La vicenda umana di Carlo Mauri, nato a Rancio di Lecco il 25 marzo 1930, meriterebbe l’aggettivo leggendaria, ma uso il condizionale perché non sono affatto certo che a lui avrebbe fatto piacere questa attribuzione. A più di trent’anni dalla sua scomparsa, la mostra evento “Carlo Mauri. Io sono qui”, curata dalla figlia Francesca e ospitata fino al 26 maggio a Lecco, al Palazzo delle Paure, ripercorre la vita del Bigio, soprannome lombardo del Mauri, e celebra le sue imprese attraverso un percorso di immagini, filmati e, soprattutto, racconti.
Non sono quanti di voi potranno recarsi a Lecco per visitarla, ma senza dubbio si tratta di un’iniziativa bella e doverosa, perché la figura di Carlo Mauri non è ancora abbastanza conosciuta. Mauri è stato un uomo moderno e generoso eppure non è facile imbattersi in lui. Ad esempio, se cercate il suo nome nella Rete non troverete granché, o comunque molto meno di quanto sarebbe lecito attendersi. Il motivo va forse ricercato nel suo modo umile di attraversare la vita, nel suo alto ideale umano che lo ha spinto a vivere esperienze uniche e straordinarie rifiutando però la dimensione eroica. Salire le vette delle montagne ed esplorare gli angoli più remoti del globo gli era così connaturato che, quasi con ingenuità, negava l’eccezionalità delle sue imprese. “Io non sono un superuomo più di quanto non lo siano i minatori in Belgio o i contadini di montagna: ho paura, freddo, fame, desideri come tutti gli uomini; la gente esclude di poter essere protagonista di un fatto e allora crea il super, crea il mito”.
Riassumere l’esistenza di Carlo Mauri è compito arduo, quasi impossibile. Allievo del grande Riccardo Cassin, Mauri è stato uno dei grandi dell’alpinismo mondiale. Ma la sua personalità era più ampia. La montagna gli ha insegnato a soffrire tutti i disagi, “il freddo, la fame, la tremenda pazienza degli interminabili bivacchi” per usare le sue parole, ma i suoi orizzonti spaziali erano ancora più vasti. È stato in Groenlandia, in Congo, in Amazzonia, sulle Ande, nella Terra del Fuoco, in Nuova Guinea.
Carlo Mauri è stato una persona intellettualmente integra, salda nei principi. Quando pubblicò a puntate le storie dei suoi viaggi su La Domenica del Corriere non mancò di affermare il suo credo antirazzista e di criticare la civiltà dei bianchi, che spesso predica l’uguaglianza con chi ha la pelle di un colore diverso e poi non ne sopporta la convivenza. In una memorabile intervista apparsa sulla terza pagina di Tuttosport nel 1967 spiegò che prima di partire per una terra sconosciuta era solito leggere, nelle descrizioni degli altri, miti e falsità: “poi arrivo io e le cose sono diverse” aggiunse, perché gli uomini in ogni terra hanno gioie e dolori.
Il Bigio, come ho già detto, è stato un uomo moderno, capace di anticipare molte delle questioni su cui oggi è arrivata a riflettere gran parte di noi. Il conflitto tra natura e progresso, ad esempio, emerge con forza nei diari dei suoi viaggi in Amazzonia, prima nel 1966 e poi ancora nel 1971: “Gli indios e la loro foresta hanno il diritto di sopravvivere come Dio li fece. Anche perché il loro modo di esistere, tanto più vicino alla natura del nostro, è un modo più umano, certamente più semplice e più vero”.
Era la curiosità a sospingerlo, a portarlo via anche dalla sua famiglia. Lo spiegò bene il perché proprio nella già citata intervista al giornalista e alpinista Emanuele Cassarà: “Io in casa sono un padre di famiglia e non alpinista e non esploratore, ma poi parto, vado via, esco di casa come s’esce per tornare dopo cinque minuti. Dal momento in cui esco non ho più famiglia. Non ‘posso’ averla, altrimenti non potrei partire”. È con questa insaziabile curiosità che nel 1967 partì per la Nuova Guinea. A spingerlo sono due desideri che aveva da bambino: conoscere i selvaggi che avevano ucciso padre Giovanni Mazzucconi (missionario lecchese massacrato a colpi di accetta ) e vedere il boomerang degli aborigeni australiani che, come per magia, torna a chi l’ha lanciato. In Nuova Guinea, incontra i Chimbu, i selvaggi ritratti nell’affresco della chiesa di Rancio che narra del martirio di padre Giovanni. E scrive: “La civiltà nasce con l’uomo e dovunque c’è l’uomo esiste certamente un tipo di civiltà: eppure c’è gente ancora oggi che chiama incivili quegli uomini che hanno una civiltà diversa dalla nostra”. Comprensione e inclusione sono altri due concetti ben presenti nell’avventura umana del Mauri.
Al termine dello stesso 1967, è già in Antartide, trai ghiacci perenni. Nell’agosto dell’anno successivo vola al Polo opposto per partecipare a una spedizione scientifica senza precedenti. Insieme a otto compagni, fra cui subacquei e zoologi di fama internazionale, affronta le intemperie della regione artica per il primo censimento degli orsi bianchi. Ecologista ante litteram, ecco le sue emozioni: “I miei compagni affrontano terribili rischi non per uccidere, non per distruggere, ma per servire la natura, per proteggerla, per salvarla. È un’impresa che esalta».
