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Vivere con i libri #7 E scusate se torno di nuovo su Emma Bovary

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Non ha importanza sapere se Flaubert abbia mai pronunciato veramente la celebre frase “madame Bovary c’est moi”. Verità storica o falso letterario che sia, l’affermazione è comunque felice, perché racchiude quel processo simbiotico che deve avere inevitabilmente accompagnato l’autore durante il lavoro. Una simbiosi che si manifestava anche in una sofferenza fisica di cui Flaubert più volte parla alla sua Luoise Colet. “Ah la Bovary! Me ne ricorderò! Mi pare che sottili lame di temperini mi penetrino nelle unghie e ho quasi desiderio di digrignare i denti”, scrisse dal rifugio di Croisset. E ancora, in un’altra lettera buttata giù alle due di notte: “ Dalle due del pomeriggio sono con la Bovary. (…) sudo e ho la gola chiusa. (…) quando ho scritto quella frase ho avuto un attacco di nervi, ero così fuori di me, sbraitavo così forte, sentivo profondamente quel che la mia piccola donna provava”. Solo questo procedimento maniacale poteva portarlo a descrizioni di una intensità profonda e audace al tempo stesso: quando si incontra con Léon in albergo, Emma si sveste “brutalmente”, strappando il legaccio sottile del busto, che le vibra attorno ai fianchi “come una biscia che scivoli”. E al lettore pare di sentirlo il sibilo.
Sartre ha scritto che in Madame Bovary Flaubert si è travestito da donna. Vi è del vero in questa affermazione, perlomeno se la si vuol interpretare nel senso che Emma è la donna, così come la creerebbe un uomo, animal pur. Baudelaire, grande ammiratore dell’opera, sostenne, invece, che Flaubert, incapace di svestirsi della sua identità sessuale e di farsi donna, infuse il suo “sangue virile” nell’eroina. È così che Emma si eleva a donna ideale, almeno per l’uomo, dotata di ambizione, immaginazione e furore erotico. È così che si ottiene un’inversione del prodotto, e che i difetti della signora Bovary diventano qualità. Come Pallade armata, uscita dal cervello di Zeus, l’eroina flaubertiana conosce tutte le seduzioni di un’anima virile in un piacente, affascinante corpo di donna.

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Mafia a Milano, summit segreto a Buccinasco. E ci risiamo

La notizia è di quelle pesanti. E dovrebbe far vacillare anche chi testardamente continua a credere che la fama di Buccinasco sia immeritata. Quale fama? Quella di essere la capitale della ‘ndrangheta nel Nord Italia. Inquadriamo il contesto per i non milanesi. Buccinasco è una città con più di 30mila abitanti  immediatamente a ridosso del capoluogo lombardo. Sotto l’aspetto urbanistico è una realtà strana, sicuramente diversa da come molti la possono immaginare. Non è il classico paesotto di prima cintura metropolitana, con i suoi casermoni tristi e l’aria grigia. Sì, certo, non mancano edifici e anche interi quartieri di squisita bruttezza, risultato delle spartizioni del territorio fra i partiti politici che si sono succeduti alla guida della città. Però a dominare l’aspetto sono altri elementi: al di qua della tangenziale milanese ci sono molti parchi e aree verdi, laghetti nati dall’attività estrattiva ma oggi connaturati da una certa amenità, quartieri cosiddetti residenziali, ossia villette e piccole palazzine coronate da bei giardini. Al di là della tangenziale c’è la campagna verdeggiante con ciò che resta delle sue antiche cascine. Partendo dal centro di Milano e procedendo per pochi chilometri in direzione sud-ovest, lungo l’asse del Naviglio Grande, si possono raggiungere scampoli agresti di un certo interesse, ci si può perdere fra fontanili, rogge e marcite. Dove? A Buccinasco.
Ma questo aspetto gradevole che distingue la cittadina da quelle confinanti e da molte altre della cintura metropolitana milanese è schiacciato dal nomignolo con cui la stampa è solita definire Buccinasco: la Platì del Nord. Tempo fa, è cosa nota, Nando Dalla Chiesa e Martina Panzarasa hanno pubblicato per Einaudi un libro intitolato Buccinasco. La ‘ndrangheta al nord. Il lavoro inquadra con l’aiuto di numerosi particolari la storia di un paese diventato nei decenni una sorta di succursale degli ‘ndranghetisti calabresi. Per la verità non offre grandi novità, perlomeno a chi segue da tempo le vicende, e non è neppure privo di qualche errore nell’esposizione dei fatti. Tuttavia ha il merito di avere messo nero su bianco e in chiave divulgativa ciò che è già scritto negli atti di numerosi processi di rilevanza nazionale. Gli amministratori di Buccinasco, però, sindaco e vicesindaco in testa, non hanno gradito l’operazione editoriale, anzi hanno avuto una reazione decisamente stizzita e hanno accusato Dalla Chiesa di infangare il nome della città e dei suoi abitanti. Da qui ne è nata una polemica che è rimbalzata prima sui blog e poi  sulla stampa. Ci sono stati vari botta e risposta fra i politici locali e l’autore. Quest’ultimo ha cercato di spiegare che è sbagliato considerare gli ‘ndranghetisti presenti come un corpo estraneo che fa i suoi affari senza contatti e collegamenti. Per il resto si è assistito al solito copione, compreso reazioni scomposte e minacce di querele a largo raggio.
Ma torniamo all’inizio e scusate se mi sono dilungato tanto. Qual è dunque la notizia pesante? Quella pubblicata ieri da Il Fatto Quotidiano secondo cui nei mesi passati a Buccinasco si è svolto un incontro tra i rappresentanti di tre potentissime cosche della ‘ndrangheta. Qualcosa che ricorda lo storico vertice del 1981, quando ai tavolini di un bar si accomodarono i maggiori rappresentanti delle cosche di Platì, Africo e San Luca. Il gotha della ‘ndrangheta. Oggi come allora, di mezzo ci sono traffico di droga e i nuovi assetti delle cosche. L’incontro, o forse gli incontri, sono avvenuti mentre gli amministratori locali si scagliavano contro Nando Dalla Chiesa, reo di avere macchiato l’onore della città. Ora, un sano orgoglio campanilistico potrebbe anche essere compreso, ma non può spingere ad attaccare chi denuncia e si batte contro le mafie. Lo scorso febbraio, il vicesindaco di Buccinasco commentando sul suo sito l’adozione del nuovo Pgt comunale ha scritto: “Se questo fosse un comune “normale” di una nazione normale, ieri sera, durante la seduta dedicata all’adozione del nuovo piano regolatore (PGT), ci sarebbe stata una folla di giornalisti, televisioni, centinaia di cittadini orgogliosi di vivere a Buccinasco. Invece? Invece c’erano “quattro gatti”, tra i quali alcuni tipici personaggi da bar, più adatti al “bianchino” e al tressette in oratorio che a fungere da pubblico in questa storica occasione. Naturalmente i media e l’attenzione sono dedicati, come sempre, a personaggi negativi, cialtroni come Corona e le sue gesta, affascinante esempio di un’Italia malata… e poi oramai Buccinasco interessa solo quando si deve parlare di ‘ndrangheta, quasi sempre a sproposito… ma tanto a chi frega veramente della verità?”.
Già, a chi frega veramente della verità?

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Vivere con i libri #6 La musica della vita nei romanzi di Paula Fox

