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Noi siamo così

A volte mi domando come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto una monarchia debole e acerba, una dittatura ventennale e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza quarant’anni di strapotere democristiano. Senza i governi forchettoni e i governi balneari. Senza i governi monocolore, il pentapartito, l’apertura a sinistra e il compromesso storico. Senza la concertazione, senza la crisi della Balena bianca, senza le stragi, senza la P2, senza gli anni ruggenti dei socialisti, le ambiguità dei comunisti, le velleità dei riformisti. Senza dorotei, morotei, fanfaniani e andreottiani. Senza miglioristi, berlingueriani, ingraiani e cossuttiani. Senza il Vaticano. Senza la democrazia bloccata. craxi andreotti forlaniSenza il C.A.F. (dall’acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani). Senza Gladio. Senza la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Senza le leghe. Senza la Seconda Repubblica che si è rivelata peggio della prima.
Già, la Seconda Repubblica. Me la ricordo ancora la scritta che ha campeggiato per lungo tempo sul cavalcavia di Piazzale Kennedy a Milano: ‘W Di Pietro’. Era il ’92, l’intera classe politica italiana stava per essere spazzata via dalle inchieste giudiziarie che come in un risiko si abbattevano l’una sull’altra. Che poi, intera no. La furia dei giudici alla fine ha risparmiato l’allora Pci-Pds (sì è vero, fu rasa al suolo la federazione pidiessina milanese, ma l’inchiesta nazionale si fermò alle soglie di Botteghe Oscure) mentre buona parte dei democristiani e socialisti sopravvissuti e le frattaglie dell’ex pentapartito sono migrate verso Forza Italia. Ma allora, nel ’92, alcuni italiani scrivevano ‘W Di Pietro’, in Piazzale Kennedy. E tu guarda come a volta sono proprio i dettagli a svelarti il prosieguo delle storie. John Fitzgerald Kennedy è ricordato per frasi come: «Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per Di Pietrote, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese». Tonino Di Pietro per altre del tipo: «Non sono un politico e non penso di entrare in politica. Ma potete voi escludere la possibilità di vestirvi domani da donna?». In ogni caso, la parabola politica dell’ex Pm di Mani Pulite è andata come tutti sappiamo e Tangentopoli non è stata affatto una rivoluzione. Fra qualche tempo qualcuno probabilmente si domanderà come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto vent’anni di berlusconismo e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza lo strapotere delle banche e della finanza. Senza i ricatti della sinistra arcobaleno e dell’Udc, senza lo sciagurato ciclo del bipolarismo confuso. Senza Previti e Dell’Utri. Senza Mastella, Giovanardi, Follini e Casini. Senza gli ex fascisti e i post fascisti. Senza i governi Dini, Prodi e D’Alema che hanno svenduto le aziende di Stato alla solita oligarchia economico-finanziaria. Senza il partito-giornale e le Tv-partito, senza gli scandali Cirio e Parmalat, le scalate bancarie del 2005, l’Opa di Unipol su Bnl. Senza l’onerosissimo salvataggio di Alitalia, senza Telecom data in pasto prima a Colaninno poi a Tronchetti Provera. Senza i governi tecnici e i governi delle larghe intese. Senza il manto quirinalizio su ogni tentativo di riforma. belsito-lusi-fioritoSenza “er batman”, Belsito e Lusi. Ecco, fermiamoci qui, a questi nomi. Sono l’espressione più compiuta della gens che è prosperata nei pascoli della Seconda Repubblica. Razza predona, arraffona, spregiudicata e ingorda. Sono passati più di vent’anni da quel 1992, e ci siamo accorti che sono trascorsi in un lungo bunga-bunga al cui richiamo in pochi si sono sottratti. Il dolce fardello dei soldi ha avvinto tutti: leader agili nel cambio di maglia e identità, sigle fantasma, una girandola di correnti e di fondazioni. Credevamo di avere visto il volto più brutto della politica e invece il peggio doveva ancora arrivare. L’ex tesoriere della Dc Severino Citaristi, scomparso nel 2006, all’epoca di Tangentopoli fu raggiunto da 74 avvisi di garanzia, un record per cui divenne il simbolo dell’inchiesta. Ha poi ammesso di avere ricevuto le tangenti, ma ha sempre negato qualsiasi interesse personale («non ho mai preso una lira per me», «non ho mai corrotto nessuno» ripeteva) e ha sempre sottolineato che «tutti le prendevano». Altri tempi. Perfino le ruberie erano più nobili, e non si tratta solo di nostalgia del passato.
«C’era la delegazione di Craxi in visita in Cina, erano a cena, mangiavano. A un certo punto Martelli ha chiesto a Craxi: Senti, ma davvero qui sono un miliardo, tutti socialisti? Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Beppe Grillo, allora era un comico e faceva solo ridere, chiuse con questa battuta nello studio di Fantastico 7 la sua carriera alla Rai. Era il 15 dicembre 1986. Per la risposta si è dovuto attendere più di un quarto di secolo.

Beppe Grillo Fantastico

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C’è differenza tra bon ton e buona educazione

Nel mio post di ieri ho espresso un auspicio: che tutti noi italiani, me compreso, includessimo il proponimento di essere più educati. Qualcuno mi ha detto: Anche tu? Ne abbiamo già abbastanza di sacerdoti del bon ton…
Urge un chiarimento: il mio era un invito alla semplice “buona educazione” che è cosa differente dalle “buone maniere” di etichetta. Tutti conoscerete Lina Sotis, magari molti di voi apprezzano il suo lavoro. Da anni sul Corriere della Sera cura una piccola rubrica dedicata al “bon ton”, con la quale somministra agli italiani insegnamenti ispirati a un tale formalismo e a uno “stile” così rigido da sfociare nel ridicolo. La Sotis è vittima di quello snobismo borghese che vorrebbe perpetuare usi e costumi aristocratici, quando in realtà la stessa aristocrazia li ha abbandonati da tempo non dovendo affettare le “belle maniere d’antan” per sentirsi nobilita. Non è con quei sistemi che si può sperare di combattere la maleducazione.
Quali sono i comportamenti messi all’indice da Lina Sotis e i suoi emuli? I soliti: una gestualità eccessiva, come pacche sulle spalle, baci e grandi abbracci, un tono di voce troppo alto, i gomiti sulla tavola e via discorrendo. Che vi sia un imbarbarimento collettivo e l’asticella della buona educazione sia stata spostata in basso è un’osservazione condivisibile. C’è una volgarità dilagante, che permea il nostro modo di stare in mezzo agli altri, di educare i figli, di vestire, di parlare, di guidare. Ma le manifestazioni nemiche dell’ortodossia o moralmente dannose contro cui amano scagliarsi i maestri di bon ton in tutta onestà mi paiono peccatucci meritevoli d’indulgenza. Il ricorso a bacini e bacioni quando ci si saluta è un’usanza che a me provoca disagio, così appena riesco mi sottraggo e allungo il braccio proponendo una più gradevole stretta di mano. Ma me ne guardo bene dal considerare maleducato chi ad ogni costo mi vuole sbaciucchiare. A tavola non ho mai formulato a nessuno l’augurio di buon appetito e se qualcuno starnutisce non dico “salute”; però non impallidisco di rabbia se qualcuno lo fa, semplicemente rispondo: grazie. E di certo non annovero fra gli infrequentabili chi con semplicità usa queste formule benauguranti.
Per ragioni professionali che non starò a precisare, in passato mi è capitato di frequentare molte famiglie italiane di rango ben differente da quella da cui provengo: palazzi affrescati, maggiordomi e camerieri in guanti bianchi. Gente che esegue un millimetrico baciamano e sa bene come riporre forchetta e coltello. Tuttavia a tradirli era sufficiente lo sguardo commiserevole che posavano sul mio golfino di lana, appena acquistato al grande magazzino. E in un battibaleno secoli di buone maniere venivano trafitti, con la stessa forza con cui le tignole trapassano i loro cachemire.
Allora vi domando, dobbiamo considerare più screanzato un tatuaggio su un muscolo esibito oppure certi sguardi altezzosi nel vuoto? Una dialettica modesta, magari troppo colorita e strillata o invece certe loquele balbettanti e arrotate, sempre molto meditate, come se ogni parola la dovessero tirare giù dall’Olimpo?
La buona educazione per me sta nel mezzo. Si annida fra le persone solerte, frugali, a tratti silenziose, che non ostentano e che impongono ancora ai propri figli il rispetto di poche e semplici regole. Perché a differenza di quanto qualcuno crede, si può avere bon ton senza essere educati.

