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La dignità dei vinti

Ci sono certi giorni in cui tutto va storto. Giorni durante i quali la sfortuna sembra essersi appiccicata addosso a noi e non volersene andare. In quei giorni, un giorno come oggi, per esempio, canto sempre una canzone, questa.

“Meno male che c’è sempre uno che canta/e la tristezza ce la fa passare/sennò la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare/dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine/dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine!”. Il refrain de La ragazza e la miniera (magari non è una delle canzoni più note di De Gregori, eppure è una delle più belle, secondo me, un autentico capolavoro) conduce dritti dritti nel filone più alto della produzione degregoriana, quella dei grandi ritratti di vinti, emarginati e sbandati. Ne La Ragazza e la Miniera la vena “neorealistica” e lirica del Principe tocca l’apice. Ascoltate l’intero motivo e il suo refrain (come il suo accompagnamento a bocca chiusa): nessun’altra canzone italiana esprime in modo altrettanto poetico ed efficace la fatica di vivere. Di andare avanti, nonostante tutti e tutto.

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Emma, sognatrice senza speranza

emma_bonino

No, non stiamo parlando di Emma Bovary, mi rendo conto che il titolo potrebbe ingannare. Stiamo parlando invece di Emma Bonino. L’audizione davanti alle commissioni Esteri e Diritti umani di Palazzo Madama ha un che di imbarazzante, inutile negarlo. Lei, la paladina di tutte le battaglie civili, una vita per i diritti, e alla fine è chiamata a chiarire la sua posizione nell’imbarazzante affaire Shalabayeva, come un Alfano qualsiasi. Perché non ha fatto nulla negli ultimi due mesi per denunciare la vicenda? Ma soprattutto, avrebbe potuto fare qualcosa? Queste le domande che ha dovuto affrontare il ministro, nell’illustrare ai senatori anche le prossime mosse del governo italiano. Che tristezza. E pensare che anni fa ho anche sostenuto l’iniziativa ‘Emma for President’.
Per Emma Bonino le accuse di queste settimane sono un paradosso. Sempre controcorrente, sempre dalla parte dei più deboli, e ora la sua storia rischia di rimanere indelebilmente macchiata dalla questione kazaka. Sì, perché a Emma Bonino io vorrei chiedere non tanto di chiarire una volta per tutte la sua posizione nella vicenda Shalabayeva, ma piuttosto cosa ci faceva in Kazakistan, a casa di un dittatore e a braccetto di un’azienda più che compromessa in tema di tutela dei diritti umani (l’Eni), nel 2007 insieme a Prodi?

Eni Kasakistan

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Memento mori

Ecco alcuni brani estratti dai tre principali servizi meteorologici online, che commentano con ‘sobrietà e rigore scientifico’ l’innalzamento delle temperature previsto nei prossimi giorni.

ilmeteo.it: ALLARME: da Sabato CARONTE 40°CAVVISO: nel WEEKEND supercaldo dall’AFRICA per il ritorno di Caronte, punte di 40°C a sud, 38 a Roma e resto del nord. Picco record Domenica 28 e Lunedì 29 con 40°C al centrosud e Isole e 39 al nord su Bologna, percepiti 43! 

meteo.it: …a partire da sabato, avvertiremo un’impennata esponenziale del disagio fisiologico causato dal caldo poiché al malessere del giorno stesso si sommerà quello provato nei giorni passati, che non accennerà ad attenuarsi neppure durante le ore notturne quando i livelli di temperatura e umidità resteranno inesorabilmente elevati.

3bmeteo: Caldo ed afa; sette giorni sotto l’anticiclone africano in risalita sul Mediterraneo. Arriva il caldo canicolare e l’Italia torna a boccheggiare.

– Ricordati che devi morire!
– Sì, sì, mo’ me lo segno.
(La risposta di Massimo Troisi a un frate in Non ci resta che piangere)

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Ah, la crisi!

Ormai giustifichiamo tutto con la crisi. Ogni fallimento, ogni scelta sbagliata, ogni errore trovano un alibi nella crisi. Abituati a specchiarci in questa Italia ripiegata su stessa, ci siamo convinti che tutto il mondo sta andando a rotoli come noi. Ebbene, le cose non sono affatto così. Solo qualche giorno fa ho visto in Tv l’ennesimo servizio che cercava di spiegare le origini di questa recessione. Ancora una volta sono passate le immagini degli impiegati della Lehman Brothers che lasciavano i loro uffici con le scatole di cartone in mano. Già, la Lehman Brothers, ricordate? Tutto è partito da lì, almeno così ci raccontano da anni. Lo scandalo dei sub-prime (che qua in Italia non sapevamo neppure cosa fossero) e il fallimento di una grande banca americana. Da noi, invece, non è fallita nessuna banca, affermano con orgoglio certi italiani. Vero, ma siamo sicuri che tenere sempre insieme tutto, il marcio con il fresco, sia un bene? Esaminiamo qualche dato. Dopo che è scoppiata la crisi americana (ufficialmente il 9 ottobre 2007) la Borsa di Wall Street ha ripiegato, poi lentamente è tornata a salire. In queste ultime settimane i principali indici statunitensi, S&P500 e Dow Jones, hanno toccato valutazioni mai raggiunte in tutta la loro lunga storia. Invece il nostro Ftse Mib (l’indice dei titoli principali quotati a Piazza Affari) ha perso quasi il 60% dall’ottobre 2007. Chiaro? No? Proviamo a spiegarla così. Un americano che nel 2007 ha investito 1000 dollari nella Borsa di NY oggi se ne ritrova sicuramente di più, mentre un italiano che sempre nel 2007 ha investito 1000 euro nella Borsa di Milano oggi se ne ritrova circa 400. E i sub-prime? E Lehman Brothers? Quelle restano storie per giornalisti italiani che non hanno voglia di aggiornarsi e riciclano all’infinito le stesse notizie. 