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Per una vita è stata una outsider, un’autrice perlopiù ignorata, dalla critica e dal pubblico. Poi un giorno Jonathan Franzen ha parlato di lei definendola la maggiore scrittrice nordamericana vivente. Così Paula Fox a più di ottanta anni si è presa la rivincita ed è diventata un caso letterario. Anche l’editoria italiana, che non brilla certo per coraggio e lungimiranza, ha seguito l’onda. Dopo Quello che rimane, considerato il capolavoro della Fox, è questo il romanzo elogiato da Franzen, è stato ripubblicato Il segreto di Laura (datato 1976) e via via Fazi ha tradotto anche gli altri titoli. Paula Fox è maestra nella descrizione dei rapporti famigliari, forse grazie alla sua travagliata esperienza personale, raccontata in un’appassionante biografia, Borrowed Finery, che ha contribuito a fare di lei un personaggio di culto. Jonathan Franzen ha scritto che Quello che rimane è superiore ai romanzi di autori come Updike, Roth, Bellow. “Credo che Franzen abbia esagerato, che abbia usato un metro di giudizio poco “letterario”. Non mi sento per nulla a mio agio con quelle parole. E comunque non penso che la competizione letteraria sia molto sana, se non altro perché ora probabilmente mi sono guadagnata l’odio di tutti gli autori citati da Franzen. Dopo aver letto quelle parole sono stata lusingata per circa cinque minuti, poi sono tornata a scrivere” ha dichiarato la Fox anni fa in una delle rarissime interviste apparse in Italia (Corriere della Sera, 2004). I suoi libri, scritti negli anni Settanta, sono ancora molto attuali, profetici paulafox Quello chedirei. Del resto, come ha detto lei stessa, “gli elementi più profondi della nostra esistenza, quelle note che formano la musica della vita, non cambiano nel corso dei secoli (…) Prendete la violenza familiare di cui parlo nei miei libri. Ed è inutile sforzarsi di dire cose nuove: Socrate e Aristotele hanno già detto tutto”. In Quello che rimane la protagonista, Sophie, viene morsa da un gatto randagio, episodio che minaccia di far franare tutto il castello perfetto della sua vita. È uno spunto autobiografico? “Sì. Il mio morso era molto meno serio di quello di Sophie ma è da quell’esperienza che è scaturita l’idea – ha commentato la scrittrice nella stessa intervista. – Proust parlava di un’antica tecnica giapponese che consisteva nel buttare dei pezzettini di carta in un vaso pieno d’acqua e osservare le forme infinite che quei coriandoli assumevano assorbendo l’acqua, diventando, sulla base dei nostri ricordi, case, persone, eventi”. La Fox ha avuto un’infanzia molto difficile. I suoi genitori prima la misero in un istituto, poi l’affidarono ad altre persone. “Il concetto di famiglia mi è sempre stato estraneo – ha spiegato. – Non sono mai appartenuta a nessuna famiglia che si possa definire tale, ed in questo senso sono sempre stata completamente libera. È un vantaggio o una condanna a seconda di come la vedi”. Non appartenere a una famiglia o a una conventicola ha regalato alla Fox un’autonomia di pensiero eccezionale.
paulafox Costa-OccidentaleBenché abbia amato molto Quel che rimane, preferisco, per quanto possano interessare i miei giudizi, Storia di una serva e Costa Occidentale. Ma l’unica cosa certa è che Paula Fox merita di essere letta tutta, ma proprio tutta. Perdonatemi questa banalità, ma ogni volta che in una libreria vedo qualcuno scegliere uno di quei banali, spesso orribili, titoli da classifica e sullo stesso banco, di fianco o poco distante, occhieggia un romanzo della Fox, sono tentato di afferrare il polso del compratore per impedire l’incauto acquisto.
Nella travagliata esistenza della scrittrice c’è stato spazio anche per una figlia avuta in giovanissima età, paula-fox-storia-di-una-serva-dalla quale è stata lontana per decenni. Tra i nipoti della Fox c’è la cantante Courtney Love, che aveva sposato il leader dei Nirvana, Kurt Cobain. A proposito di figli e quindi bambini, Paula ha scritto anche molti libri l’infanzia, spesso dai temi difficili: la morte, l’Aids, l’emarginazione. “Scelgo questi temi – ha spiegato – perché io mi sono sempre sentita una outsider. In fondo ogni bambino lo è in un certo momento della sua infanzia, ad intermittenza. Scrivo, o meglio scrivevo, di cose che venivano considerate pericolose, e di cui di solito si parlava poco. Ora di pericoloso è rimasto ben poco e dunque non scrivo più libri per bambini. Coleridge diceva che non c’è nulla di più pericoloso e sbagliato dell’insegnamento delle virtù. Ai suoi tempi c’erano molti libri di quel tipo e purtroppo ve ne sono anche oggi”.
La Fox ha cominciato a scrivere a quarant’anni, in Grecia, durante una pausa di sei mesi che si era presa. “Sono rimasta sorpresa quando qualcuno si è offerto di pubblicare i miei scritti” ha sempre dichiarato. La sua storia potrebbe indurre a credere che c’è una speranza per tutti. Forse è così. Ma attenzione, la sua scrittura e il suo talento sono merce assai rara.

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Gli avvoltoi che speculano e si arricchiscono sulle nostre rovine

Povertà

Non se ne può più. Letteralmente. Non passa giorno, ma che dico giorno, non passano ore, minuti senza che ci venga propinata l’ennesima indagine sulla crisi e la rovina delle famiglie italiane. L’immagine che emerge è sempre più sconfortante: crolla il potere d’acquisto, peggiorano le condizioni del ceto medio e cresce il numero delle persone in chiara difficoltà economica. La triste litania ci viene somministrata con quotidiano strazio da giornali e Tv. I conduttori dei Tg fanno a gara per chi strilla di più sui titoli di testa: “Sale al 35% il tasso di disoccupazione giovanile!”, “Chiudono mille aziende al giorno!”, “Si ammazzano gli imprenditori!” e “Stramazzano i consumi”.
Complici di questo balletto di cifre sono gli Istituti di ricerca, Istat in testa, i Centri Studi di Confindustria e delle Camere di Commercio e a seguire quelli delle innumerevoli quanto inutili Associazioni di categoria. C’è un esercito di predoni per cui la crisi è un business. Poggiano il culo sulle loro comode poltrone, leggono qualche dato, interpellano un paio di esperti, fanno condurre sondaggi a un plotone di disperati sottopagati e alla fine, compiaciuti, diramano il loro comunicato. Che tutti inconsapevolmente diffondono dalle righe dei propri quotidiani o dalle telecamere delle proprie Tv, sempre e naturalmente col culo poggiato su comode poltrone. Mai nessuno di loro si domanda quale possa essere la reazione di chi sta dall’altra parte, cioè dei lavoratori che temono di perdere il posto, dei disoccupati, degli imprenditori prossimi al fallimento, delle famiglie costrette non a un risparmio virtuoso, ma a mendicare fra gli avanzi di un mercato rionale. No, non se lo domandano, statene certi. E non gliene potrebbe fregare di meno. Oh sì, parlano di povertà. Anzi, siamo proprio un Paese fortunato, sempre più povero, ma ricco di paladini dei poveri. Perché parlare di povertà è diventato il nuovo esercizio di oratoria dei nostri opinionisti e dei nostri conduttori televisivi. La Tv spazzatura ama mandare in onda scene di anziani ripresi mentre rovistano fra la spazzatura. È un cerchio che si chiude. Ma i nostri filantropi a gettone non sanno nulla di povertà, lo trattano come un qualsiasi altro argomento. Potrebbe trattarsi di guerre, stragi o calamità naturali, invece è solo povertà. Tanto loro restano inesorabilmente attratti dai rapporti di forza e dal peso del denaro.
Diciamoci la verità: chi vive in questa terra di mezzo che si allarga senza pietà, dove si trovano persone non ancora classificabili come povere, ma che versano innegabilmente in uno stato di insicurezza e di instabilità crescente, non ha proprio voglia di sentirsi raccontare ogni giorno storie di giovani precari e cinquantenni espulsi dal mondo del lavoro. Chi ha paura del futuro, chi cammina su una fune, in equilibrio incerto, con il timore di cadere proprio là, dove vivono i poveri, ricava dalla vita quotidiana lo stato di difficoltà crescente, e non ha proprio bisogno di conoscere i dati delle ultime indagini della Cgia di Mestre o della Camera di Commercio di Monza e Brianza, tanto per citare un paio di “attivisti” del terrore.
Un’ultima considerazione, ma prima una premessa. Avviso i gentili lettori che questo argomento potrebbe non essere di loro gradimento perché già trattato a sufficienza. Chi non fosse interessato a sentire una questione trita e ritrita è pregato pertanto di chiudere il post. E abbia anche le mie scuse per avergli fatto leggere le righe precedenti. Dunque dicevo, un’ultima considerazione. In tutte le situazioni di crisi, anche le peggiori e le più atroci come i conflitti sanguinari, c’è chi si arricchisce. Si tratta di un semplice, quanto odioso dato storico. In questo momento si scende, scende, scende. Ma non dimentichiamoci che mentre noi altri poveracci diventiamo proprio pezzenti, c’è chi può permettersi di attendere, attendere e attendere ancora. Attendere cosa? Be’ che i prezzi delle cose accumulate con fatica durante la nostra vita (per esempio la casa in cui si vive) diventino irrisori, così che possano portarceli via per un pugno di mosche. Erano ricchi e a fine crisi lo saranno molto di più.

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Riccardo Cassin, l’uomo che si fece montagna

Riccardo Cassin

Sette anni fa, era esattamente il 22 maggio del 2007 ma lo ricordo come fosse ieri, trascorsi un intero pomeriggio con Riccardo Cassin, uno dei più grandi, per molti “il più grande”, alpinista della storia. Scomparve nel 2009, all’età di 100 anni, e quella che ebbi la fortuna di raccogliere quel giorno è una delle ultime interviste rilasciate dal leggendario “uomo rupe”, come lo definì l’amico Fosco Maraini. Ve la ripropongo oggi, sempre con un filo di emozione.