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A chiacchiere siamo bravi noi italiani

Mai come di questi tempi tutti denunciano il fango morale e politico in cui ci troviamo a sguazzare. Ovunque c’è aria di sdegno: al bar, in ufficio, in palestra, dal barbiere. Siamo tutti terribilmente schifati da questa Italia e dalle sue pessime abitudini. Che naturalmente non ci appartengono. A chiacchiere siamo tutti civili come scandinavi, organizzati come tedeschi e misurati come svizzeri. A chiacchiere il nostro rispetto per la cosa pubblica è perlomeno simile a quello di un francese o di un inglese. A chiacchiere siamo proprio tanto bravi noi italiani.
La verità è tristemente un’altra, guardiamoci attorno. Oppure, ancora meglio, proviamo un giorno a uscire di casa con il proposito di rispettare le regole, dalla prima all’ultima. Ci renderemo presto conto di essere sopraffatti da un esercito di maleducati e arroganti. Quanti di noi si ricordano di dare la precedenza ai pedoni? Si mettono ordinatamente in fila? Rinunciano a parlare al cellulare in auto? Prima di salire su un mezzo pubblico attendono che gli altri siano scesi? Rispettano il silenzio imposto da certe occasioni o certi luoghi? L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma non serve. L’orrore trascina orrore e la maleducazione incoraggia la maleducazione. Non continuiamo a domandarci chi è quella folla indecente che ci irrita con la propria tracotanza. Siamo noi. Ammettiamolo.
La decadenza dell’Italia, che spazia dalle feste mondane e cafone ai salotti “bene” agghindati da circoli culturali d’elite, è stata sapientemente descritta nel film La grande bellezza. Ora però non intendo innescare un dibattito su chi è maleducato. Anche perché qualcuno potrebbe sostenere che per rilasciare la patente di screanzato occorre avere maturato esperienze sul tema. Però dentro di me, in fondo, molto in fondo, coltivo un piccolo sogno. Che tutti noi italiani, me compreso, includessimo il proponimento di essere più educati. Che è ben differente dal vacuo desiderio espresso ogni giorno di vivere in un Paese migliore. Alziamo l’obiettivo. Proviamo a cercare dentro noi stessi risorse insospettabili. O vogliamo sempre e solo cavarcela? Certo è difficile essere corretti, educati e consapevoli quando si vive in una realtà dove vince (ma siamo sicuri?) il più furbo e il più arrogante. Ciascuno di noi si sente una formica impotente e ha paura che se rinuncerà a essere a sua volta scaltro e prepotente sarà schiacciato. Ma è proprio qui il problema. Finché non riconosceremo che le nostre azioni possono concorrere a cambiare la realtà, non usciremo dalla buca in cui siamo finiti. Non ci sono altre vie d’uscita. Finché continueremo a consolarci facendo finta di credere che i politici sono tutti ladri, gli imprenditori evasori e i ricchi arroganti, mentre noi siamo solo dei poveri cristi, vittime nostro malgrado del sistema, questo resterà un Paese per guappi.

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Beppe Grillo, la Terza Guerra Mondiale e la Rivoluzione del dopo-scuola

Matteo Renzi nell’intervista rilasciata a Il Foglio sostiene che alle prossime elezioni il Movimento 5 Stelle scomparirà e il Pd tornerà a conquistare gli elettori prestati a Beppe Grillo. Quest’ultimo è di parere opposto. A margine di un incontro elettorale a Ragusa, il leader del M5S ha ammesso qualche errore nella comunicazione, ma ha ribadito un concetto forte: «stiamo facendo una rivoluzione». Poi con il solito linguaggio ruvido e colorito ha anche spiegato che in corso «c’è la Terza guerra mondiale, ma non la fanno con i carri armati, la fanno con le banche, la finanza e la politica». Si è dimenticato i giornali, o forse ha ritenuto che fosse superfluo citarli visto che la gran parte, quasi tutti, sono sotto lo scacco di banche, finanza e politica. In ogni caso questa frase, che è stata commentata da alcuni come la solita maldestra boutade grillesca, contiene un fondo di verità. La potenza di fuoco che quotidianamente viene messa in campo da quotidiani e periodici e dal loro codazzo di opinionisti, editorialisti, trombettieri e tromboni delle larghe intese contro Grillo e il M5S ha pochi precedenti. Ne ho parlato qui qualche giorno fa. Non passa giorno senza che tutta l’editoria nostrana di finanza e di banca, ma anche di calcestruzzo e di cliniche, tenti di convincere l’opinione pubblica che Beppe Grillo è quanto di peggio e terribile abbiamo oggi in Italia. D’accordo, gli eletti del M5S hanno prestato il fianco e anche qualcosa di più. Alcuni di loro si sono resi ridicoli agli occhi degli italiani, specialmente di quelli che li hanno votati. Vito Crimi che dorme in Aula (fosse stato il primo!), Roberta Lombardi che straparla, l’incresciosa vicenda della diaria hanno dato la stura a un valzer di editoriali e commenti che poi sono sfociati nelle invettive della Rete. Dunque sì, ha ragione Grillo, è in corso una guerra, magari non mondiale, ma civile, nel senso di interna. Piaccia o no, occorre riconoscere che Grillo ha toccato i gangli vitali di un sistema corrotto, marcio dall’interno. Le sue sparate, a volte rozze e indifendibili secondo i principi del ‘politicamente corretto’ (espressione che spesso serve a mascherare l’impossibilità di affermare la verità), hanno messo nel mirino, tanto per rimanere fedeli a un vocabolario guerresco, tutte le caste protette: non soltanto quella politica, nei cui confronti il disprezzo è ormai diffuso, ma anche la casta dell’informazione, della finanza, dei patti di sindacato, dei monopoli e via discorrendo. Insomma, da qualche tempo Grillo se ne esce dal suo camper e spara a zero contro il putridume e il ciarpame che avvolge questo Paese. Perciò fa paura a molti. Il suo linguaggio è impetuoso e irriverente, ma autentico e attuale. Dietro i suoi modi bellicosi in realtà è struggente e indifeso. Non cerca sponde, non cerca alleanze. Tira dritto, menando fendenti contro il Corriere delle banche, La Repubblica di De Benedetti, le Tv di Berlusconi, il Sole (ormai molto offuscato) di Confindustria. Spiazza per la lealtà e l’imprevedibilità dei suoi affondi. In questo  ricorda a volte Pasolini, benché il paragone, lo so, farà rizzare i capelli a molti, e io per primo metto le mani avanti riconoscendo che si tratta di due vicende umane e due intelligenze profondamente differenti. Tuttavia c’è un tratto pasoliniano nella capacità di Grillo di scartare gli abbracci soffocanti, nel desiderio di non farsi etichettare e intrappolare. Grillo però ha una visione manichea del potere che Pasolini non amava. E in questo aspetto è racchiusa tutta la debolezza della sua proposta politica. Credere che gli onesti e le persone animate da una bontà disarmante e un’innocenza assoluta, simili a tanti dostoevskijani principi Myskin, si schierino solo dalla sua parte, mentre dall’altra siedono tutti gli impuri e i corrotti è una semplificazione inaccettabile. Le rivoluzioni richiedono enormi sacrifici e il più delle volte sfociano lo stesso in cocenti delusioni. C’è un evidente contrasto tra la constatazione di Grillo, «c’è la Terza guerra mondiale», e il metodo scelto per fronteggiarla, cioè portando volti apparentemente nuovi in Parlamento, molti dei quali però saranno già vecchi appena varcata la soglia del Palazzo. Perché a uno Stato, come a un uomo, è difficile insegnare la morale una volta che si è superata l’età dell’infanzia. Come diceva Sciascia, bisogna farlo nelle scuole elementari, dopo è già tardi.

