operata due volte per problemi cardiaci ed è quindi monitorata attraverso i più moderni strumenti di telemedicina dall’equipe medica del Cardiologico Monzino per studiare gli effetti positivi dell’attività sportiva sui pazienti precedentemente affetti da cardiopatie).
La corsa di Ivana è anche una marcia verso una felicità che è fatta di leggerezza e di sottrazione. Perché in un’epoca dominata dalla sofisticazione, il semplice gesto di rullare le gambe su strade d’asfalto o sentieri sterrati ci restituisce la sensazione di essere animali in libertà e ci allontana dalle maschere dietro cui ci nascondiamo tutti i giorni. E in questa triste giornata il suo messaggio si alza in cielo forte più che mai.
Per chi fosse interessato, può seguire la mamma podista sulla pagina facebook.com/21voltedonna e sul suo blog http://21voltedonna.wordpress.com/. Oggi Ivana è a Potenza, il 17 a Napoli, il 18 a Campobasso, il 19 a L’Aquila, il 20 ad Ancona, il 21 a Perugia, il 22 a Firenze, il 23 a Medolla, il 24 a Venezia, il 25 a Trieste, il 26 a Trento, e il 27 gran finale con la Monza-Milano.

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La crisi è finita

Sissignori, avete letto bene: la crisi è finita. La nuova realtà è questa. È ingannevole inseguire ancora la chimera della crescita. Occorre prendere atto con realismo e umiltà che siamo entrati nella post growth economy, cioè in un’economia del dopo crescita, e che in Italia non ci saranno più incrementi esponenziali permanenti dei consumi e del Pil. Chi ce lo fa credere, ci inganna sapendo di mentire. Tenta solamente di tenerci soggiogati, di promuovere la fabbrica dell’uomo indebitato, di spremerci fino all’ultimo centesimo. 
Lo so, la tesi è muscolosa, ma dobbiamo affrontare la realtà. Vogliamo ricordare quali sono state le cause della crisi economica iniziata nel 2008? Quella crisi trae origine dal debito accumulato negli anni precedenti dalle famiglie americane, un debito contratto per soddisfare consumi eccessivi. Gli americani, e come loro gran parte degli occidentali, italiani compresi, hanno abusato per lungo tempo dei prestiti ipotecari e delle carte di credito vivendo al di sopra delle proprie possibilità economiche reali. Hanno acquistato più beni di consumo, auto più veloci e case più grandi e lussuose di quanto si potessero permettere. Insomma la crisi affonda le proprie radici nella spinta estrema al consumismo. L’epilogo, come è noto, è stato che quella crisi americana ha contagiato il resto del mondo.
Le iniziative messe in campo dalla governance internazionale, e in particolare da quella italiana, hanno assunto la dimensione di un crack senza precedenti che fanno legittimamente dubitare della loro efficacia. La deregulation del mercato del lavoro non ha favorito l’occupazione, anzi l’esercito dei senza lavoro e dei precari è cresciuto in modo vertiginoso. E ormai è chiaro a molti che parole come competitività e rilancio dei consumi nascondono in realtà un segreto indicibile: la necessità di continuare a fare profitti con la scusa della crisi. Non crescita dunque, ma nuova truffa.
Quello a cui stiamo assistendo è un triste circo senza speranza che spera di ridare forza alla bulimia consumistica degli anni passati. Ma il tempo è scaduto. Un numero crescente di cittadini non vuole più vivere in una società che sforna persone sempre più sole e sempre più illuse di poter risolvere i propri problemi acquistando beni materiali. La gran parte di noi non è più interessata a vivere al di sopra delle proprie possibilità e soprattutto non vuole più essere schiava del mercato creditizio. La crisi è finita. La nuova società è questa.