La prima cosa che gli guardo sono le mani. Quelle mani che infinite volte hanno accarezzato la roccia alla ricerca di solidi appigli o di fessure nelle quali piantare chiodi. Sono mani robuste e nodose, ma agili. Belle da guardare. Il dorso è solcato da vene azzurrognole. Riccardo Cassin è l’iniziatore dell’avventura. È vento nocchiero, esperienza, pensiero e muscolo dell’alpinismo italiano. La sua vita racchiude un secolo d’emozioni, di scalate, di prime assolute. Di imprese d’altri tempi, che oggi nemmeno ci sogniamo. Pronunci il suo nome e ad ogni latitudine del globo il pensiero corre a Lecco e ai Ragni, al Resegone e alle Grigne. Nessuna altra voce può raccontare meglio l’anima montana del Lario. Perché la sua meravigliosa avventura è cominciata proprio qui, sulle pareti e sui pinnacoli di casa.
Riccardo Cassin, mito vivente dell’alta quota, si sta avvicinando al suo centesimo compleanno. Mi riceve nella sua casa di Maggianico, mentre sta guardando il filmato di una spedizione in Afghanistan portatogli da Luigino Airoldi, uno dei suoi allievi prediletti. Prima d’iniziare la nostra chiacchierata mi scruta con i suoi occhi ancora vispi, forse per cercare un’affinità d’ambiente. Anch’io lo osservo. Me l’aspettavo, non so perché, un po’ più alto. Invece è un ometto basso. Me l’aspettavo con la pelle raggrinzita dal vento, dal sole e dal gelo, invece ha un incarnato roseo, a dispetto dei suoi anni.
Pascal disse che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola, non sapersene star quieto in una stanza. Vorrei chiedere a Riccardo Cassin se è questo horreur du domicile che l’ha spinto sulle vette più impervie e imbastire con lui una chiacchierata intorno al pensiero pascaliano. Ma so che il maestro non ama la speculazione intellettuale legata all’alpinismo. La sua è una montagna ben definita, che non rappresenta nulla di simbolico. Tuttalpiù si limita ad essere, come egli ama ripetere, una severa maestra di vita. In un articolo apparso nel 1934 sul settimanale Il popolo di Lecco sta scritto: “Intervistare Riccardo Cassin sulle sue prodezze alpinistiche è faccenda assai seria, qualche cosa come affrontare un sesto grado […] Atleta completo sotto ogni aspetto, fisicamente forte, agile, prudente e calmo, sembra estraneo a tutto ciò che si riferisce alle sue doti eccezionali e alle sue brillanti imprese crodaiole”. Del resto Riccardo è friulano di nascita e lecchese d’adozione, due terre notoriamente laboriose e poco inclini alla ciarla. Consapevole di tutto questo non trovo di meglio che partire dal principio.
Cassin mi racconta come è arrivato a Lecco?
«Era il 1926, avevo 17 anni. Lasciai mia madre e mia sorella a San Vito al Tagliamento per raggiungere l’amico Bepi Minett che si era trasferito da uno zio impiegato nella tramvia Lecco-San Giovanni. Gli avevo scritto per sapere se c’era lavoro sulle rive del Lario e lui mi rispose che sì, il lavoro non mancava, ma la cosa migliore era di venire a vedere. Una volta arrivato a Lecco cominciai a fare il fabbro alla Possenti, una ditta che faceva macchine per insaccati. Una domenica, Emilio Possenti, uno dei tre fratelli soci, mi portò in gita al Resegone. Fu il mio primo contato con la montagna. Ricordo che salii con i vestiti e le pedule da lavoro. Quando arrivammo in cima esultammo. Ci pareva di avere conquistato chissà che cosa. Poi scendemmo per il Canalone di Val Negra e per il Passo del Fò fino alla capanna Stoppani, sempre perseguitati da una fame da lupi. La gita al Resegone segnò una svolta decisiva nella mia vita».
Comincia tutto così, con una scampagnata sulla cima che corona la città di Lecco. Per Cassin è amore a prima vista e da quel momento ogni attimo rubato al lavoro viene trascorso in montagna. Nemmeno lui però, quella domenica, poteva immaginare che sarebbero seguite duemilacinquecento ascensioni e cento prime assolute. Partendo dalla Grigna.
«Il contatto con la Grigna avvenne due settimane dopo la salita al Resegone. C’incamminammo di buon mattino lungo la Val Calolden, come si usava fare prima che fosse costruita la strada carrozzabile dei Piani Resinelli. Sopra di noi c’erano nuvoloni carichi di acqua. Tornare indietro, però, manco a parlarne. Per quindici giorni la gita era stata l’argomento principale dei nostri discorsi e a nessun costo eravamo disposti a rinunciarvi. Avanzammo con gamba lesta in mezzo al bosco. Purtroppo avvenne quel che era facile pronosticare: a un tuono ne segui un altro, e appena sopra il rifugio Porta il temporale ci investì».
Ma in tutta la sua carriera l’inossidabile Riccardo è andato sempre e solo avanti, senza cedere neppure nel mezzo di una tempesta. Un commento è diventato celebre “Dove attacca Cassin ci lascia il segno”.
«Una volta che la salita era decisa non tornavo indietro» dichiara perentorio. I suoi occhi vagano con i ricordi. A volte sembra esitare. Poi, come d’incanto la memoria affiora di nuovo e prorompe in battute fulminee. «Non sono mai stato sconfitto. Tutte le mie salite le ho sempre portate a termine al primo colpo. Non ho mai dovuto fare due tentativi della medesima salita».
Non sono mai stato sconfitto. Lo dice più volte Cassin, è il suo mantra. Mi osserva sornione e divertito dopo che l’ha ripetuto ancora. E indugia per un attimo sul mio taccuino che si riempie di appunti. Mi domando se non si stia prendendo gioco di me, così come penso che per tutta la vita si sia preso gioco delle difficoltà che le pareti gli opponevano. Allora, allo stesso modo in cui lui un tempo fissava la montagna davanti a sé e cominciava ad arrampicare, io lo scruto e lo sfido.
Ha compiuto migliaia di ascensioni, ha aperto nuove vie dove prima nessuno aveva nemmeno osato pensare di poter salire. In che cosa consiste la sua eccezionalità? In che cosa lei è diverso da me?
«Dal punto di vista fisico non c’è differenza tra me e lei».
Cassin, la prego…
«Intendo dire che sem du omen, ma ghem una mentalità diversa».
Già va meglio. E allora che cos’è che ci fa diversi?
«Ogni salita ha le sue caratteristiche e le sue difficoltà, così come ogni uomo è differente dall’altro. Non sarebbe nemmeno giusto se tutti e due la pensassimo allo stesso modo. Per andare in montagna conta l’allenamento, poi ci sono le capacità e ciascuno di noi ha le proprie».
L’adrenalina l’abbiamo tutti. Non possiamo eliminarla dal nostro organismo. Tant’è che quando siamo privati di pericoli reali inventiamo nemici artificiali, quali malattie psicosomatiche, vicini di casa o, peggio ancora, noi stessi se siamo lasciati soli nella famosa stanzetta di Pascal. L’adrenalina è la nostra indennità di viaggio, ha scritto Chatwin. Tanto varrebbe allora consumarla in modo innocuo, come ha fatto Cassin. Il mattatore delle Alpi, del McKinley, delle Ande e del Karakorum meriterebbe ben altro spazio. Ma è soprattutto come incontrastato re delle Grigne che a noi interessa conoscerlo.
«Le prime ascensioni in Grignetta risalgono al 1931. Il due luglio scalai la parete Est della Guglia Angelina e il ventisei dello stesso mese raggiunsi lo spigolo Nord del Sigaro Dones».
Quest’ultima via viene dedicata a Valentino Cassin, in memoria del padre scomparso in un incidente nei cantieri per la costruzione della Canadian Pacific Railway quando Riccardo aveva solo tre anni. Nel giro di poco tempo Cassin percorre tutti i vecchi itinerari sulle Grigne e si cimenta nell’apertura di nuove vie che, ancora oggi, sono guardate con rispetto. In particolare merita di essere ricordata quella lungo la parete Sud della Torre Costanza, tracciata nel 1933.
«La domenica salivo lassù e cercavo i passaggi che non erano stati ancora percorsi. La Grigna è un agglomerato di cime che offre un’ampia gamma di itinerari su roccia, dai più facili ai più impegnativi. Oggi appare meno difficoltosa, ma è ancora una palestra interessante. Poche montagne hanno esercitato un fascino tanto prepotente e formato intere generazioni di alpinisti».
Generazioni che hanno scritto pagine memorabili nella storia dell’alpinismo. Se le dico Ragni di Lecco quali ricordi le tornano alla mente?
«Io sono i Ragni di Lecco».
Per un attimo si potrebbe pensare di avere a che fare con un vanaglorioso. Poi guardi quel volto schietto e ti ricordi che hai di fronte il grande vecchio dell’alpinismo mondiale. Cassin, tra l’altro, ha sempre rifiutato la dimensione eroica. Sembra quasi non comprendere l’eccezionalità delle proprie imprese. Salire le vette delle montagne gli era così connaturato che i suoi racconti rasentano talora l’ingenuità. Corruga la fronte. Indugia ancora sul mio taccuino, poi leva gli occhi verso l’alto. Pare che in un solo momento tutte le gioie e le amarezze dei ricordi gli vengano di nuovo incontro. Mi confida che se si mette al bello salirà ai Resinelli. A lui lassù piace anche quando è brutto, sono i familiari che non lo portano se piove e fa freddo.
Perché le piace tanto andare ai Resinelli?
«Mi metto sul prato di fronte a casa e guardo la Grigna. L’è semper bela».
Secondo lei se Riccardo Cassin non fosse venuto a Lecco sarebbe diventato Riccardo Cassin?
Un profondo sospiro è la sua risposta. Sul volto appare un’espressione serena. L’uomo rupe, come lo definì l’amico Fosco Maraini, mi sorride tendendomi la mano. Senza fiato per la meravigliosa ispirazione di questo “piccolo” alpinista, mi alzo, lo ringrazio e me ne vado con la speranza di rivederlo presto, magari durante uno degli eventi che la Fondazione Cassin, nata da un’idea della famiglia e da lui stesso fortemente voluta, ha programmato per celebrare il centenario. Appena fuori volgo lo sguardo al cielo. Sopra i dirupi del San Martino s’innalza la Grigna, la cui sagoma mai mi era parsa così familiare e rassicurante.