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Il nostro sottosegreario per i Beni Culturali e la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Varati a parte

Leggo che l’imprenditrice italiana Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, ilaria borletti buitoninel ruolo di sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali del Governo Letta, sarà impegnata nei prossimi giorni in numerose inaugurazioni: da un’importante mostra a Orvieto al 56esimo Festival dei Due Mondi a Spoleto. Il pensiero quasi spontaneamente corre alla Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, azionista della Megaditta Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica che ne Il secondo tragico Fantozzi, in una scena contessa_serbelloni_mazzanti_viendalmareche per me è fra le più belle della saga fantozziana e della storia del cinema comico italiano, è madrina del varo della turbonave aziendale. Anche se, a onor del vero, Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni si è dichiarata contraria al passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia: «Una follia quei mostri nel canale, ma servono dati ufficiali» avrebbe detto il sottosegretario. Bontà sua.

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L’Italia è un Paese per comici

Alla mitizzazione di Rosario Crocetta, presidente della Regione Sicilia, hanno concorso in molti. Fra questi anche Maurizio Crozza, che in una puntata di ‘Crozza nel Paese delle Meraviglie” aveva elogiato il lavoro del Governo siciliano. Crozza mi è simpatico, e ai miei occhi lo è diventato ancora di più dopo l’imbarazzante incidente occorsogli sul palco durante l’ultimo Festival di Sanremo. Ma un comico trova la sua dimensione nel dileggio, non nell’adulazione. Secondo me la scelta di lodare il lavoro di Crocetta era stata suggerita a Crozza più dalla necessità televisiva di trovare l’antagonista buono al perfido Formigoni (sapiente la parodia dell’ex governatore della Regione Lombardia) che da altre ragioni. Certo si era esposto, e anche molto: ‘Crocetta chiude le società non produttive, taglia i rami secchi, riduce gli stipendi… la Sicilia con Crocetta è diventata all’avanguardia’.
La stella di Crocetta però ha smesso presto di brillare, succede spesso in Italia. Ci sono stati il caso Battiato, la promessa non mantenuta di trasferire i dirigenti responsabili di aver fatto perdere alla Sicilia i fondi strutturali dell’Europa, la vicenda irrisolta dei 23 mila precari degli enti locali, che salgono a circa 100 mila considerando pure i forestali, i 196 milioni di euro spesi per gli stipendi dei dipendenti dell’assessorato regionale ai Beni culturali contro i 490 mila erogati per le attività di conservazione, e altre bagatelle. Anche la riduzione dello stipendio dello stesso presidente suona come una farsa, considerato che sì, se l’è ridotto a 81 mila euro, ma l’ex sindaco di Gela (dove tra l’altro l’Eni è tornata a inquinare pesantemente il mare) somma all’indennità di presidente quella di parlamentare regionale, all’incirca 230 mila euro, arrivando ad una cifra complessiva di 313 mila euro all’anno. Mica bruscolini, no?
Insomma alla fine anche quella di Crocetta si sta rivelando molto simile alla vecchia politica degli annunci, che in Italia ha una lunghissima e solida tradizione. La Sicilia resta una terra meravigliosa per via del prezioso patrimonio artistico, l’antica e nobile storia, la fierezza degli abitanti e la bellezza dolce e aspra del paesaggio. Però la Regione è in default, la sanità è da quarto mondo, i rifiuti assediano i centri urbani, l’istruzione è ai livelli più bassi della Nazione,  la disoccupazione e la povertà dilagano. Per questo, caro Crozza, migliaia di persone ogni anno trascorrono piacevoli vacanze sulle spiagge di Taormina, San Vito Lo Capo e Cefalù, visitano la Valle dei Templi e percorrono le strade del barocco siciliano, ammirano i mosaici di Piazza Armerina e i siti archeologici di Segesta e Selinunte, ma alla fine tornano a trascorrere la loro quotidianità nel grigio e a volte un po’ monotono paesaggio lombardo. Dove, nonostante le ruberie degli anni Ottanta e Novanta, gli scandali e le tangenti, le infiltrazioni mafiose, lo strapotere formigoniano e ciellino, lo smog e tutto il resto che non elenco, si va avanti. Sprechi dei politici siciliani, lombardi, romani e di Bruxelles permettendo.

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Il Decreto del Fare e il Paese dei tonti

Nei giorni scorsi i giornaloni nazionali si sono dilungati a commentare il cosiddetto Decreto del Fare varato dal Governo Letta. Il Corriere della Sera ha titolato: ‘Oggi è il giorno del «fare». Ecco le misure per famiglie e imprese’. Altri sono stati un poco più cauti, qualcuno ha avanzato tiepide perplessità. Nessuno però ha raccontato com’è nata l’idea di questo Decreto. Vi svelo io i retroscena. Enrico Letta era seriamente preoccupato per le critiche ricevute. Perfino i quotidiani stranieri cominciavano a titolare: ‘Il Governo italiano è al palo, non sta facendo niente’. Così ha pensato di dare un segnale di vita. Come si fa in questi casi, ha convocato un team di espertoni della comunicazione, chiedendo loro di affrontare seduta stante la situazione. I guru si sono stretti attorno a un tavolo e hanno cominciato a elucubrare.
Uno di loro ha chiesto: – Di cosa è accusato il Governo Letta?
– Di non fare nulla – hanno risposto alcuni.
– Bene – ha replicato il primo – quindi cosa occorre fare?
– Mmhh, mah… – qualche momento di indecisione, poi s’è levata una voce: – Dobbiamo fare un bel Decreto!
– Giusto! Ben Detto! Esatto! – un coro di voci entusiaste ha accolto la propostona.
– Già, ma attenzione al nome – ha commentato il più anziano dei guru – tutto dipenderà da quello.
– Eh già – hanno risposto in molti.
– Io avrei un’idea – ha detto uno che fino a quel momento era stato un po’ in disparte.
– Sentiamo – l’ha incalzato il guru anziano.
– Proporrei di intitolarlo Decreto per la Ripresa.
– Mmhh – ha detto il guru anziano.
– Mmhh – han detto gli altri.
– Sa di già sentito – ha precisato il guru anziano.
– Eh sì, sa di già sentito – hanno aggiunto gli altri.
– Allora chiamiamolo Decreto per lo Sviluppo – ha replicato il guru in disparte.
– Decreto per lo Sviluppo?! – ha commentato sarcastico il guru anziano. – Naaah, poi quelli di sinistra si mettono a puntualizzare se deve essere sviluppo o progresso… Non va bene.
– E allora, come lo chiamiamo? – hanno chiesto in coro gli altri guru, con i volti già affranti.
Proprio a quel punto, si è alzato dal tavolo il guru emergente, un astro nascente della comunicazione, il cui motto è “parla picca e `nzirtirai”. Si è sistemato i polsini della camicia, ha ravviato il ciuffo e ha esclamato: – Visto che il Governo Letta viene accusato di non fare niente, lo intitoleremo Decreto del Fare. Questo è il nome giusto.
– Geniale – hanno esclamato tutti all’unisono.
– Geniale – ha aggiunto una seconda volta il guru anziano.
– Bene, bene – hanno detto tutti in preda a un delirio di onnipotenza. Intanto alcuni già si stavano alzando dal tavolo.
– Sì, ma ora dobbiamo metterci dei contenuti in questo Decreto del Fare – ha detto a quel punto il guru in disparte.
– Già – hanno ammesso tutti, compreso quelli che avevano già raggiunto la porta di uscita.
– Ma sì, ma sì – è intervenuto a quel punto il guru anziano – e che volete che sia! Ci metteremo le solite cose: una mano all’edilizia e alle infrastrutture, bollette meno care, semplificazioni burocratiche, bonus per gli studenti e un fisco più tenero.
– Diamine, ma ce la faranno a fare tutte queste cose? – ha chiesto allora il guru in disparte.
– Ah ah ah ah – una fragorosa risata ha riempito la sala, mentre i guru si stringevano le mani e si scambiavano congratulazioni.