In ogni suo viaggio la dimensione umana e l’importanza delle relazioni sembrano precedere l’avventura, il rischio, la meta. Fra il 1969 e il 1970, l’alpinista Mauri diventa lupo di mare. Membro dell’equipaggio del Ra, barca in papiro ideata dall’antropologo norvegese Thor Heyerdhal, salpa dal porto marocchino di Sufi per provare che le antiche popolazioni del Mediterraneo erano già in grado, con i mezzi a loro disposizione, di attraversare l’oceano Atlantico. L’avventura si concluse poco più di un mese dopo, a 900 chilometri dall’isola di Barbados. L’anno successivo, è a bordo della Ra 2: l’imbarcazione in papiro salpata dal Marocco il 17 maggio giungerà il 12 luglio a Bridgetown, capitale dell’isola caraibica. Due imprese eccezionali e avventurose, irte di ostacoli: a parte i dispositivi d’emergenza, tutto sulla barca era proprio come nell’antichità, a cominciare dal cibo conservato come l’acqua in giara. Ma il Bigio non guardava solo agli scopi scientifici del Ra. Dopo che il presidente delle Nazioni Unite ricevette l’equipaggio a New York, scrisse: “Abbiamo dimostrato che con il papiro si può navigare nell’Oceano. Ma il più significativo successo del nostro viaggio deriva dall’avere dimostrato come uomini di differente lingua, religione, razza siano diventati compagni”.
Una delle fatiche più note del Mauri è quella intrapresa nel 1972 per ripercorrere la Via della Seta senza mezzi a motore, sulle orme del mitico viaggio compiuto settecento anni prima da Marco Polo. La spedizione fu molto lunga e richiese finanziamenti cospicui. Purtroppo s’interruppe al confine con la Cina: le autorità di Pechino, inizialmente entusiaste, non concessero alla carovana di attraversare il confine. “Avevo vinto la natura ostile – confesserà amaramente Mauri – eppure per continuare il mio viaggio mi mancava un pezzo di carta che un ufficio non aveva voluto rilasciarmi. Questa realtà, fatta di scartoffie burocratiche e di esigenze politiche, distruggeva le mie illusioni. Così d’un tratto. E per questo piansi».
Se pochi conoscono la figura di Carlo Mauri, sono ancora meno quelli che hanno sentito parlare della più tormentosa delle vicende che dovette affrontare. Nel 1960, sciando si ruppe una gamba. Sembrava essere solo un banale incidente, invece si rivelò una frattura con conseguenze disastrose. Sottoposto a vari interventi senza successo, fu costretto ad abbandonare l’alpinismo ai massimi livelli, ma proseguì la sua attività come viaggiatore e reporter dal coraggio e la sensibilità ineguagliabili. Tanti si sarebbero scoraggiati, lui non si chiuse in casa a versare lacrime e imprecare contro un destino malvagio. Con la gamba stretta in un apparecchio di cuoio ripartì dalla casalinga Grigna e poi in giro di nuovo per il pianeta. Rieducato e redivivo, Mauri passò a nuove “prime”, restando sempre ad altezze notevoli. Nel 1966 partì con la spedizione “Città di Lecco” alla volta della Terra del Fuoco. E poi, a seguire, le altre imprese. Questo personaggio straordinario e indomito è stato sempre guidato da sentimenti di tolleranza, simpatia, amore e fiducia verso l’uomo. La stessa fiducia con cui si affidò alle mani di uno sconosciuto medico russo per porre rimedio all’invalidità della sua gamba.
Carlo Mauri è una personalità rara e la sua vicenda umana merita di essere conosciuta, anche dalle nuove generazioni. Non tanto per le sue avventurose conquiste, quanto per la sua profonda sensibilità, il suo entusiasmo e la sua vasta umanità. Ha scritto: “Se non c’è più nulla da esplorare sulla terra, c’è sempre da scoprire l’uomo”.
Da bambino i miti è facile acquisirli, e si vorrebbero imitare almeno per la loro filosofia: così è Carlo Mauri, la vita che è continua ricerca e scoperta dei valori di umanità che abbiamo tutti dentro.
Solo le difficoltà estreme possono farcele tornare su e, vivendole, capire.
Un grande avventuroso, che ha lasciato in me un segno molto importante.
Non posso leggere di lui senza emozionarmi sinceramente.
Nessun presunto emulo moderno può più eguagliarlo (la tecnologia ha distrutto moulta vera avventura).
Grande come lui forse solo la sua Ginetta…
PER TUTTI I MAURI DEL MONDO NOI SIAMO CON VOI! W EZIO (JUNIOR).
In un articolo precedente il nome era quello di Walter Bonatti , oggi Carlo Mauri ed includo Riccardo Cassin ma, da appassionato delle montagne potrei citare i vari Rey , Boccalatte, Gervasutti, Rebuffat ( credo si scriva così ) Castiglioni e chissà quanti altri ancora .
Azzardo a dire che il bello di queste figure stà nel far sentire anche l’alpinista della domenica uno di loro.
Gente che non ha mai trascurato la dimensione romantica , estetica , la dimensione dell’amicizia che è condivisione dell’ avventura , della fatica della gioia etc. tutte cose che non hanno impedito di compiere anche grandi imprese alpinistiche .
Abbiamo assistito a decenni in cui c’è stata una ossessiva rincorsa al “grado”
al limite estremo ” bombole sì bombole no ” etc . dove qualche superato, antiquato, e forse anche frustrato per eccesso di limiti come sono io ,probilmente si è chiesto se si va ancora in montagna semplicemente perchè e bello !
Il riscoprire certe figure , mi rallegra e , in fondo, mi fa sperare che possa soffaire un vento nuovo, magari capace di coniugare i valori di oggi con quelli di ieri .
“si va ancora in montagna semplicemente perché è bello”. Un pensiero semplice e al tempo stesso magnifico.
Quando sento nominare il cognome, se poi si riferisce a un personaggio che è diventato famoso, non nascondo un certo “fremito”.
Forse è un po’ di invidia, direi di no, certamente provo piacere e quindi: W i Mauri.