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Vivere con i libri #5 Dian Fossey e i suoi gorilla nella nebbia

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All’alba del 21 maggio 1992 fu ucciso, vittima del bracconaggio, Mrithi. Chi era Mrithi? Uno splendido esemplare di gorilla di montagna, silverback maschio del gruppo 13, divenuto popolare per essere stato il protagonista del film Gorilla nella nebbia con Sigourney Weaver. La pellicola, uscita nel 1988, rappresentò l’adattamento cinematografico dell’omonimo libro (Gorillas in the mist nella versione originale) scritto da Diane Fossey (1932-1985), in cui la nota etologa americana raccontò la sua straordinaria vita trascorsa tra i vulcani del Virunga. Per ben diciannove anni la Fossey visse isolata, tra il Rwanda, l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo, in una zona devastata da guerre fratricide, studiando i primati e impegnandosi per la loro salvaguardia. Raggiunse i luoghi nel 1966, e lì cominciò un difficile censimento dei gorilla, proseguendo gli studi già iniziati da George Schaller. Creò il Karisoke Research Center, un centro di ricerca all’avanguardia per lo studio e la protezione di questi animali teneri e temibili. Fu trovata assassinata nel 1985, all’età di 53 anni. Secondo le testimonianze raccolte, il mandante dell’omicidio sarebbe stato Protais Zigiranyirazo, ex governatore del Ruhengeri, cognato dell’ex presidente Habyarimana, successivamente condannato per avere aiutato e incoraggiato il massacro di circa 1.500 Tutsi nel 1994, durante uno dei più sanguinosi episodi del XX secolo: il genocidio rwandese, circa un milione di morti in soli tre mesi.
gorillas in the mist coverIl libro della Fossey, Gorillas in the mist, non descrive soltanto le ricerche scientifiche, ma è anche un penetrante memoriale di questa donna coraggiosa e indomita. E benché alla traduzione cinematografica occorra riconoscere il merito di aver favorito la conoscenza planetaria del suo operato, il libro fa da utile contrappeso alle drammatizzazioni del film e alla centralità dei gorilla nella vita di Dian. Le informazioni sulla sua vita privata, come la relazione con il fotografo Bob Campbell, che è invece in primo piano nell’intreccio del film, scivolano in secondo piano fra le pagine per lasciare emergere i dettagli della sua carriera scientifica. La versione in lingua italiana, pubblicata nel 1994 da Einaudi, oggi si trova con difficoltà: o avete la fortuna di imbattervi in una libreria che ne conserva una copia invenduta da anni, oppure dovete darvi da fare tra le bancarelle e i mercatini di libri usati, rari o esauriti. Oltre a essere una lettura di sicuro interesse, appassionante ed emozionante, Gorilla nella nebbia rispecchia però anche tutti i limiti dell’editoria scientifico-naturalistica nostrana. Limiti che si palesano fin dalla copertina: Gorilla nella nebbia (libro)mentre l’edizione anglosassone offre una foto della Fossey in compagnia di un gorilla, per quella italiana è stata scelta un’immagine dell’attrice Sigourney Weaver con in braccio un piccolo primate. Perché al fascino di una donna che per diciannove anni ha studiato i gorilla è stato preferito quello di una star del cinema? La risposta è scontata. Ma la traduzione italiana, arrivata undici anni dopo, mostra altre debolezze. Nel volume non sono state incluse le bellissime foto di gorilla che arricchivano l’edizione inglese, anche nella sua versione economica (versione che, tra l’altro, costa tre volte meno di quella italiana) e mancano pure la bibliografia e l’indice analitico, sempre presenti nell’edizione in lingua originale. In ogni caso resta un libro da leggere, perché la vita di questa giovane avventurosa e determinata costituisce un raro esempio. La Fossey è stata un’acuta studiosa e una brava divulgatrice ed è sostanzialmente grazie al suo impegno e al suo sacrificio se oggi circa 800 gorilla di montagna, le scimmie geneticamente più vicine a noi dopo gli scimpanzè, sopravvivono tra il Parco Nazionale del Bwindi e il Parco Nazionale del Virunga, dichiarati entrambi dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Il rischio di estinzione di questi animali tuttavia non è affatto scongiurato: deforestazione, bracconaggio e da qualche tempo anche gli interessi delle compagnie petrolifere rendono durissima la battaglia per salvaguardarli. C’è una frase che Dian Fossey amava ripetere e che, forse meglio di altre, riassume l’insegnamento e il senso della sua ricerca: “Quando capisci il valore della vita, di ogni vita, pensi meno al passato e lotti per difendere il futuro”.

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Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta

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Perché corriamo?
Se lo domanda chi osserva un podista, mentre gli sfila accanto, ansimante, infreddolito o accaldato. E se lo domanda il podista stesso. Perché un gesto così semplice, povero e faticoso coinvolge sempre più persone in un’epoca dominata dalla tecnologia e dalla sofisticazione? Forse perché correre è un gesto antico quanto l’uomo. Perché, come scrive Roberto Weber in un bellissimo saggio «la corsa è uno stato d’animo, un frammento nel quale si rivela la condizione umana».
La leggerezza della corsa
Negli ultimi anni sempre più persone si mantengono in forma attraverso la corsa, che è, fra gli sport, uno dei più facili da praticare: è a basso costo e non richiede attrezzature particolari, se non un paio di scarpe adeguate. Correre è diventato sinonimo di benessere, è entrato a far parte dello stile di vita quotidiano di un crescente numero di italiani. La decisione più difficile è quella di cominciare. Ma una volta partiti, non ci si ferma più. Perché la corsa è esigente, vuole impegno e dedizione, però rilascia anche un’infinità di emozioni. È per questo che, in barba alla fatica, si avverte l’irrinunciabile desiderio di tornare a correre appena è possibile. Soli davanti alla sfida, liberi da quel meraviglioso superfluo che ci ha regalato il benessere.
La specie umana ha inizio dai piedi
Le orme di G1 e G2 ne sono la prova. Due australopitechi alti meno di un metro e quaranta, oltre tre milioni e mezzo di anni fa, sfuggendo alle eruzioni di due vulcani a oriente di Ngorongoro, lasciarono dietro di sé una fila di impronte fossilizzate dalla cenere. Piaccia o no, tutto è partito da lì. Da quei due ominidi che nella Rift Valley si sono alzati in piedi e hanno cominciato a correre. Segnando il destino dell’uomo, che è nato per deambulare inquieto.
Cosa avranno pensato G1 e G2 mentre allungavano a terra la loro ombra e per la prima volta si libravano in volo con la forza delle sole gambe? Certamente non potevano sapere che il loro disperato tentativo di sottrarsi alla montagna di fuoco un giorno si sarebbe trasformato nella leggerezza di un Bikila, che stravinceva a piedi nudi come loro, o nella grinta di un Gebrselassie.
Ciò che è accaduto allora, accade sempre e accadrà ancora a lungo. Dopo milioni di anni continuiamo a correre.
Una disciplina rigorosa e l’ascolto incessante del proprio corpo 
Oggi i runner vanno alla ricerca di una felicità che è fatta di leggerezza, di sottrazione. La corsa scava, prosciuga e non concede sconti. Il semplice gesto di rullare le gambe su strade d’asfalto, sentieri sterrati o prati erbosi ci riporta indietro nel tempo. Ci restituisce la sensazione di essere animali in libertà e ci allontana dalle maschere dietro cui ci nascondiamo tutti i giorni. In altre parole, ci riavvicina ai nostri progenitori.
Correre è una potente metafora della vita: non c’è vittoria senza dolore. E i podisti lo sanno bene. La maratona forse è la più vivida testimonianza di questo elogio della sofferenza. Perché fin dalla linea di partenza, tutti stiamo già aspettando il dolore. Non vediamo l’ora di sentirlo, dentro i muscoli, nell’intestino, nel cervello. Ha scritto Mauro Covacich, eccellente romanziere italiano e grande appassionato di corsa: «La maratona è una regola monastica (…) Resistere alla più alta velocità possibile per una strada così lunga è la cosa più bella che una mente umana possa produrre (…)  Il maratoneta è un samurai senza spada». (A perdifiato, 2003). 
La maratona è proprio una visione del mondo: non sono solo quei quarantadue chilometri da correre nel minor tempo possibile, è l’idea di resistere, di andare oltre. Chi l’ha corsa ha trovato la sua risposta. E ha smesso di domandarsi: perché corriamo?

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Vivere con i libri #4 “Un bel posticino” La Spoon River di Hermann Hesse