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Ruvide emozioni

José Saramago ha raccontato che suo nonno, prima di morire, scese nell’orto per abbracciare i suoi alberi. Herman Hesse invece ha scritto a proposito di alberi: «Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte». Ritrovare se stessi attraverso il contatto con gli alberi. Una pratica antichissima che accomuna culture molto diverse, dagli indiani d’America ai tibetani, fino agli aborigeni australiani.
Abbracciare gli alberi fa bene, lo sanno i popoli più antichi della terra. Noi invece gli alberi non li guardiamo neanche più. Vi svelo un segreto: abbracciare un albero è bello, ma farsi abbracciare è magia allo stato puro. Il Fuatèl, questo è il nome di un gigantesco faggio sui Monti lariani, a 1100 metri d’altitudine, mi ha accolto nel suo ventre. Lui è lì da almeno 400 anni, per intenderci dai tempi della famosa peste del 1630 che colpì anche i paesi sulle sponde del lago di Como. Quella descritta dal Manzoni nel XXXI capitolo dei “Promessi Sposi”. Proprio davanti al Fuatèl sostavano coloro che, per sfuggire al contagio, dal lago scappavano sugli alpeggi tra il Bugone e l’Alpe di Carate. Quello stesso Fuatèl che l’altro giorno, senza chiedere nulla in cambio, mi ha regalato il suo secolare abbraccio.

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Il Belpaese consumato dal consumismo

Nel post pubblicato ieri ho cercato di sintetizzare le ragioni per cui la nostra economia non tornerà a crescere, perlomeno non nelle forme ossessive del passato. Forse un auspicio più che una previsione. Torno sul tema per rafforzare la tesi con due approfondimenti. Il primo giunge dalle pagine dei quotidiani di oggi, che offrono la consueta litania della mancata ripresa. L’esempio quotidiano è paradigmatico perché riguarda il mercato dell’automobile. Ve lo propongo nella versione del Corriere della Sera, visti i rapporti ‘familiari’ fra il quotidiano di via Solferino e il marchio automobilistico nazionale. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulle previsioni degli analisti (lo so, il termine ormai fa sorridere molti): niente ripresa fino al 2019. Nel 2009 si era vaticinata la ripresa entro il 2010, nel 2010 entro il 2011 e così via. Adesso hanno pensato bene di prendersi qualche anno in più di agio, così siamo già arrivati alle soglie del 2020. Ma tra sette anni molte più persone si saranno rese conto che un’auto usata con parsimonia e tenuta con cura ha un ciclo vitale lungo, quindi il processo di ‘demotorizzazione’ delle famiglie sarà più spinto e di conseguenza la capacità produttiva degli stabilimenti risulterà ancora più inadeguata per eccesso. Possiamo solo confidare che da qui al 2020 una parte consistente degli investimenti privati e dei sostegni pubblici sia destinata a nuove forme di economia, quali la custodia e il risanamento del territorio, la cultura, il turismo, in modo che la forza lavoro in uscita dai settori in crisi possa trovare nuove e più allettanti prospettive occupazionali altrove.
Il secondo approfondimento giunge invece da un video incluso in uno dei commenti (ringrazio l’autore) al mio post di ieri. Parla del nostro attuale sistema produttivo, di consumismo, inquinamento e multinazionali. La sua visualizzazione richiede un po’ di tempo ma, credetemi, ne vale la pena. Se non siete ancora del tutto convinti di essere finiti in una gigantesca trappola per topi, dopo aver seguito attentamente questo video aggiungerete perlomeno un tassello al vostro processo verso la consapevolezza.

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Perché la nostra economia non si riprenderà

Lo so, questo post parte con un titolo fastidioso. Se siete fra quelli che vogliono solo sentirsi raccontare che presto l’economia italiana tornerà a correre a gonfie vele, e che dunque torneremo tutti quanti, o quasi, a consumare come polli d’allevamento, be’ il suggerimento è di chiudere la pagina. Se invece vi annoverate fra quanti hanno deciso di sottrarsi alla tirannia del credito forzato e alla schiavitù della fabbrica dell’uomo indebitato, allora procedete pure.
È la sacralità della merce e del suo consumo ad essere entrata in crisi, più ancora della nostra economia. L’edonismo consumistico avviato con il boom di fine anni Cinquanta/primi anni Sessanta ha raggiunto il suo culmine negli anni Ottanta. Tale edonismo ha travolto e sostituito ogni altro valore del passato con l’unico principio perseguito e diffuso: il benessere. In realtà col trascorrere degli anni una fetta via via più ampia di popolazione si è resa conto che il termine benessere non svelava una sana prosperità,  ma  celava piuttosto un bisogno irrazionale di consumare. Difatti se da un lato la qualità della nostra vita progrediva grazie alla disponibilità di nuove tecnologie, dall’altro contemporaneamente regrediva a causa dell’assunzione di ritmi sempre meno naturali e dell’inquinamento dilagante dei luoghi in cui viviamo. Allora, seppure con lentezza, hanno cominciato a diffondersi comportamenti più equilibrati, attenti all’impatto ambientale e sociale dei nostri consumi. Poi, fra il 2007 e il 2008 è arrivata la crisi, prima finanziaria, poi produttiva, ora sociale. Una massa gigantesca di persone hanno cominciato a frenare i propri consumi: alcuni lo hanno fatto per necessità, altri per timore, altri ancora per contagio. A questo punto è entrata in gioco la variabile impazzita, il cosiddetto cigno nero, cioè l’elemento imprevedibile che muta gli scenari. Fra la massa di persone che hanno cominciato a ridurre i consumi è cresciuto gradualmente il numero di coloro che si sono interrogati sui propri comportamenti pregressi. In parole povere molti hanno cominciato a comprendere che quell’affannarsi per soddisfare futili desideri era totalmente privo di senso. O, ancor meglio, che quell’arrembante corsa ai consumi non serviva ad accrescere la propria felicità, ma semmai ad alimentare un sistema al cui interno solo pochi traevano benefici esagerati. L’omologazione culturale che Pier Paolo Pasolini ha denunciato con quarant’anni di anticipo ha prodotto un esercito di consumatori edonisti privi di qualsiasi facoltà raziocinante. Per di più questa folle e disperata rincorsa al superfluo è stata accompagnata dallo squallore e dal degrado delle condizioni culturali di ampie fasce di cittadini, giovani e meno giovani che si sono illusi di potersi affrancare dalla loro condizione di miserabili indossando scarpe e occhiali griffati oppure guidando un’automobile che il più delle volte assorbiva gran parte delle loro disponibilità economiche.
Ora, quando il presidente di confindustria o il capo del governo, e con loro una pletora di economisti, opinionisti, editorialisti, invocano la crescita, non stanno pensando a null’altro che alla perpetuazione di quello stesso sistema da cui molti di voi si sono già allontanati o stanno tentando di sfuggire. Un sistema che vuole ricondurvi come un gregge nell’ovile, e l’ovile che vi attende è rappresentato da luoghi infernali dove non saprete resistere al desiderio di acquistare, quasi fosse il solo modo conosciuto per dimostrare di esserci. Luoghi dove perlopiù si vendono merci scadenti, perché l’economia dei consumi facili predilige prodotti di bassa fattura, che si logorino in fretta o si possano migliorare continuamente. La tradizione, il valore artigianale, la cura per il bello sono considerate soltanto perdite di tempo nella società opulenta della crescita “illimitata”.
Tutto risponde a un disegno preciso, quello di farci ripiombare nel ruolo di stolidi consumatori perennemente indebitati. Questa sì, sarebbe la fine di un’Italia già sufficientemente avvilita e degradata, in preda al vuoto dei valori e all’assoluto permissivismo. Ma gli appelli e le bieche manovre sostenute dai banchieri di destra e di sinistra non hanno fatto i conti con il crescente numero di italiani desiderosi di non tornare nel branco. Per questo, spero, la nostra economia non si riprenderà. Perlomeno non come vorrebbero ‘loro’.