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Il vento è cambiato? Giudicate voi

Mentre i nostri 945 parlamentari si arrabattano per trovare un premier e un capo dello Stato, noi cittadini faremmo bene a ricordarci qualche dato.
Il primo: tra i grandi Paesi occidentali, l’Italia è quello con il più alto numero di parlamentari eletti. Senza contare i senatori a vita abbiamo un parlamentare ogni 60mila abitanti. In Gran Bretagna sono uno ogni 91mila, in Germania uno ogni 112mila, per non dire degli Stati Uniti dove sono uno ogni 560mila.
Il secondo: in Italia l’indennità parlamentare lorda per i deputati è di 11.283 euro contro 8.500 nei Paesi Bassi, 7.668 in Germania, 7.100 euro in Francia. A cui si aggiungono, in Italia, una diaria da 3.500 euro e altri contributi per assistenti, voli,  pedaggi autostradali e via discorrendo.
Terzo punto: nessuno si avvicina ai 149.215 euro di stipendio base dei nostri deputati europei. Incassano quasi il doppio dei tedeschi e degli inglesi, il triplo dei portoghesi, il quadruplo degli spagnoli.
Quarto punto: il Quirinale ci costa 228 milioni l’anno, 624 mila euro al giorno, ovvero 23 mila euro all’ora.
Questa sera, quando i Tg all’unisono tromboneggeranno sulle presunte trattative odierne, facendoci intendere che dal loro esito dipendono le sorti delle nostre esistenze, ricordiamoci di questi dati.

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Adriano Olivetti: un re in esilio

Adriano-Olivetti

L’11 aprile del 1901 nacque Adriano Olivetti. L’11 aprile del 1976 apparve il primo Apple. Oltre che per la ricorrenza odierna, Adriano Olivetti e Steve Jobs sono stati accomunati dalla passione per il futuro e dalla straordinaria capacità di sognare. Molto si è detto circa il contributo di idee che il primo può avere fornito al secondo.
L’avventura umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti costituisce un’efficace e malinconica sintesi della parabola discendente di questo Paese. È vero che, come ha scritto qualcuno, in tempo di crisi è facile manipolare l’utopia di Olivetti e piegare il suo mito ad altre esigenze. Allora atteniamoci ai fatti.
Attorno alla sua Ivrea, da alcuni definita “l’Atene degli anni Cinquanta”, Adriano Olivetti costruì una fabbrica che divenne il prototipo di un nuovo ordine in cui industria e cultura, profitto e solidarietà si erano stretti in un felice connubio. Gli operai della Olivetti vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, disponevano di asili e abitazioni, godevano di convenzioni. Anche all’interno della fabbrica la situazione era diversa: durante le pause i dipendenti potevano servirsi delle biblioteche, ascoltare concerti, seguire dibattiti, e non c’era una divisione netta tra manager e operai, in modo che conoscenze e competenze fossero alla portata di tutti.
La Olivetti degli anni Cinquanta fu anche una realtà all’avanguardia sul mercato. Nel ‘57 produsse il primo elaboratore elettronico al mondo, l’Elea 9003. Questo accadde qui, nel Paese occidentale che oggi figura tra i più arretrati sul fronte dell’innovazione tecnologica applicata in larga scala.
Il sogno, quel sogno che invero si era trasformato in realtà, si spezzò nel 1960, con la morte improvvisa di Adriano Olivetti. In breve l’impresa, che soffriva di una sottocapitalizzazione tipica del capitalismo nostrano, precipitò in una crisi finanziaria. A tre anni dalla morte di Olivetti, nel 1963, i debiti ammontavano al doppio del patrimonio netto e il gruppo rischiava di finire in mano a un pool di banche svizzere. È allora che la vicenda imboccò una strada che si riproporrà più volte nella storia industriale italiana. Un gruppo di intervento organizzato da Mediobanca, che contava su Fiat come partner industriale, “salvò” quell’impresa ricca di prodotti e competenze, ma povera di capitali. Le posizioni del presidente della Fiat, Vittorio Valletta (per cui l’elettronica di Ivrea era un «neo da estirpare») e di Enrico Cuccia (fautore della centralità della chimica per lo sviluppo italiano), fecero sì che, alla fine, nell’operazione di ristrutturazione si sacrificasse proprio il settore dell’elettronica, ceduto alla General Electric. La più grande industria italiana e la più influente banca d’affari posero così fine alla grande avventura. Per la verità l’azienda ha continuato a produrre elaboratori elettronici ancora per anni, pur perdendo la centralità del business. Saranno poi De Benedetti, Colaninno e la Pirelli a impiegare la scatola Olivetti per altre operazioni finanziarie note a tutti.
Ciascuno tragga da questa storia le dovute considerazioni sui meriti e le colpe del capitalismo tricolore. Nell’anno della sua nascita a me piace affidare il ricordo di Adriano Olivetti alle parole di Natalia Ginzburg, che così descrisse questo imprenditore anomalo in Lessico famigliare: «Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante l’occupazione tedesca. Era a piedi; andava solo, con il suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava».