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È difficile parlare di Hermann Hesse. Terribilmente difficile. Di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto. Scrittore di vastissima popolarità, inviso a una certa critica. Il perché di questa ostilità alla sua figura e alla sua opera è presto detto.  Lo scrittore tedesco ha condotto un’esistenza  solitaria, cercando la perfezione attraverso i sentieri dell’interiorità, una via quindi, che non contemplava le realtà sociali e politiche. Hesse privilegiava il dentro, non il fuori, il sentimento piuttosto che l’assoluta razionalità. Molti critici lo hanno accusato di spiritualismo. Oh, una colpa assai grave. Certo perché per loro è vera letteratura solo quella di chi si crogiola nella crisi esistenziale e nella mancanza di valori, nel nichilismo e nulla altro. Quando si parla di pace, natura, amore universale, meditazione, ricerca spirituale, quel genere di critici mette mano alla pistola. Dunque non poteva che essere detestato il ricercatore assoluto, il letterato che sarebbe divenuto un mito per i giovani dagli anni Sessanta in poi. herman3Ecco, forse questa è la “vergogna” di Hesse: essere diventato un’icona adorata dagli adolescenti, l’età in cui si creano i miti.  Gli scettici annoiati e imbevuti di relativismo continuano a liquidare Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il gioco delle perle di vetro, e non parliamo neppure de Il pellegrinaggio in Oriente o Francesco d’Assisi, come libretti intrisi di un sentimentalismo confezionato ad arte per giovani foruncolosi.
Certo, centinaia di migliaia di giovani, giovani alla ricerca della propria identità e di una purificazione spirituale, che un tempo partivano per l’India e che oggi tornano a coltivare la terra, che scrivono poesie ingenue e rabbiose, che chiedono sentimenti profondi, che anelano giustizia e uguaglianza, tutti questi giovani da decenni vagano per il pianeta con in tasca la propria copia sgualcita del Siddharta. E allora? Divenire un grande narratore popolare è sufficiente per essere giudicato volgare? Che Hesse sia popolare, cioè “del popolo”, è dimostrato dalla continua presenza dei suoi romanzi nelle classifiche dei libri più venduti. Francesco, Siddharta e Josef (il maestro del Gioco delle perle di vetro)  rappresentano un antidoto a quella pretesa superiorità intellettuale di un’élite autonominatasi tale, volgare e arraffona, tutta vezzi e birignao, in barba alla quale si continueranno a leggere le opere dello scrittore tedesco.
Carlo Zanda Un bel posticinoChe lo abbiate amato da giovane, o scoperto solo in età adulta, poco importa. Non dovreste comunque perdervi un bel libro, da poco dato alle stampe da Marco y Marcos. Si chiama Un bel posticino, lo ha scritto Carlo Zanda. Il sottotitolo recita La Spoon River di Hermann Hesse. Cosa ha fatto Zanda? Se ne è andato a Montagnola, piccolo paese ticinese sulla Collina d’oro, sopra Lugano, dove Hesse ha vissuto dal 1919 al 1962, anno della morte e dove scelse di essere sepolto, acquistando nel piccolo cimitero di Sant’Abbondio “un bel posticino”, furono proprio queste le parole usate dallo scrittore in un articolo per un giornale tedesco. È andato al cimitero e ha fotografato le tombe di coloro che hanno vissuto negli stessi anni di Hesse, poi ha ricostruito con pazienza le loro biografie. Ci sono Natalina, che per anni ha accudito lo scrittore con la discrezione propria delle donne intelligenti, il medico Plinio, l’amico Ball, il parroco don Cesare, l’elettricista Balzelli e tanti altri. Per ogni personaggio una scheda, una foto e un piccolo arguto racconto. Incastonati tra queste, come lampi di luce, le opere che Hesse scrisse nel suo rifugio svizzero.
Molti anni fa, totalmente immerso nell’opera narrativa di Hesse, mi recai a Montagnola per visitare il cimitero e cercare la casa Rossa, dove lo scrittore visse con Ninon, la terza moglie, e ospitò profughi, esiliati, intellettuali. Appenai tornai a casa, andai a cercare Siddharta, per un’ennesima lettura. Ben più geniale è stata la scelta di Carlo Zanda, che tornato a Milano dopo la visita al cimitero di San’Abbondio, è andato invece a cercare l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Con già un’idea in testa: una nuova Spoon River con al centro Hermann Hesse. Che fosse possibile, non ne era ancora certo. Che valesse la pena tentare, sì. E così si è trasformato nello scalpellino Richard Bone.
Bravo Zanda, quanto ti invidio! Sì, avrei tanto voluto avere la tua idea trent’anni fa. Ora posso solo accontentarmi di tenermi vicino il tuo bel libro e rimettermi all’opera.

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Ilva di Taranto: era già tutto previsto

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Permessi illeciti per ottenere l’autorizzazione ambientale con la quale l’Ilva ha potuto continuare a produrre e inquinare. Queste le accuse che hanno portato a una nuova pioggia di manette a Taranto nell’ambito dell’inchiesta “ambiente svenduto”. Tra gli arrestati anche il presidente della Provincia Gianni Florido, alla guida dell’amministrazione dal 2004. “Che Ilva continui a inquinare e ammazzare legalmente per via di una legge voluta da Clini e Monti è cosa nota a tutti” scrive oggi Il Fatto Quotidiano in un articolo che vi invito a leggere per approfondire gli ultimi sviluppi. In effetti, una volta ottenuta l’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), Ilva ha potuto continuare a produrre nelle stesse condizioni che avevano portato al sequestro degli impianti.
Ma non è solo di quest’ultimo episodio che vorrei parlarvi. Quanto è accaduto all’Ilva di Taranto in questi ultimi mesi è il risultato di una politica dissennata e compromessa che affonda le sue radici molto in profondità. Sarebbe disperato il tentativo di trovare un unico responsabile per i tanti disastri che si sono consumati in questo angolo di Italia. Corrado Clini, che durante l’ultima campagna elettorale ha avuto addirittura l’impudenza di presentare una sua Agenda Verde, ha certamente la sua parte di responsabilità essendo stato per vent’anni direttore generale del Ministero dell’Ambiente e avendo dunque affiancato la sua carriera alle più drammatiche e controverse vicende ambientali di questo Paese, Ilva compresa. Gli amministratori e i dirigenti politici locali hanno concorso da parte loro alla triste vicenda di un’azienda prima privata, poi pubblica e infine di nuovo privata, ma sempre avvelenata da nepotismi, inefficienze, tangenti, inquinamento e usura degli impianti.
Nella vicenda dell’Ilva si specchia la povertà di pensiero nazionale e la scarsa visione della politica nostrana. Un buon governo avrebbe dovuto pianificare da decenni (l’Ilva è entrata in crisi, con l’intero settore dell’acciaio, negli anni Ottanta, mentre gli allarmi per l’ambiente e la salute pubblica risalgono addirittura a due decenni prima) strategie di lungo termine prevedendo la chiusura di attività altamente inquinanti e incentivando la nascita di altrettante attività in linea con le nuove esigenze economiche, sociali e ambientali. Invece una politica malata di clientelismo e immoralità, distante anni luce dagli interessi della gente, ha scelto di tenere in piedi soluzioni senza sviluppo, perdendo altre opportunità. Adesso possiamo continuare a discutere se è giusto che la difesa del posto di lavoro venga prima della salute, della qualità della vita e dell’ambiente. Forse, perfino del buon senso. Ma la triste, sconsolante verità è che era già stato tutto previsto, fin dal principio. Il 10 aprile 1965, giorno dell’inaugurazione ufficiale del Centro siderurgico Iri “Salvino Sernesi” di Taranto, diventato Ilva dopo la privatizzazione, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat parlò di un “grande stabilimento industriale” e di uno Stato che “ha seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla”. Qualche anno dopo Antonio Cederna, il più arguto fustigatore delle malefatte perpetrate nei confronti dell’ambiente italiano, pubblicò due articoli sul Corriere della Sera (per inciso, oggi lo stesso quotidiano dedica poco spazio agli ultimi fatti e anche questo è un evidente segno del declino nazionale). Nel primo articolo scrisse: “l’Italsider tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso sociale”. L’articolo successivo fu intitolato: “Taranto strangolata dal boom”. Ecco un passaggio: “un’impresa a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento”. Si riferiva al quartiere Tamburi tornato al centro delle cronache nei mesi passati per l’alta incidenza di tumori. Di ieri, invece, la notizia delle manovre illecite attivate per ottenere l’autorizzazione della discarica realizzata in una cava all’interno dello stabilimento e dove vengono smaltiti i rifiuti industriali e le polveri prodotte dagli impianti ritenuti la fonte dell’inquinamento killer individuato con l’indagine per disastro ambientale.
Vergogna, vergogna, vergogna.

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La vita di un giusto. Ambrogio Mauri, l’imprenditore “ucciso” dai corrotti

un uomo onesto copertina

Monica Zapelli, nota al pubblico come sceneggiatrice del film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, e di alcune popolari fiction televisive come Maria Montessori: una vita per i bambini, Enrico Mattei – L’uomo che guardava al futuro e Il caso Enzo Tortora – Dove eravamo rimasti?, ha ricostruito la storia di Ambrogio Mauri, l’imprenditore della Brianza che nel 1997 si tolse la vita come gesto estremo di protesta contro il sistema delle tangenti che soffoca chi lavora onestamente.
S’intitola Un uomo onesto ed è un libro molto bello. E molto doloroso. Perché dolorosa è la vicenda di Ambrogio Mauri: un uomo normale, dotato di ingegno, che chiedeva solo di vivere in un paese in cui la pubblica amministrazione si liberasse dalla corruzione e di concorrere in un mercato in cui potesse vincere il migliore.
Mauri era persona perbene, un uomo d’altri tempi hanno scritto alcuni, quasi a sottolineare che questo non è più un luogo per onesti. A 66 anni, dopo aver visto andare in fumo i valori che gli avevano insegnato e in cui lui aveva creduto, si è ucciso. Un caso limite, perché non tutti gli imprenditori onesti si suicidano per disperazione. Però è l’estrema conseguenza di un fenomeno vastissimo, che il giornalista Massimo Fini chiama degli “omicidi bianchi della partitocrazia”. “Omicidi bianchi perché non si vedono – scrive Fini. – Si tratta delle vite spente, nelle loro speranze, nelle loro aspirazioni, nelle loro legittime ambizioni, da un sistema che respinge ai margini estremi chi rifiuta di affiliarsi, di sottomettersi, di rinunciare alla propria dignità”.
In tal senso c’è un tragico filo rosso che lega la storia di Peppino Impastato, l’ideatore di Radio out che denunciò i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini e fu ammazzato da Badalamenti, a quella dell’imprenditore brianzolo. C’è continuità fra Cinisi a Desio: anche Ambrogio Mauri è stato ammazzato dal metodo mafioso che ha dilagato in Italia.
Qui di seguito la mia chiacchierata con l’autrice di Un uomo onesto.