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In guardia popolo, chi segue Grillo avrà la testa mozzata

Beppe-Grillo-

Punto primo: non ho votato M5S. Punto secondo: non voto da anni.
Ma più passano i giorni, le settimane, e più simpatia nutro per Beppe Grillo. Nonostante le gaffe dei deputati grillini e la spocchia dei capigruppo grillini. Nonostante indennità, diaria e rimborsi. Nonostante i dissidenti e i transfughi. L’Italia è un museo dei vizi, una scuola di depravazione, una sentina d’impurità, una nazione senza pudore né dignità, diceva Curzio Malaparte. E fino a prova contraria, i grillini sono italiani. Dunque incarnano qualità e i difetti di tutti gli italiani.
Ma la potenza di fuoco che quotidianamente viene messa in campo dai giornaloni e dal loro codazzo di opinionisti, editorialisti, trombettieri e tromboni delle larghe intese suscita più di un sospetto anche in un idiota come me. Per tutti questi commentatori Beppe Grillo è un settario e un irresponsabile. Loro che, con i loro grandi gruppi editoriali, da anni ci vendono come riforme ineluttabili la perdita dei diritti e della dignità sociale; che hanno difeso a spada tratta il Fiscal Compact e l’Europa dei banchieri e dei burocrati; che hanno esaltato prima l’agenda Monti come la sola via e ora il governo Letta come un’opportunità unica; che blaterano di povertà come si blatera di tutto ciò che risulta misterioso, esotico, nuovo, ma un precario o un disoccupato non l’hanno mai visto dal vivo; loro oggi sono uniti dall’odio verso Beppe Grillo. Perché? Perché non passa giorno senza che il Corriere della Sera e tutta l’editoria di finanza e di banca, di calcestruzzo e di cliniche, entrino in trincea?
Non vi fa un po’ impressione questo attacco generale espresso con titoloni e corsivi? Non trovate singolare che il “fior fiore” del giornalismo italiano tenda a convincere l’opinione pubblica che Beppe Grillo è tutto ciò che di peggio e terribile abbiamo oggi in Italia? Insomma, non vi inquieta un po’ questa militarizzazione? Dov’è finito il famoso mastino del Quarto Potere quando si tratta di far vedere i sorci verdi agli imprenditori italiani che fanno realizzare i loro prodotti nei Paesi in via di sviluppo a lavoratori (uomini, donne e bambini) pagati pochi spiccioli in assenza dei più elementari diritti? Eh, non hanno tempo né spazio da dedicare a queste bazzecole presi come sono ad azzannare i polpacci di Beppe Grillo. Fiato alle trombe, inizia l’editoriale unico dei gazzettieri multipli contro il comico! E alla domanda – perché? – rispondo pasolinianamente: Io so. Ma non ho le prove.
Insomma più passano i giorni da quel 25 febbraio, più la stampa italiana, almeno tutta quella parte, ed è tanta, che agisce come uno yorkshire di compagnia a chiunque detenga il potere, mi chiarisce le idee. In guardia popolo, chi segue Grillo avrà la testa mozzata.

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C’è ancora tanta bellezza da salvare

«Nessuno si batterebbe con rigore, con rabbia, per difendere questa cosa e io ho scelto invece proprio di difendere questo. (…) Voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome che però hanno lavorato all’interno di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi e più assoluti nelle opere d’arte e d’autore. (…) Con chiunque tu parli, è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere (…) un monumento, una chiesa, la facciata della chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico è ormai assodato ma nessuno si rende conto che quello che va difeso è proprio (…) questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare».
Così si espresse Pier Paolo Pasolini per difendere un “selciato sconnesso e antico” presso Orte.
Ecco, oggi voglio appropriarmi indegnamente delle sue parole per difendere questo.
campo papaveri

Un campo di papaveri e margherite alla periferia di Milano. C’è ancora tanta bellezza da salvare. Anche attorno alle nostre città. Cose piccole. All’apparenza insignificanti. Cascinali, piccole chiese isolate nella campagna, filari di alberi, fossi, rogge. Basta saper guardare. Basta.

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Due o tre cose su Milano. Sulla speculazione edilizia. E sulle rivoluzioni mancate.