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Quel diavolo di un Salai amato da Leonardo Da Vinci

Cominciamo con un gioco. Pensate ai nomi dei più noti allievi di Leonardo Da Vinci. Probabilmente vi saranno venuti in mente Bernardino Luini e Francesco Melzi. Forse anche Andrea Solari, Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio. Se siete appassionati d’arte non vi sarete scordati neppure Cesare Da Sesto e Ambrogio de Predis. Pochi, pochissimi temo, avranno pensato a Gian Giacomo Caprotti. Eppure fu lui l’unico a rimanere vicino a Leonardo quasi per tutta la vita. L’unico a stringere in modo indissolubile il proprio destino a quello del maestro, del quale fu fedele compagno. L’unico a seguirne il peregrinare fra le corti rinascimentali. La vicenda umana e artistica del Caprotti era ben nota agli scrittori del Cinquecento. monumento piazza scalaPerfino il Vasari, nella prima edizione delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani citò solamente lui fra i discepoli di Leonardo: “ed a lui insegnò molte cose dell’arte; e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salai, furono ritocchi da Lionardo”. Salai, ossia diavolo, così il maestro aveva soprannominato Gian Giacomo a causa del carattere irrequieto. Ma la banale svista di uno storico dissolse nel nulla la sua esistenza per lasciare spazio ad un inesistente Andrea Salaino. Fu Paolo Morigia a dare vita all’equivoco, che è sopravvissuto attraverso i secoli alimentando cervellotiche conclusioni. Egli associò gli epiteti Salai e Salaino, rinvenuti fra le carte di Leonardo, alla figura di Andrea Salimbeni da Salerno, un allievo del pittore Cesare da Sesto. Occorse quasi mezzo millennio per ridare un’identità a Gian Giacomo Caprotti. Tuttavia l’immaginario Andrea Salaino sopravvive ancora oggi nella città di Milano, che continua a dedicargli una strada e a indicarlo fra i quattro allievi formanti corona al maestro nel monumento in piazza della Scala. L’esistenza di Salai è stata straordinaria, almeno quanto la discrezione che l’ha avvolta. Molte storie della pittura non ne citano neppure il nome, quasi fosse un argomento tabù sul quale è opportuno tacere. Com’è possibile che una figura capitale nell’esistenza del più grande genio mai apparso sulla terra sia scomparsa per tanto tempo dalla storia? Figlio adottivo, discepolo prediletto, compagno, quale fu il suo vero ruolo? Continua a leggere

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Sogni e suicidi ai tempi della crisi