Cosa l’ha spinta a riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda di Ambrogio Mauri?
Credo che la vicenda umana e professionale di Ambrogio Mauri sia l’espressione di un’Italia migliore, e oggi più che mai questa parte del paese merita di essere conosciuta e ricordata. La sua è una storia passata sempre sotto traccia, perché Mauri non è mai stato un uomo del sistema, nemmeno come industriale. Mi affascinano queste figure destinate all’isolamento dal loro rigore e dalla loro intransigenza. Ad ogni modo è giusto ricordare che, seppure in maniera intermittente, la sua storia è stata tramandata grazie all’impegno di giornalisti come Giancarlo Santalmassi, Massimo Fini, Milena Gabanelli, Marco Travaglio e altri.
Dopo il ’92 Mauri si era illuso che molto sarebbe cambiato e invece è tornato tutto come prima. O peggio di prima?
Per quanto amara, la sua è una bellissima storia di Tangentopoli. Ci restituisce una fotografia di quegli anni scattata, non dagli inquirenti, ma dai cittadini. Ambrogio Mauri era tornato a credere nella giustizia grazie a Mani Pulite. Si era illuso che le indagini e i processi contro la corruzione potessero ripulire l’Italia. Invece, dopo Tangentopoli è scattata la vendetta nei suoi confronti. E c’è stata una selezione darwiniana dei corruttori, sono sopravvissuti i più abili.
Lei che idea si è fatta, era un ingenuo?
Non era un ingenuo. Era un uomo normale, innamorato del suo lavoro e incapace di rinunciare ai suoi principi. Apparteneva ad una generazione che si è trovata a ricostruire l’Italia in un momento di grandi difficoltà e di precarietà e questo richiedeva una tempra eccezionale. In fondo desiderava soltanto fare il suo dovere. Ambrogio Mauri ha tenuto accesa per tutta la vita l’intransigenza della giovinezza, è ciò accade alle persone migliori.
Per spiegare il rigore di Mauri lei ricorda anche una sua partecipazione a Milano, Italia la fortunata trasmissione condotta da Gad Lerner che andava in onda dalla Sala dell’Umanitaria…
Si trattava della trasmissione che in quel momento raccontava meglio di qualsiasi altra il cambiamento in atto nel paese. Ma Mauri era sempre se stesso, in ogni occasione, non aveva quel grado di ruffianeria necessario per sopravvivere in Tv. Non era certamente un uomo di pubbliche relazioni e per dirla con un linguaggio un po’ tecnico quella sera era fuori format. La puntata era dedicata alla crisi economica, non al tema delle tangenti. Lerner intendeva parlare dell’industria italiana travolta dai nuovi equilibri economici che allora scaturivano dall’ingresso sui mercati internazionali dei Paesi dell’Est Europa.
E invece Mauri…
E invece Mauri portava il discorso su altri temi. Lui non aveva il problema della crisi, ma della trasparenza. Ma soprattutto lui non era un ospite televisivo, non aveva nulla dell’accondiscendenza di chi si sente sotto i riflettori. E quella sera probabilmente non scattò una filo di simpatia umana con il conduttore. Anche in questo episodio si legge la sua figura di eretico incapace di compromessi.
Secondo lei quanto ha concorso la corruzione nel determinare l’attuale crisi economica italiana?
Ha concorso in modo drammatico. Al di là degli studi che indicano in termini finanziari quanto pesa la corruzione sul nostro sistema economico e produttivo, c’è stato un impoverimento del nostro livello competitivo. Se un’impresa vince pagando sottobanco non ha vantaggio ad investire nella ricerca e nell’innovazione. Però il discorso non riguarda soltanto le aziende, coinvolge tutti noi. C’è un bagaglio di rinunce e di compromessi che investe la vita di molti italiani. Basti pensare alla bassa qualità dei servizi che riceviamo dallo Stato, nonostante il peso della nostra pressione fiscale, o alla difficoltà di vincere un concorso pubblico affidandosi solo alla propria bravura.
In apertura del suo libro ha riportato una frase di Leopoldo Pirelli: “Se una decina di grandi aziende avessero insieme denunciato la corruzione che era diventata sistema, nessuno avrebbe potuto impedircelo e schiacciarci, tutti insieme eravamo forti a sufficienza per cacciare quel malcostume”.
È la triste verità. Cesare Romiti venne condannato per falso in bilancio e finanziamento illecito dei partiti pochi giorni prima che Mauri si suicidasse. Quella condanna in seguito fu confermata in Appello e in Cassazione. Solo successivamente, nel 2002, in seguito alla depenalizzazione del falso in bilancio, la Corte di Appello di Torino revocherà la sentenza dichiarando che il fatto non costituisce più reato. Si dice che la corruzione costa agli italiani sessanta miliardi di euro l’anno, ma al danno economico vanno sommate le conseguenze quotidiane della selezione in negativo delle imprese prodotta dalla corruzione stessa.
Non ci sono più speranze?
Abbiamo l’obbligo di continuare a sperare e di riprenderci il nostro domani. Solo così Ambrogio Muri avrà vissuto per qualcosa, perché nessuno più debba morire come lui. Ho scelto di associare alla vicenda di questo imprenditore brianzolo una storia sintetica dell’Italia proprio per ricordare ai più giovani le vicende che hanno investito il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Non è mai stata mia intenzione fare un libro pessimista. Ho voluto scrivere un libro capace di muovere una rabbia che fa agire. L’Italia del malaffare fa sistema perché ha il collante del denaro. L’Italia degli onesti deve imparare a fare sistema tirando fuori il meglio da se stessa. La crisi che stiamo attraversando deve servire almeno a questo: a fare emergere una classe migliore.

Qualcuno ha scritto: onesti si nasce, delinquenti si diventa. Impossibile trovare parole più adeguate per concludere questa chiacchierata.

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Sempre un passo avanti
Ambrogio Mauri, su uno dei suoi bus. L’imprenditore brianzolo introdusse soluzioni impensabili per la sua epoca. Fu il primo in Italia a proporre l’alluminio per le carrozzerie, un materiale che garantisce ai mezzi leggerezza e durata, con un abbattimento consistente dei costi di gestione. Agli inizi degli anni ’80, quando la tecnologia e l’elettronica erano lontanissime dalle conoscenze attuali, concepì il Bibus, una risposta geniale ai problemi dell’inquinamento urbano: il bus poteva funzionare a gasolio nei tratti extraurbani, ma una volta entrato in città era in grado di procedere a elettricità, senza alcun rilascio di anidride carbonica. Sempre negli anni Ottanta, Mauri progettò un nuovo autobus da diciotto metri, non più a quattro assi portanti, ma a tre. Un cambiamento che rese i mezzi più maneggevoli per chi guidava e più comodi per chi ci saliva, perché il motore poteva essere spostato dalla parte centrale a quella posteriore, consentendo di abbassare il pavimento e guadagnare spazio all’interno. Oggi i mezzi in circolazione sono tutti così, a tre assi. Come li aveva concepiti Mauri.

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Vivere con i libri #3 Quali titoli arriveranno sul comodino del 2113?

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La domanda che sto per porvi presuppone di aver risposto sì a un interrogativo precedente: ci saranno ancora libri su carta tra cent’anni? Se il vostro responso è affermativo, possiamo passare alla questione in esame. Quali titoli fra quelli pubblicati nell’ultimo quarantennio, per fare chiarezza diciamo dal 1970 a oggi, si leggeranno ancora nel 2113? In altre parole, quali fra le opere contemporanee diventeranno classici? Di quali autori si parlerà ancora tra cento anni, e quali invece saranno caduti nell’oblio? Per dovere di ospitalità comincerò io, proponendovi un po’ di titoli che ho letto e che tra un secolo, secondo me, saranno classici riconosciuti (per molti in realtà lo sono già). Tenete naturalmente conto che ne elencherò solo alcuni e ne dimenticherò tanti. 

Il re degli ontani di Michel Tournier
Norwegian Wood di Haruki Murakami
Americana di Don DeLillo
Pastorale americana di Philiph Roth
Riposa coniglio di John Updike
Aspettando i barbari di J. M. Coetzee
Quello che rimane di Paula Fox
Un cuore così bianco di Javier Marías
Le Correzioni di Jonathan Franzen
Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro

Ora vi invito a fare altrettanto. Ed esortate anche tutti i vostri amici, appassionati lettori, a farlo con voi. Quali libri contemporanei ci saranno sul comodino nel 2113?

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Dove sono i giovani eretici?

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Stavo leggendo “La versione di Roger” di John Updike quando mi sono imbattuto in queste parole: “la Chiesa si è sempre ricaricata in modo non ortodosso (…) Se il sale non aveva più sapore, con cosa salare? Gesù stesso, Giovanni Battista, tutti fuoricasta straccioni. I regolari tendono piuttosto a ricoprire il ruolo di cattivo”. Niente di più vero, lo stesso Cristianesimo del resto nacque come eresia ebraica. Una minoranza più o meno esigua di ebrei riconobbe in Gesù il Messia di Israele atteso da tempo e lo confessò come tale, incorrendo, col tempo, nella espulsione dalla sinagoga. La maggioranza degli ebrei, invece – e comunque tutte, o quasi, le istituzioni religiose e politiche di allora – non lo riconobbero come Messia, anzi lo ritennero o un esaltato pericoloso e blasfemo, oppure un agitatore politico. Nei secoli successivi, la Chiesa corrotta e peccatrice ha spesso ricavato nuova linfa dagli irregolari, come gli eretici medievali (compreso Francesco d’Assisi) che volevano seguire nudi il Cristo nudo.
Le vie dell’eresia sono infinite e non attraversano solo le storie religiose. L’intera vicenda del pensiero scientifico occidentale e, più in generale, il lungo cammino della ricerca scientifica sono stati tracciati da grandi eretici creduti in errore, le cui teorie si sono poi rivelate giuste. “Ogni concezione scientifica comincia come un’eresia” fa notare Aldous Huxley.
Molti di noi credono erroneamente che sia stata la scienza ufficiale a tramandarci ciò che oggi è il patrimonio acquisito. Niente di più falso. Le grandi innovazioni in quasi tutti i campi del sapere, astronomia, biologia, fisica, matematica, medicina, sono invece la faticosa risultante di lotte, discordie e incomprensioni consumatesi nel corso di secoli tra “geni eretici”, quasi sempre incompresi, e “scienziati normali”, quasi sempre impregnati di indottrinamenti dogmatici e di pregiudizi formali. Questi scienziati, col supporto dei teologi, hanno relegato ai margini della loro comunità tanti colleghi, spesso soltanto perché più creativi o innovatori, in altre parole “eretici.” Non solo i pensatori eccentrici, ma anche coloro che, pur potendo dimostrare la validità delle loro scoperte, non sono stati creduti, ma anzi ridicolizzati. Salvo poi ottenere una riabilitazione, ovviamente postuma. Quelle di Galileo Galilei, Giovanni Copernico, Charles Darwin sono storie ben note. Prima che le loro tesi e le loro scoperte fossero riconosciute e accettate, essi sono stati oltraggiati, perseguitati e osteggiati dalla scienza ufficiale del loro tempo, spesso cieca ma sempre presuntuosamente “signora della verità”. Molti degli scritti di Gregor Mendel, il monaco che diede inizio alla genetica, vennero cestinati senza essere letti. George Stephenson, inventore della macchina a vapore, fu considerato a lungo un “ciarlatano”.
Qualcuno pensa che tutto questo riguardi solo il passato e che oggi il progresso scientifico e tecnologico siano inarrestabili. Purtroppo non è così. Le idee troppo audaci continuano a essere scomode, perché obbligano a rivoluzionare non solo il proprio modo di pensare, ma anche intere e consolidate linee produttive. È soprattutto per questa ragione che alcune tesi, magari apparentemente bizzarre e non convenzionali, sono considerate come elementi di opposizione al sistema, anziché come reali opportunità. Non dimentichiamolo mai: i grandi progressi dell’umanità sono il frutto tanto del suo spirito indagatore quanto del suo spirito critico. E critici possiamo esserlo tutti. Pur senza essere scienziati, tanto meno geni.