Due anni fa buona parte della stampa nazionale, quella che vuole dettare l’agenda politica anziché raccontare i fatti, ha incoronato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come il liberatore, il leader capace di innescare quel riscatto che il capoluogo lombardo attende da tempo. giuliano-pisapiaOggi quella stessa stampa ha cominciato a processare il primo cittadino per l’inerzia fin qui dimostrata. Nei consigli di amministrazione di quei giornali siedono i rappresentanti di molti operatori interessati al sacco edilizio che si sta consumando sotto il cielo di Milano, milioni di metri cubi di altro cemento gettati in pasto alla più becera speculazione. Potrebbe dunque essere anche lecito pensare che, dopo essere passati dalla cassa, ora possono gettare il sindaco arancione alle ortiche. Come? – dirà qualcuno – tutte le lottizzazioni in corso sono state decise dai predecessori di Pisapia! Vero, anche se sarebbe più corretto affermare che dietro il sacco di Milano ci sono tali e tante complicità che per passarle al setaccio ci vorrebbe una specie di Tribunale dell’Aja. Ma a parte questo, vi pare possibile che un sindaco insediatosi con l’obiettivo di moralizzare la città non abbia speso, né lui, né i suoi assessori, compreso le assessore a cui molti hanno guardato con tanta speranza, una sola parola di denuncia nei confronti di tanta bruttezza? Pisapia e la sua giunta avrebbero dovuto piantare le tende in mezzo al cantiere di Porta Nuova-Garibaldi, fra il ferro e il cemento che si alza sopra le poche vecchie case sopravvissute all’assalto, soffocandole e martirizzandole. Avrebbero dovuto raccogliere intorno a loro lo sdegno e la protesta di chi sognava una città differente, non dico una metropoli romantica, ma nemmeno quell’infamia di asfalto e cemento che ha immaginato la Moratti (e le forze che l’hanno sostenuta) per Expo 2015. Invece, niente. L’infernale cantiere delle ex Varesine/Isola avanza, al pari di quelli di Fiera City, Santa Giulia e Porta Vittoria. Porta NuovaIl primo, quello che ospita il grattacielo di Unicredit e il nuovo Palazzo della Regione (orgoglio di Formigoni) e poi in mezzo una selva di palazzi di 20 e più piani, racconta in modo esemplare che Milano ormai è fottuta. Nessuno, con una qualche conoscenza architettonica e urbanistica, avrebbe mai potuto pensare che all’interno di quel dedalo di vie si potesse costruire tanto. Venite a fare una passeggiata se non mi credete: vi mancheranno l’ossigeno e la prospettiva. Se alzate gli occhi, lo sguardo sbatte sui vetri. E anche se guardate da lontano non avrete alcuna speranza di apprezzare le strutture o lo skyline. Perché Milano è piccola, stretta e congestionata.
Certo, a pensarci bene era davvero difficile immaginarsi Giuliano Pisapia accampato per protesta in mezzo alle gru in compagnia di Stefano Boeri (assessore alla cultura ‘licenziato’ tre mesi fa), architetto-politico interessato al progetto dato che i due grattacieli denominati «bosco verticale» all’Isola sono firmati dal suo studio. E ve lo sareste immaginato Bruno Tabacci (ex assessore al bilancio di Milano che ha lasciato l’incarico a gennaio per volare di nuovo in Parlamento), politico di lungo corso, già presidente della Regione Lombardia dal 1987 al 1989, uno dei punti di snodo tra i poteri economici e la politica di centro, ricevere una tazza di caffè fumante dai colleghi di giunta dopo aver trascorso la notte in tenda in mezzo all’orrido cantiere?
Siamo seri, se ancora è possibile. La ‘rivoluzione arancione’ di Pisapia è finita il giorno dopo che è stato eletto, anzi diciamo pure che non è mai cominciata. Spiace, ma lo dico in modo sincero non col ghigno di chi aveva già previsto tutto, spiace per quei giovani che ci hanno creduto davvero. Ma ora vi domando: pensavate davvero di poter cambiare una città come Milano in compagnia di architetti-politici e di gente come Bruno Tabacci, un democristiano uscito indenne da varie indagini, puro tra gli impuri?
Milano non è cambiata, anzi sprofonda. Per carità, ora non si possono addossare tutte le colpe a Giuliano Pisapia. Sarebbe stato davvero un uomo dei miracoli se fosse riuscito a invertire la rotta. Perché, diciamoci la verità, il declino di Milano è in atto da anni, decenni ormai. Sembra quasi una barzelletta, ma gli ultimi sindaci che hanno governato con una prospettiva sono stati quelli socialisti. Lasciamo perdere il sindaco-cognato Paolo Pillitteri, però occorre tornare per esempio a Carlo Tognoli per trovare l’ultimo primo cittadino che ha operato con una visione acuta del rapporto centro-periferie e che in queste ultime ha portato strutture e progetti. Poi c’è stato il vuoto, è cominciata l’era dei diminutivi: Formentini e Albertini. Nei riguardi del primo mi pare uno spreco spendere parole, il secondo sarà ricordato per aver sfilato in mutande. E questo in realtà è un errore, perché l’imprenditore prestato alla politica, come si definì lui stesso, ma che dalla politica non si è mai più allontanato, ha avviato la maggior parte dei progetti di riqualificazione della città, dalla Vecchia Fiera alla zona Porta Nuova-Varesine. Progetti che sono stati implementati da Letizia Moratti; lei poi ha anche messo il fiocco sul pacco regalo per gli immobiliaristi e i costruttori (tutti naturalmente privati) che  possiedono i terreni sui quali Milano ospiterà l’Expo e su cui all’indomani del 2015, con una nuova colata di cemento, nascerà una cittadella da 400mila metri quadrati e circa 15mila abitanti.
Intanto, dicevo, Milano sprofonda. E non occorre essere architetti e urbanisti per coglierlo, anzi forse aiuta non esserlo. Milano è vittima dell’incuria e dell’abbandono. L’arredo urbano è indegno, la progettazione e la manutenzione del verde, salvo rarissime eccezioni, sono vergognose. Non soltanto nelle periferie, anche in centro. Milano è asfittica, ripiegata su se stessa. Triste. Chi di voi è stato in giro per l’Europa sa come si crea il sentimento di una città e come si ottiene l’equilibrio tra palazzi, strade, luce, verde e persone, quell’equilibrio che passa sotto il nome di respiro metropolitano. Per anni mi sono vergognato di scrivere queste cose, perché mi pareva di accodarmi a quel fenomeno un po’ facilone e grezzo chiamato esterofilia. Ma basta entrare in un museo, passeggiare in un parco, salire su un mezzo pubblico, sedersi ai tavolini di un caffè per rendersi conto che altrove la qualità della vita è migliore. Fare l’elenco delle città europee risorte dopo un periodo più o meno lungo di decadenza è un esercizio fin troppo semplice. Così come raccontare dei tanti quartieri periferici perduti e malfamati reinventati grazie a un’accorta regia tra mano pubblica e mano privata.
Concludo raccontandovi un episodio. Qualche settimana fa, dopo aver trascorso il pomeriggio al Parco delle Cave, un’area verde Parco-delle-Cave-situata alla periferia occidentale di Milano ben progettata e curata con amore, una di quelle poche eccezioni di cui parlavo, ho scelto di fare due passi nel popolare quartiere di Baggio, lambito dal nuovo parco. Nel nucleo storico ancora oggi si vedono scorci del vecchio borgo e si possono ammirare alcune ville in stile Liberty. L’emblema resta però la chiesa di Sant’Apollinare, con il meraviglioso campanile romanico risalente all’anno Mille. Quel giorno all’interno della chiesa si esibivano al piano un gruppo di ragazze e ragazzi diretti dalla pianista e concertista russa Tatiana Larionova. Lei stessa, al termine del saggio, ha regalato agli astanti una breve, quanto intensa esibizione con il marito Davide Cabassi, uno dei migliori pianisti italiani della sua generazione. All’uscita dalla chiesa, una sciabolata di sole illuminava ancora i vecchi edifici di Baggio. Ho pensato che in qualsiasi altro luogo d’Europa, attorno a una chiesa così antica e fascinosa e ai resti di vetusti palazzi e cascine sarebbe sorto un quartiere animato da piccole botteghe, caffè e locande. A Milano no.via anselmo da baggio

 

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Libero gelato in libero stato. Il declino di Milano in un cono

Quando è divenuto sindaco di Milano, contro le previsioni di molti, Giuliano Pisapia non poteva certo immaginarsi che un giorno sarebbe dovuto apparire di fronte alle telecamere dei telegiornali nazionali per spiegare che i milanesi possono gustarsi il cono gelato anche dopo la mezzanotte. Riassumo la vicenda per i distratti: a Milano da un paio di giorni ci si è scordati di tutti i problemi e si dibatte solo del cono gelato. Un’ordinanza del Comune scritta male e comunicata peggio vieta infatti, testualmente, «la vendita di cibi e bevande per asporto» dopo la mezzanotte, «per bar, ristoranti e artigiani» compresi «gli artigiani del gelato». Lo scopo dichiarato sarebbe quello di «dissuadere la formazione di assembramenti notturni sui marciapiedi di fronte ai locali». Apriti cielo! Silvio Berlusconi in persona è sceso in campo con un tweet: «Forza milanesi, avete ancora sei ore di tempo per gustarvi un gelato». Da lì in poi i social network sono impazziti e il sindaco Pisapia è stato travolto da tweet, ironie e proteste per tutto il weekend. Lui, non pago della pessima figura raccolta con quella maledetta ordinanza, ha rotto il silenzio e per rimediare all’autogol ha inserito la retromarcia. Ma lo ha fatto sfoderando un linguaggio da vecchia politica che neanche Mariano Rumor era mai arrivato a concepire. Ha detto che verrà chiarito ogni equivoco e che non c’è nessun coprifuoco e mai è stato previsto. Però l’ordinanza è stata firmata, allora tanto valeva dire: scusate, ci siamo distratti e abbiamo firmato un atto sbagliato.
Vabbè, qui archiviamo il problema del… cono, per non dire peggio. Ciò che invece merita di essere analizzato con molta più attenzione è la dinamica dell’accaduto. Un tam tam di tweet, a cui poi hanno fatto seguito approfondimenti sui blog, sui quotidiani online e infine sulla carta stampata, ha inchiodato il sindaco costringendolo a una ridicola e imbarazzante marcia indietro. Attorno alla questione del cono gelato i milanesi hanno sfoderato l’uso intelligente dei social e della Rete. La generazione di cittadini 2.0 ha ottenuto ciò che voleva grazie al web. Qualcosa di simile, in fondo, era accaduto anche in occasione dell’elezione di Pisapia, allorché le cosiddette Morattiquotes, ossia citazioni fasulle ma verosimili del sindaco uscente Letizia Moratti, cominciarono a circolare in rete alla velocità della luce. Cose tipo: “Pisapia mi ha detto che mi rubava un attimo, ma non me lo ha più restituito” oppure “Pisapia ti chiama al telefono, fa una pernacchia e mette giù”. Non si può affermare che Pisapia ha vinto le elezioni del 2011 grazie a questo, però le Morattiquotes hanno dato l’abbrivio a una tendenza.
Purtroppo i milanesi continuano invece a tacere e ignorare il sacco della propria città. La colossale operazione immobiliare partita nel segno dell’Expo 2015 (dedicato all’alimentazione!) si sta consumando nell’indifferenza. Nei quartieri Porta Nuova-Garibaldi, Fiera vecchia, Santa Giulia e Porta Vittoria metri cubi di cemento si alzano verso il cielo imbrattando una città che avrebbe avuto invece bisogno di spazi verdi e aria pulita. I milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari e dei finanziatori, eppure tacciono.
Certo, la città della concretezza è ormai un ricordo lontano, Milano da tempo è soltanto la capitale di un’economia frivola (moda) oppure impalpabile e inafferrabile (finanza) e per strada è più facile imbattersi in un leisure manager o un broker piuttosto che in un idraulico o un panettiere. Sarà anche per questo che la sola rivoluzione possibile è rimasta quella del cono gelato. A New York Occupy Wall Street. A Istambul Occupy Gezy Park. A Milano Occupy Gelato.