«I suicidi non sono aumentati, anzi i suicidi economici in Italia sono diminuiti, voi non ci crederete. All’estero è vietato dare notizie sui suicidi, perché una cosa certa è che procurano l’emulazione. Non applaudiamo al suicidio di stato, perché è così che si crea la sindrome e la gente si ammazza». Con queste parole, su Canale 5, si è espresso il giornalista di Libero e collaboratore de Il Foglio Filippo Facci. Non intendo prendere parte a questo balletto di cifre. Trovo fastidioso e cinico stare a discutere se i suicidi riconducibili a problemi economici siano aumentati o diminuiti. Riconosco, però, che stampa e Tv stanno trattando l’argomento con la consueta superficialità. Buttano in pasto all’opinione pubblica tragedie private con un solo obiettivo: vendere copie e fare audience. Nessuno è davvero interessato ad approfondire i singoli casi per accertare le cause dei ferali gesti.
Vorrei invece affrontare la spinosa questione da un’altra prospettiva. Un paio di settimane fa, il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, ha affermato: «Hanno tutta la mia solidarietà, ma gli imprenditori che si sono tolti la vita non sono degli eroi. Eroe è quello che si alza al mattino e continua a lottare». Zuccato si è spinto più in là: «Penso che quando c’è un suicidio, ci siano altri problemi prima della crisi. Lo ho constatato di persona. Un suicidio di alcuni giorni fa attribuito a problemi aziendali si è rivelato collegato ad alcune concause, quali depressione e problemi familiari dell’imprenditore. Sono argomenti che, su persone fragili, possono essere molto pesanti».
La domanda che mi pongo ogni volta che sento parlare di un imprenditore suicidatosi per i debiti contratti dalla sua azienda o di un lavoratore che si è tolto la vita per avere perso il lavoro è proprio questa: è davvero possibile che le difficoltà economiche e finanziarie, per quanto gravi, possano spingerci a farla finita? Certo, per un industriale non è facile assistere al fallimento della propria creatura, tanto più se si considera che il suo tracollo trascina nel baratro dell’incertezza i dipendenti e le loro famiglie. E altrettanto difficile è la situazione del lavoratore, magari padre o madre di famiglia, che fatica a sostenere economicamente i propri cari. Sono situazioni critiche, è evidente. Nessuno può permettersi di minimizzarle. Nessuno tranne i nostri governanti, che hanno ironizzato sui disastri del precariato e degli esodati.
Resta tuttavia un dubbio e cioè che all’origine della disperazione travolgente ci sia un rapporto deformato con la propria esistenza e con quella dei propri familiari e delle persone più vicine. Può un uomo sopravvivere al fallimento di un’azienda e alla fine di un rapporto di lavoro? Può. Anzi, deve. Nessuna crisi economica può giustificare la totale perdita di fiducia in noi stessi. Responsabilità e coraggio sono doti che oggi più che mai dobbiamo custodire con cura.
Ho conosciuto uomini e donne che hanno superato gravissime disgrazie uscendone trasformati e rinnovati. Fino al punto di raggiungere lo scopo più alto, quello a cui tutti aneliamo: dare un senso alla vita. E questo senso, perdonatemi la banalità, non può essere ridotto alla ricerca di successo e denaro. Assicurare per sé e i propri congiunti la tranquillità economica è un obiettivo condiviso, però il nostro vento nocchiero va cercato anche altrove. Soltanto se abbiamo già dentro di noi il vento che soffia sulla vela riusciremo a veleggiare anche quando c’è bonaccia.
Diceva Seneca: «Tu vorresti insegnarmi come conservare i miei beni e la mia condizione, ma io desidererei piuttosto imparare come potrei perderli ed essere ugualmente felice».
Intendiamoci, proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità condivisa. La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata che sia in grado di affrontare l’enorme sfida di assicurare un benessere duraturo. La vera prosperità consiste nella nostra capacità di crescere bene come esseri umani. Ripensare a un pianeta dove ci sia floridezza senza più bisogno di consumi sfrenati non è soltanto uno slogan carico di suggestioni anarco-hippie.
Occorre andare di slancio oltre l’uso di una metrica monetaria, perché a molti degli elementi che determinano il benessere e anche il progresso non è possibile assegnare in modo accurato un prezzo. Oggi ci serve un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate, nel quale sia possibile avere una serena prosperità. Il “buon vivere”, inteso come paradigma etico e morale, custodisce la ricetta alternativa. Ci esorta a ripensare le nostre relazioni con il mondo e a recuperare il dialogo, ci invita a riconoscere le diversità culturali e a riscoprire i piaceri autentici: un buon libro, una passeggiata all’aria aperta, una cena con gli amici, una gita fuori porta con le persone che amiamo, una giornata al museo dietro casa dove magari non abbiamo mai messo piede, la musica di Mozart o Gershwin, la voce della Callas nell’Andrea Chénier. Nulla di tutto questo è indispensabile per vivere. Però non dimentichiamoci di ciò che recita Prospero nella Tempesta: «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». E i sogni ci parlano della parte più profonda di noi stessi, delle aspirazioni più vere. Non chiudiamo i nostri sogni dentro il caveau di una banca. Perché è allora che, d’un tratto, la nostra vita può apparire inutile.