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Vivere senza libri. Il gigantesco rogo nazista del 10 maggio 1933

Berlin, Bücherverbrennung

Tra il 10 maggio e il 21 giugno 1933 si svolsero numerosi roghi in trenta città universitarie tedesche, tra cui Amburgo, Heidelberg, Friburgo, Ratisbona, Tubinga, Francoforte, Göttingen, Cologna, Dortmund, Norimberga, Würzburg, Hannover, Monaco. Ma il più spettacolare fu organizzato nella piazza del Teatro dell’opera a Berlino, la sera del 10 maggio 1933. Sull’Opernplatz furono bruciati tutti i libri considerati dai nazisti contrari alla cultura germanica. Vennero colpiti gli autori ebrei, comunisti, socialisti e tutti coloro che erano stati sostenitori dell’abbattuta Repubblica di Weimar. Nelle fiamme arsero titoli di Thomas e Heinrich Mann, Sigmund Freud, Joseph Roth, André Gide, Heinrich Heine, Herbert Marcuse, Albert Einstein, Marcel Proust, Karl Marx, Bertolt Brecht e tanti altri. Aveva ragione Heinrich Heine. “Dort wo man Bücher verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen”. “Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini”. I nazisti, col loro delirio razzista, diedero compimento anni dopo alla triste profezia.
L’evento assunse i caratteri di una cerimonia ufficiale, quasi religiosa. Furono curati gli aspetti scenici, le musiche, i canti, l’illuminazione. I libri furono accompagnati da una marcia alla quale presero parte i professori in toga, gli studenti, soldati delle SA e delle SS. Dopodiché furono cosparsi di benzina e arsi con l’aiuto di tecnici e pompieri. Le fiamme si levarono sopra la piazza del Teatro dell’opera alle undici e mezza di notte.
Non dimentichiamolo
Oggi, a ottanta anni di distanza da quella che fu una delle date più plumbee nella storia della cultura europea, Radio3 Rai ha deciso di ricordare questa terribile ricorrenza e in ogni trasmissione sta adottando un libro, o un autore, tra quelli bruciati nel rogo di Berlino. Molti altri anno deciso di aderire all’iniziativa e stanno facendo la stessa cosa. Sarebbe un bel gesto di civiltà se nei blog e nei profili dei social network ciascuno di noi ricordasse un libro o un autore indesiderato. Hastag #maipiulibrialrogo

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Vivere con i libri #2 I cento passi

Peppino Impastato

Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino, fu ammazzato dalla mafia, a Cinisi, 35 anni fa. Aveva trasformato il suo microfono, quello di Radio Aut, in un megafono dal quale ripeteva, ogni giorno, nomi e fatti che nessuno osava citare. Parlava Peppino. Parlava tanto in una Cinisi (ma potremmo dire in un’Italia) muta, sorda e cieca. La sua vicenda umana e il suo coraggio sono stati raccontati in un bel film diretto da Marco Tullio Giordana, I cento passi. Feltrinelli ha pubblicato la sceneggiatura dell’omonimo film, scritta da Claudio Fava, Monica Zapelli e lo stesso Marco Tullio Giordana. A chi non vuole dimenticare, ne suggerisco la lettura. E suggerisco anche di sostenere la petizione su Change.org per salvare il casolare nel quale fu trucidato Peppino, diventato uno dei luoghi simbolici della battaglia contro le mafie, meta di un pellegrinaggio laico per tanti italiani. Quelle pietre devono essere custodite affinché, come scrisse Peppino, nessuno possa dimenticare che: “La mafia uccide, il silenzio pure”.

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Vivere con i libri #1 Ai piedi di Emma Bovary