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Ieri è stata la Giornata Mondiale dell’Ambiente, ma in pochi se ne sono accorti. Perché?

Se siete tra i pochi che se ne sono accorti, bravi. Perché diciamo la verità, che ieri fosse la Giornata Mondiale dell’Ambiente è sembrato interessare davvero a pochi. Giornali, tv e social network hanno preferito parlare di tutt’altro, perfino di riforma elettorale, semipresidenzialismo e premio di maggioranza. Come mai? Eppure l’emergenza ambientale è tutt’altro che finita. A livello globale i cambiamenti climatici offrono segnali inquietanti e la deforestazione del pianeta avanza nonostante le migliaia di appelli, mentre a casa nostra non si trova una soluzione per gestire i rifiuti in modo civile in buona parte del meridione, la perdita di suolo non si interrompe nonostante la crisi e l’industrializzazione barbarica dei decenni passati presenta il conto amaro (il caso dell’Ilva è emblematico, ma non è il solo). Tuttavia la Giornata Mondiale dell’Ambiente in Italia è passata inosservata. Avanzo due ragioni. La prima riguarda il significato dell’evento stesso. Partita anni fa con l’intenzione di sensibilizzare l’umanità di fronte ai pericoli che corre il nostro Pianeta, la Giornata Mondiale dell’Ambiente, al pari di altre manifestazioni simili, si è trasformata in una cerimonia dal sapore molto istituzionale che si declina in iniziative paludate e prive di fascino: qualche dato riciclato da precedenti indagini, un po’ di alberi piantati qua e là (magari poco distante intanto sorgono nuovi ecomostri con il beneplacito delle stesse amministrazioni che concedono il patrocinio alla nuova forestazione) e, immancabili, appelli alle buone abitudini. Poca roba per richiamare l’attenzione dei cittadini e ancora meno per ottenere l’attenzione dei media, in genere interessati a parlare di ecologia soltanto quando c’è un po’ di catastrofismo da sbattere, se non proprio in prima, almeno in terza pagina. E qui vengo alla seconda ragione: le responsabilità di buon parte degli ambientalisti (categoria generica alla quale mi arrogo il diritto di appartenere, non tanto per avere militato e lavorato prima al Wwf e poi al Fai, quanto per il fatto che da oltre venticinque anni seguo con attenzione la materia). So che susciterò la reazione indignata di molti, ma occorre riconoscere che l’ambientalismo è campato grazie ad annunci choc e previsioni apocalittiche sul futuro che non sempre si sono rivelate corrette, o perlomeno non sempre sono state sostenute da adeguate prove scientifiche. Io stesso a vent’anni, animato dalle migliori intenzioni, ho concorso a diffondere allarmi. Prima c’è stata la grande paura per le piogge acide, poi negli Novanta abbiamo temuto per lo strato di ozono e infine nei primi dieci anni del nuovo millennio si è diffuso il panico per il riscaldamento globale. Se mi concedete ancora un poco di attenzione, vorrei approfondire l’esempio delle piogge acide. Negli anni Ottanta, il timore che l’inquinamento prodotto da fabbriche e automobili si trasformasse in piogge capaci di distruggere boschi, laghi e monumenti dilagò fra l’opinione pubblica. Oggi si sa che i danni subiti in quegli anni dalle foreste in Germania, Polonia e Repubblica Ceca erano dovuti all’inquinamento locale e una maggiore acidità è stata registrata solo nell’1% dei laghi europei. Inoltre il monitoraggio delle condizioni delle foreste condotto per iniziativa dell’UE  indica che rispetto agli anni ‘70 le emissioni di sostanze solforate e azotate (causa delle piogge acide) sono state ridotte del 70-80%, determinando un sensibile miglioramento delle condizioni di tutti gli ecosistemi continentali. La vicenda insegna che è necessario ogni tanto fare il punto sulle notizie, verificare dopo anni cosa è realmente successo. Più che allinearsi con la schiera degli ottimisti o con quella dei catastrofisti (ce ne sono tantissimi dell’una e dell’altra categoria su ogni argomento) serve informarsi e ragionare con la propria testa, esercitandosi a capire, con molti dubbi. Dimostrando così che la gente sa mobilitarsi e partecipare anche se il mondo non sta andando incontro ad una distruzione imminente.  Da qualche tempo l’ambientalismo si ritrova con il fiato corto, fatica a tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica perché si era abituato a ottenerla alzando la voce e il livello delle preoccupazioni. Rappresentare ogni attività umana come devastante per la Terra serve a poco, anzi a nessuno, perché alla fine sfianca anche i più convinti.

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Vivere con i libri #8. Aspettando i barbari, il caso Cucchi e l’ineluttabilità del male

Ieri sera, dopo aver appreso della sentenza riguardante la vicenda di Stefano Cucchi, ho deciso di rileggere Aspettando i barbari del premio Nobel Coetzee. Un libro amaro e dolente sull’impossibilità della giustizia nella storia. L’inevitabilità del male è raccontata attraverso la sofferta presa di coscienza del protagonista, mai nominato e definito unicamente attraverso il ruolo che riveste, quello emblematico di magistrato. Coetzee minimizza l’ambientazione della narrazione, negando ogni specificità storica e geografica ai fatti e inserendoli in una cornice di astrattezza metafisica che ne enfatizza l’universalità. Gli avvenimenti hanno luogo in una cittadella alla frontiera di un impero, dove il magistrato amministra la legge per conto di un governo lontano e imperscrutabile. Lì, ai confini, l’Impero manda i suoi soldati per “combattere” i fantomatici barbari che lo minacciano. La violenza perpetrata dall’Impero su i barbari catturati, in particolare su una giovane mendicante barbara di cui il magistrato si innamora, agisce in modo dirompente su una consapevolezza da lungo tempo maturata, ma tenuta a bada dal senso del dovere e dal rispetto del proprio ruolo. La violenza sul corpo della donna, su i corpi degli altri barbari, e che a sua volta verrà esercitata anche su quello del magistrato, è la violenza della storia e del potere costituito nei confronti dell’altro, del diverso, è il sopruso e la sopraffazione in nome di ragioni superiori che non hanno bisogno di essere dichiarate per essere riconosciute come valide. Si tratta insomma di un magnifico libro contro la tracotanza e il pregiudizio dei potenti che non smetterà mai di essere attuale in ogni angolo del mondo, laddove c’è qualcuno che cerca giustizia e invece incontra la legge. In queste ore, in Italia, mi pare un libro straordinariamente paradigmatico.