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Ecologisti: estinti o risorti?

Nel 1986 il Wwf Internazionale scelse di festeggiare il 25° anniversario della sua fondazione ad Assisi. Per l’occasione quattro cortei si mossero da Cortona, Gubbio, Nocera Umbra e Spoleto in direzione della città di San Francesco. I pellegrini in Marcia per la Natura furono accolti uno a uno dal principe Filippo di Edinburgo, all’epoca presidente del sodalizio, la sera del 28 settembre. Tutti insieme furono poi ristorati nella “Selva” del Sacro Convento. assisiIl giorno seguente, nella Basilica Superiore, si celebrò un’emozionante cerimonia interreligiosa: i rappresentanti di cinque delle maggiori religioni mondiali (buddisti, cristiani, ebrei, induisti, musulmani) si riunirono in uno storico incontro in favore della natura. Poiché in quegli anni lavoravo presso gli uffici milanesi del Wwf, ebbi la fortuna di partecipare ai festeggiamenti. Solo anni dopo, però, compresi di avere assistito a quello che sarebbe diventato il momento più alto dell’intero movimento ecologista in Italia. Erano gli anni rampanti dell’edonismo reganiano e di una generazione di giovani arrivisti e arroganti, tuttavia nel nostro Paese le associazioni ambientaliste riuscirono, almeno a tratti, a dettare l’agenda politica, costringendo l’opinione pubblica e la classe politica a confrontarsi con temi quali la perdita della biodiversità, la distruzione degli ecosistemi e i limiti delle risorse. Continua a leggere

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Buon compleanno, Francesco

Oggi il Principe compie gli anni, è nato il 4 aprile 1951, e festeggia la sua lunga e brillante carriera con il De Gregori Day. In occasione della tappa torinese legata all’ultimo CD di inediti, l’artista incontra il pubblico e presenta Francesco De Gregori Oggi, una raccolta disponibile solo su iTunes. L’evento potrà essere seguito in streaming su francescodegregori.net.
Dalla sua eccellente discografia pesco questa perla. Non so se è la canzone che amo di più, però mi è sempre parsa il manifesto per eccellenza della raffinata poetica di De Gregori. Sublime ed equivocabile, tanto bella che non importa capirla. Atlantide e la sua elegiaca sinestesia del “barattolo di birra disperata” diventa soffocante per l’emozione che trasporta. Canzone capolavoro. Non capolavoro, di più. Ascoltatela con gli occhi chiusi.
“Ditele che l’ho perduta quando l’ho capita, ditele che la perdono per averla tradita”

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L’importanza di un buon inizio

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Quella per le classifiche è una passione infantile, alla quale però è difficile sottrarsi. È un modo per catapultare chi ci ascolta o ci legge direttamente dentro il mondo delle nostre emozioni. Quand’ero molto giovane ero animato da un furore classificatorio: i dischi più forti, i film più emozionanti, i più bravi cantanti, i migliori attori e le più belle attrici, i piatti preferiti e via discorrendo. Anni dopo ho letto Alta fedeltà di Nick Hornby e mi sono riconosciuto nell’ossessione per la catalogazione del protagonista Rob. E siccome un certo delirio solipsistico in realtà non mi ha mai abbandonato del tutto, ecco la mia personalissima classifica dei dieci più belli incipit di tutti i tempi. Nick, te lo dico subito. Ci sei andato vicino, ma fra i primi dieci non ci sei

I dieci incipit più belli di tutti i tempi

Accadde a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare.
Gustave Flaubert, Salambò

Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio caro lettore.
Fedor Dostoevskij, Le notti bianche

Chiamatemi Ismaele.
Hermann Melville, Moby Dick

La storia ci aveva tenuti abbastanza in sospeso, lì intorno al fuoco.
Henry James, Giro di vite

Non c’è niente di meglio della Prospettiva Nevskij, almeno a Pietroburgo, dove essa è tutto.
Nikolaj Gogol, La Prospettiva Nevskij

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne.
J.D. Salinger, Il giovane Holden

E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno.
Don DeLillo, Americana

Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita.
Philip Roth, Lamento di Portony

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!»
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare

Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti.
Javier Marias, Un cuore così bianco

Che ne dite? E i vostri incipit preferiti quali sono?

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Carlo Mauri: l’ultimo Ulisse

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La vicenda umana di Carlo Mauri, nato a Rancio di Lecco il 25 marzo 1930, meriterebbe l’aggettivo leggendaria, ma uso il condizionale perché non sono affatto certo che a lui avrebbe fatto piacere questa attribuzione. A più di trent’anni dalla sua scomparsa, la mostra evento “Carlo Mauri. Io sono qui”, curata dalla figlia Francesca e ospitata fino al 26 maggio a Lecco, al Palazzo delle Paure, ripercorre la vita del Bigio, soprannome lombardo del Mauri, e celebra le sue imprese attraverso un percorso di immagini, filmati e, soprattutto, racconti.
Non sono quanti di voi potranno recarsi a Lecco per visitarla, ma senza dubbio si tratta di un’iniziativa bella e doverosa, perché la figura di Carlo Mauri non è ancora abbastanza conosciuta. Mauri è stato un uomo moderno e generoso eppure non è facile imbattersi in lui. Ad esempio, se cercate il suo nome nella Rete non troverete granché, o comunque molto meno di quanto sarebbe lecito attendersi. Il motivo va forse ricercato nel suo modo umile di attraversare la vita, nel suo alto ideale umano che lo ha spinto a vivere esperienze uniche e straordinarie rifiutando però la dimensione eroica. Continua a leggere

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Corriere della Sera: la caduta degli dei

Corriere_della_Sera_via_Solferino

La crisi del Corriere della Sera e del Gruppo Rcs viene da molto lontano. La contrazione del mercato pubblicitario, la concorrenza delle testate online e la riduzione dei contributi pubblici hanno inferto  duri colpi allo storico quotidiano, ma le cause del dissesto sono anche altre. Soprattutto altre. Il piano triennale di ristrutturazione annunciato dall’amministratore delegato di Rcs, Pietro Scott Jovane, che prevede il taglio di 800 dipendenti (tra cui 110 giornalisti al Corriere su circa 350) e un netto ridimensionamento delle attività, ha aperto uno scontro aspro. Il Corriere della Sera non è soltanto un quotidiano, è un’istituzione, è “la riserva editoriale della Repubblica italiana” come ha scritto Paola Peduzzi in un articolo pubblicato sul Foglio di sabato 30 marzo. Ma è anche qualcosa di più: è la casa dell’imprenditoria nostrana. Continua a leggere

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Un popolo in fuga

Per molti ormai la vita è altrove, lontani da un’Italia che non ha saputo prendersi cura di se stessa e dei suoi abitanti. I numeri parlano di una vera e propria fuga. Secondo l’Istat, lo scorso anno sono stati 50mila gli italiani che hanno deciso di andare a vivere all’estero, più di 4mila al mese. Come se ogni trenta giorni un piccolo centro sparisse per sempre dalla geografia nazionale. I nuovi migranti sono sempre più giovani e istruiti.
Recenti sondaggi Eurispes raccontano che il 60% degli italiani tra i 18 e i 34 anni si dichiarano sfiduciati e sarebbero disposti a intraprendere un progetto di vita all’estero. La sfiducia aumenta tanto più il titolo di studio è elevato.
Le mete sono quelle dell’emigrazione classica: Germania, Svizzera, Regno Unito, ma anche Canada, Australia e Brasile.
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