vivere con i libri1

Perché i libri ci appassionano tanto? Perché li accumuliamo nel corso di tutta la vita? Non esiste una sola risposta a queste domande, ciascuno di noi ha la propria, o meglio le proprie. I libri che leggiamo, i libri che collezioniamo, i libri che conserviamo in modo apparentemente disordinato, ci legano al passato, al presente e al futuro in modo semplice e facilmente accessibile.
I libri sono generosi: ti regalano una storia da cui trai godimento. Di quella storia diventi per qualche tempo custode, conscio che altri prima di te l’hanno “posseduta” e ne hanno goduto per poi passarla ad altri. Nella vita di un lettore ci sono tanti momenti meravigliosi: la scoperta di un nuovo autore, l’incontro con un capolavoro, la magia di un racconto che ti accompagnerà per sempre. Credo che ciascuno di noi debba la propria passione per i libri a un titolo in particolare. Nel mio caso la fiamma è stata accesa da Madame Bovary. Madame BovaryNon che prima d’imbattermi nell’eroina di Gustave Flaubert non avessi letto nulla, ma sento di poter dire che solo dopo aver attraversato la storia di Emma Rouault, sposata Bovary, sono diventato un lettore maturo.
Tentai di leggere le vicende di questa piccola adultera di provincia quand’ero ancora al liceo. Come tutti gli adolescenti mi sentivo tormentato. Avevo letto che quella della Bovary era la storia di un’anima travolta nella ricerca del sogno, dell’ideale a cui anela chi non può assolutamente adeguarsi alla realtà. Così cercai in quelle pagine una comunione di tribolazioni e tormenti. Ma non vi trovai nulla di tutto questo. Anzi la storia mi parve del tutto convenzionale. Le mie ansie e i miei afflati adolescenziali non si specchiarono affatto nella vicenda di una donna che si avvelena a causa della sua condotta immorale. Ricordo che lessi il romanzo a singhiozzo, inframezzandolo con lunghe pause e saltando intere parti, una su tutte quella lunghissima dedicata ai Comizi agricoli.
Ma un’altra straordinaria generosità dei libri è quella di concederti sempre una seconda occasione. Ripresi in mano Madame Bovary durante una breve vacanza concessami dopo la laurea. Terminai il libro in tre giorni e dopo di allora credo di averlo letto per intero almeno altre tre volte, per singoli brani, invece, un’infinità di volte. Spiegare le ragioni personali per cui ci s’innamora di un’opera che è universalmente riconosciuta come un capolavoro assoluto può essere fonte di imbarazzo. Attorno a Madame Bovary hanno scritto tutti i più illustri critici letterari del mondo, è dunque difficile aggiungere qualcosa di utile e, soprattutto, intelligente. Tuttavia voglio provare a condividere la mia personale chiave di lettura di questo strepitoso romanzo.
Flaubert, per il quale qualcuno ha riservato l’appellativo di Cristo della letteratura, fu definito il descrittore accanito, e questo suo modo di procedere fu considerato da alcuni addirittura un limite. Certi critici sono rimasti infastiditi dal rilievo concesso al materiale scenico, che, a loro dire, giunge a soffocare i personaggi. Io invece adoro il dettaglio flaubertiano, perché possiede una natura funzionale. Prendiamo ad esempio proprio la sua creazione più celebre: Emma Bovary. Fin dal primo incontro con Charles si ricevono puntuali e per niente occasionali descrizioni della signorina Rouault. Tali da farci divenire subito familiare il suo corpo. Le labbra carnose, che era solita mordicchiare nei momenti di silenzio. I capelli spartiti da una riga sottile sulla sommità del capo, che, lasciando intravedere appena il lobo dell’orecchio, scendevano ad ammassarsi dietro in una crocchia opulenta. madame_bovary4Gli stessi capelli nelle pagine dedicate agli incontri amorosi con Leon sono attorti in una massa pesante, con indolenza, e secondo le vicende dell’adulterio, che ogni giorno li discioglieva, paiono quasi disposti da un artista abile nel raffigurare la corruzione. Pian piano conosciamo tutto di lei: le sue palpebre che sembrano tagliate apposte per i lunghi sguardi amorosi, gli occhi che per quanto fossero bruni sembravano del tutto neri per il gioco delle ciglia, il forte respiro che dilatava le narici fini e rialzava gli angoli carnosi delle labbra, ombreggiati nella luce da una lieve peluria nera, le unghie brillanti, fini in cima, più lisce dell’avorio di Dieppe e tagliate a mandorla. Perfino i dettagli, apparentemente più insignificanti, sembrano avvicinarci a lei e svolgono una funzione, potremmo dire tattile, come l’occhialetto di tartaruga che portava, al pari d’un uomo, infilato fra due bottoni della blusa. Foglio dopo foglio, la Bovary cessa di esistere solamente nella finzione letteraria e si materializza fisicamente dinanzi al lettore.
Poi ci sono le descrizioni cariche di un erotismo più esplicito, seppure molto cerebrale. Come quando Emma si punge le dita cucendo e se le porta più volte alla bocca per succhiarne il sangue; oppure il modo particolare con cui getta indietro la testa per bere il bicchierino quasi vuoto di curaçao, con le labbra sporgenti e il collo teso, mentre con la punta della lingua tenta felinamente di leccarne le poche gocce rimaste. Tutto di lei sembra suggerire un forte potenziale erotico: il modo languido con cui parla, i suoi sussurri, le palpebre semisocchiuse, la lieve peluria dietro al collo accarezzata dal vento, le goccioline di sudore sulle spalle nude. Quando usciva prima dell’alba, per recarsi all’incontro con Rodolphe, Emma entrava nella stanza a tentoni, socchiudendo gli occhi, e le gocce di rugiada, sospese sulle bande dei capelli, formavano come un’aureola di topazio attorno al suo viso. isamadame-bovary0Queste descrizioni accanite, che la prima volta senz’altro concorsero a rendere assai faticosa la lettura, in realtà testimoniano la piena consapevolezza con cui Flaubert sceglieva i dettagli. C’è una sua precisa volontà di accendere il romanzo mediante un sottofondo potentemente sessuale. L’impiego insistente di alcuni vocaboli, che potremmo definire prediletti, mollesse, assoupiment, torpeur, rimandano inevitabilmente ad un vago, languido stato di compiacimento sensuale.
Fra i critici contemporanei circola una sciocca considerazione, di quelle che passano di penna in penna senza ulteriori approfondimenti: il processo a Madame Bovary oggi ci appare incomprensibile. Com’è noto Flaubert dovette subire un processo per offesa alla morale e alla religione. Processo che l’autore vinse e che contribuì a dare notorietà al libro. D’accordo, l’accusa fu esagerata, ma chi oggi liquida questa vicenda giudiziaria solo come un’inadeguata risposta dei tempi, o non ha mai letto il romanzo, oppure non è stato capace di avvertire la forte pulsione erotica di cui è impregnato. Domando: è mai stato scritto qualcosa di più eccitante della famosa scena d’amore nella carrozza? Per l’intera durata, al lettore è concessa soltanto la vista della vettura con le tendine abbassate, e l’unica nudità appare alla fine, una mano senza guanto che s’infila di sotto alle tendine di tela gialla e getta frammenti di carta che, come farfalle bianche, ricadono su un campo di trifoglio rosso in fiore. Ma la carrozza che procede dapprima lentamente e poi in un furioso galoppo, il crescendo vertiginoso e i movimenti scomposti evocano altro. A chi sa fantasticare.
Nel libro non si trovano oscenità. E di questo ne era convinto lo stesso Flaubert, che, dopo la pubblicazione sulla Revue de Paris e le prime voci di scandalo, scrisse al fratello Achille: “Sto diventano la celebrità della settimana, tutte le puttane d’alto bordo si contendono la Bovary per cercarvi oscenità che non ci sono”. Ma quel culto per la descrizione degli oggetti ha consegnato per sempre alla storia della letteratura mondiale la figura di un cronico feticista. L’intero romanzo è disseminato di semplici oggetti che, quantunque ai più appaiono privi di qualsiasi carica interiore, sono sapientemente trasformati da Flaubert in feticci.
Anni dopo la seconda lettura di Madame Bovary, venni a sapere che Flaubert custodiva gelosamente le pantofoline di Louise Colet, letterata con cui egli intrattenne una relazione tenera e tempestosa. Le teneva in un cassetto dello scrittoio e di tanto in tanto le estraeva e le osservava. In una lettera alla sua Musa, Gustave si abbandonò disperatamente alla sua inclinazione feticista, paragonando i vari stili di scrittura alle diverse calzature. “… Sandalo, che parola magnifica e che suono solenne. Non è così? Quelli dell’estremità a punta, rivolte all’insù come lune crescenti, ricoperti di lustrini d’oro scintillanti carichi di splendide decorazioni simili a edifici indiani. Vengono dalle rive del Gange. Con tali calzature ai piedi si può passeggiare all’interno di pagode dai pavimenti di aloe oscurato dal fumo di incensi profumati e odorosi di muschio. Sono gli stessi che ti conducono negli harem su tappeti scomposti da disegni simili ad arabeschi. Viene da pensare a inni perenni di amore soddisfatto…”.
Flaubert coltivava una vera e propria passione per i piedi femminili. Calzati o non, sono costantemente al centro della sua attenzione. Per tutte le protagoniste dei suoi romanzi riserva al lettore minuziose descrizioni delle loro estremità e delle calzature che indossano. salammbo1Ma il momento più alto e intrigante di questa mania non va cercato fra le pagine di Madame Bovary, bensì in quelle di Salambò. La critica contemporanea guarda a questo romanzo soprattutto in chiave di ricostruzione storica. In effetti si tratta di un grande affresco che narra le gesta dei Cartaginesi contro i barbari mercenari. Ma l’opera è interamente percorsa da un gusto sofisticato del macabro e della perversione e mostra anche doti spiccatamente cinematografiche, sorprendenti oltre ogni modo se si tiene conto che fu pubblicato nel 1862. Il modo in cui Flaubert fa entrare in scena Salambò dà vita alla pagina più erotica di tutta la letteratura: la sacerdotessa di Tanith discende le scale con una catenella d’oro alle caviglie per dare la misura al suo passo. E naturalmente, ancorché l’autore non lo precisa, per garantirne la purezza.

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Africa: è venuto il momento di restituire

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Se si osserva il panorama economico globale, è facile rendersi conto che molti vecchi protagonisti sono stati spodestati dai nuovi: la Cina, prima di tutti, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa, la Corea del Sud. Alcuni di loro hanno già detto che l’epoca dei G8 è finita. Oggi si deve parlare almeno di G20. E in questo ipotetico governo delle potenze più industrializzate, Paesi come Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna non occupano più i primi posti.
Ma c’è anche una terra che sembra invece destinata a restare solo un grande forziere da depredare: l’Africa. Attraverso le sue immense ricchezze naturali, questo continente ha contribuito a finanziare due guerre mondiali e il progresso economico europeo. Al suo saccheggio permanente, grazie al quale l’Occidente si è impadronito di caucciù, oro, avorio, rame, bauxite, petrolio, uranio e forza lavoro a basso costo, ora si sono aggiunte le potenze asiatiche in ascesa, in particolare la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica dell’India che stanno facendo incetta di terreni fertili.
Certo, quella che si affaccia al 2013 è un Africa in profonda trasformazione, segnata dalla crescita del prodotto interno lordo di alcune sue Nazioni, ma anche dalle tante miserie mai risolte. Prima fra tutte la fame. Secondo il Rapporto elaborato dalla Fao, insieme all’Ifad (International Fund for Agricultural Development) e al Wfp (World Food Programme) nel 2012 sono stati 870 milioni i malnutriti cronici. A patire maggiormente sono proprio gli africani, dove gli affamati sono cresciuti da 175 milioni a 239 milioni. È migliorata invece di molto la situazione in Asia e passi avanti sono stati compiuti anche in America Latina. Sono terribili i dati riguardanti l’infanzia: ancora 2 milioni e mezzo di bimbi muoiono ogni anno e 100 milioni di loro sono gravemente sottopeso. Purtroppo la situazione non fa ben sperare: entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero spingere altri 24 milioni di bambini nel baratro della fame, quasi la metà di loro vivono nell’Africa sub-sahariana. (Fonte: Wfp).
Secondo una consolidata leggenda, gli antichi cartografi romani designavano le zone inesplorate dell’Africa con la dicitura: hic sunt leones. Oltre la Tripolitania, la Numidia e la Mauritania cominciava l’ignoto. Sono passati duemila anni, ma quelle terre restano ancora sconosciute a tanti di noi. Eppure, come spiega da tempo il missionario comboniano Giulio Albanese, “l’Africa è la cartina di tornasole delle contraddizioni del nostro povero mondo”. È un continente sconfinato, come del resto i suoi problemi: dalla mancanza d’infrastrutture al deficit di democrazia, passando per la corruzione, il debito estero e, non ultimo, lo sfruttamento delle risorse naturali. Padre Albanese insiste su un punto: per risolvere questi drammi occorre prima di tutto sconfiggere certe malefiche opinioni. Come quella, ad esempio, che l’Africa sia povera, mentre in realtà è soltanto impoverita.
Muore un continente, si sente ripetere da decenni. E invece è ancora lì, pur con tutte le sue disgrazie e le sue sofferenze. Alcuni regioni sono riuscite perfino a dare vita a un’economia informale che ha sorpreso gli economisti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. E in alcuni Stati è attiva una classe intellettuale che rivolge incessantemente un messaggio al mondo occidentale, non con i toni di una supplica ma piuttosto con la forza della testimonianza: il nostro mondo è un villaggio globale. Chissà se la vecchia Europa, ora che sente la propria supremazia minacciata dalla vigoria di nuovi Paesi, non saprà riscattarsi da secoli di arroganza e malefatte. In fondo se sinora si è vissuto sopra le proprie possibilità è anche grazie al fatto che si sono sfruttate le ricchezze degli altri. Adesso è venuto il momento di restituire. Crisi o non crisi.