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È importante capire se Emilio Riva, patron dell’Ilva, è un imprenditore coraggioso o un avvelenatore. Anche se non servirà a guarire i tumori

Per caso mi è capitato tra le mani un libro di Stefano Lorenzetto, intitolato Hic sunt leones, edito da Marsilio. Il saggio del giornalista veronese che lavora per «Il Giornale», Panorama» e «Monsieur» racconta le gesta di venticinque veneti notevoli. Il Palladio? Giorgione? Marco Polo? Non esageriamo, nella lista ci sono persone note e meno note, scienziati, medici, imprenditori, giudici e altri ancora. Nell’introduzione Lorenzetto parla dei suoi maestri di giornalismo, Walter Pertegato, Cesare Marchi e Sergio Saviane, e dell’editore e patron del Pollo Arena, Antonio Grigolini. Nelle pagine dedicate a quest’ultimo mi sono balzate agli occhi alcune righe. Eccole: Un’altra volta svegliò di soprassalto la signora Bruna, dolcissima e paziente consorte che gli aveva dato cinque figli, la costrinse a indossare la pelliccia sopra il pigiama e la trascinò fino alla stabilimento tipografico di San Martino Buon Albergo affinché assistesse alla magia delle prime copie dell’Arena che uscivano fresche di stampa dalla nuova rotativa. Forse quest’ultimo è soltanto uno dei tanti racconti mitologici che venivano inventati sul conto del ruspante editore, però ha il pregio di essere speculare a quello fattomi dall’ottantaseienne Emilio Riva, il ragiunatt milanese che da robivecchi è diventato il re europeo dell’acciaio e il 27 di ogni mese continua a ritirare lo stipendio come un impiegato qualsiasi: «Andavo alla Scala con mia moglie e all’una di notte, tornando a casa, ci fermavamo a Caronno Pertusella. Mi levavo la giacca dello smoking e controllavo le colate. L’acciaio liquido ti soggioga. Vedi questo forno che si capovolge ed escono 330 tonnellate di liquido a 1.650 gradi. Sembra acqua rossa. Ti brucia un po’ il viso, ma ti prende. A volte ci porto anche i banchieri a vedere le colate. Ci lasciano il cuore».  Ebbene sì, non vi state sbagliando. Questo sentimentalone dal cuore d’acciaio è proprio lui, quell’Emilio Riva patron dell’Ilva che secondo la ricostruzione fatta da L’Espresso avvelenava i tarantini, pagava giornalisti e sindacalisti perché stessero buoni, puniva gli operai con i reparti-confino e accumulava miliardi nei paradisi fiscali. Le accuse mosse nei suoi confronti, e che hanno travolto il gruppo dirigente dell’Ilva, sono pesantissime:  avvelenamento colposo, truffa aggravata e infedeltà patrimoniale. I disastri provocati a Taranto da questa fabbrica sono noti da tempo, giorni fa li ho ricordati in un post. Ora, passino i toni un po’ agiografici dai quali è difficile sottrarsi in ogni lavoro biografico, ma questo omaggio a un industriale coinvolto in una vicenda giudiziaria ancora tutta da chiarire pare un poco azzardato. Alla luce dei fatti il vero eroe è «l’impiegato qualsiasi» che forse, se alcuni grandi imprenditori glielo consentiranno, anche alla fine di questo mese passerà a ritirare lo stipendio.

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Il cesso è sempre in fondo a destra. Anche su Corriere.it

Aveva proprio ragione Giorgio Gaber, “il cesso è sempre in fondo a destra”. Esaminiamo la colonna di destra di Corriere.it, versione online del celebre quotidiano, e scorriamola verso il basso. Ecco, in fondo a destra troviamo il cesso del giornalismo, e scusate se ho usato l’espressione giornalismo. Il mitico Corrierone, al pari di altri quotidiani, ha una suddivisione della home page piuttosto netta: sulla colonna (il termine è stato trasportato naturalmente dal cartaceo al digitale) di sinistra il giornalismo “serio” e su quella di destra il contenuto cosiddetto acchiappaclic. Una colonna ripiena di boxini-morbosi: Nicole Minetti in costume, Melissa Satta mentre fa la spesa, Rihanna mentre fa una qualsiasi cosa, video virali su YouTube, tatuaggi di qualsiasi tipo e foggia, strepitosi tacchi delle star, pettinature folli delle star, lifting delle star. Il contenuto di solito è proposto in forma di foto o video-notizia con breve testo a corredo, oppure direttamente come galleria fotografica con minime didascalie. Analizziamo nel dettaglio un singolo boxino-morboso di oggi: Miranda Kerr in topless (per sbaglio) sul set, galleria fotografica dell’incidente occorso  sul set di Miami alla supermodella, che  è rimasta, per sbaglio, in topless sul set di uno spot pubblicitario. Si è visto anche di peggio, di molto peggio sulla stessa home page di Corriere.it: sexy-interviste, scatti inguinali, pruriginosi sondaggi e di tanto in tanto non mancano immagini che occhieggiano al mondo fetish. Ora tutto questo non è condannabile di per sé. Fra persone adulte ciascuno è libero di leggere ciò che vuole, purché i contenuti e le immagini non travalichino il rispetto degli individui coinvolti. Sorprende però che il giornale della buona borghesia italiana sul web sconfini con tanta disinvoltura verso il più becero pettegolezzo. Sorprende ancora di più, e qui si arriva al punto, che lo stesso giornale pretenda di erigersi ad autorità morale e con i toni compiaciuti dei suoi editorialisti stigmatizzi i malcostumi italiani, quando poi, poche righe sotto, indulge senza ritegno al voyeurismo di bassa lega. È pur vero che la stampa italiana in tale direzione vanta illustri precedenti, basti pensare alla guerra dei nudi in copertina tra L’Espresso e Panorama negli anni Novanta. Qualcuno potrebbe far notare che anche altrove non si scherza. Ad esempio in Gran Bretagna i giornali di gossip spopolano. Vero, ma il problema da noi sta nella commistione tra alto e basso, nell’abbattimento del sacro muro di divisione tra notizia e gossip. Se aprite l’edizione web dei giornali più autorevoli di molti altri Paesi non troverete contenuti simili a quelli ospitati nelle nostre colonne di destra. Il New York Times, il Washington Post o il Guardian non offrono quelle immagini e quelle didascalie, anche se non sono certo privi di articoli sul mondo dello spettacolo. Da noi tutto invece è mescolato e frullato. Lo fa Corriere.it e lo fanno quasi tutti i “grandi” giornali. Tranne qualche rara eccezione, non c’è differenza tra quotidiani di qualità e tabloid, a differenza di quanto accade nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Noi abbiamo un solo tipo di giornale. Un giornale con la pretesa di essere di qualità malgrado i titoli gridati, il pathos scandalistico e i rumors da portineria. Mi dite quale credibilità può avere il Corriere quando, nello stesso giorno, nella colonna di sinistra ospita contributi per denunciare la violenza contro le donne e favorire una cultura capace di rispettare il corpo femminile, e poi nella colonna di destra, in fondo, laddove c’è il cesso, abbonda in stranezze e nudità? 

P.s. Consentitimi un aggiornamento, ma Corriere.it è un pozzo senza fine di perle giornalistiche. Dopo che avevo già pubblicato il post, l’home page di oggi è stata aggiornata con questa notizia: Rihanna sul palco mima amplesso. Non siamo tanto a destra e nemmeno tanto in fondo, ma sempre di cesso si parla (con tutto il rispetto per Rihanna e i suoi fans).  

P.p.s. E di questa cosa ne pensate? “Gaza strip” In tanga e armate: le soldatesse che imbarazzano Israele. Alta scuola di giornalismo, sempre dal Corriere.it di oggi in costante aggiornamento di qualità. Forse più che di assetti e di quote, al prossimo Cda di Rcs dovrebbero parlare del progetto editoriale. Sempre che sia rimasto ancora qualcuno capace di farlo.