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La macchina del fard

Sono anni che Milano scivola nelle retrovie, ma nemmeno i più pessimisti si erano immaginati di dover assistere a ciò che sta accadendo in questi giorni. La triste querelle fra Dolce e Gabbana e la Giunta Pisapia è roba degna del peggior avanspettacolo. I due stilisti s’indignano per le parole dell’assessore comunale alle Attività produttive Franco D’Alfonso (“Qualora stilisti come Dolce e Gabbana dovessero avanzare richieste per spazi comunali, il Comune dovrebbe chiudere le porte, la moda è un’eccellenza nel mondo ma non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali”) e per ripicca non alzano le saracinesche delle loro botteghe. Anzi twittano contro il Comune di Milano “Fate schifo”. Pisapia tace per 48 ore, poi sbotta: “D&G chiedano scusa a Milano. Gli indignati in questo caso siamo noi”.
Ecco, pensavamo di avere visto tutto (scandali su scandali, tangenti su tangenti, cemento su cemento) e invece c’è chi riesce a spingere l’asticella della desolazione ancora più in alto. I milanesi assistono rassegnati a questo scontro tra titani: da una parte imprenditori mutandari del cattivo gusto, dall’altra amministratori pubblici arroganti e incapaci. Amen.

dolce-gabbana

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I fatti valgono più delle parole. All’estero

Nello stesso giorno in cui il Capo del Governo italiano, Enrico Letta, è a Londra per rassicurare la comunità finanziaria circa l’affidabilità dell’Italia, la stessa comunità è raggiunta da due notizie: l’arresto di tutta la famiglia Ligresti per le ipotesi di reato di falso in bilancio aggravato e di manipolazione di mercato, e la condanna di Marco Tronchetti Provera a 1 anno e 8 mesi per ricettazione. Non stiamo parlando di piccoli imprenditori, ma di esponenti di spicco del cosiddetto gotha della finanza nazionale, gente che determina il destino dell’Italia. Secondo voi i mercati cosa ascolteranno? La vuota retorica di un premier a termine o il tintinnio delle manette?

ligresti salvatoretronchetti proveraenrico letta

 

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Pasticcio kazako: se la nostra credibilità passa per le parole di Scajola e Treu

Le cose in Italia non funzionano (ed è evidente che da qui in avanti andrà solo peggio) e lo rivelano anche piccoli dettagli. Che poi tanto piccoli non sono. Prendiamo il caso del brutto pasticciaccio kazako. Ed esaminiamo alcuni commenti ripresi dai scajolagiornali in questi ultimi due giorni. Ieri Il Fatto Quotidiano ha ospitato un’intervista a Claudio Scajola. L‘ex ministro degli Interni, forte della sua esperienza, dice due cose importanti: primo, Alfano non poteva non sapere, secondo, l’Eni in Kazakistan ha investito tanto e ci sono affari importanti in corso. Bravo Scajola, chiaro e incisivo. Ma, un momento, Scajola chi? Quello finito nella bufera e dimessosi per lo scandalo della casa pagata “a sua insaputa”? Ebbene sì, proprio lui.
Oggi Linkiesta pubblica un ampio servizio in cui spiega che da Vendola a Berlusconi, passando per Prodi, Italia intera è stata ai piedi di Nazarbayev, con l’inevitabile codazzo di imprese grandi e piccole. È antipatico quanto sto per fare, però sostanzialmente è lo stesso concetto che ho espresso nel mio post di ieri. Linkiesta naturalmente si avvale di ben altri mezzi, esperienza e mestiere del sottoscritto, quindi fornisce un nutrito numero di esempi per provare la nostra ‘sudditanza’ politico-economica verso il Kazakistan. Un ottimo servizio, a parte l’incauta scelta di raccogliere un commento di Tiziano Treu: «Un brutto affare. Sono rimasto scioccato». Ma, un momento, Treu chi? Quello che è stato ministro del lavoro nei Governi Dini, Treu_TizianoProdi I e D’Alema e promotore del cosiddetto “Pacchetto (guarda te, a volte i nomi!) Treu” che ufficialmente ha introdotto in Italia il principio della flessibilità del lavoro, nella pratica tradottosi in precariato e diseguaglianze sociali? Ebbene sì, proprio lui. Lo stesso Tiziano Treu peraltro è da anni il presidente del consiglio di cooperazione tra Italia e Kazakistan e viene da domandarsi come mai non sia mai rimasto scioccato dalla continua violazione dei diritti umani nel Paese asiatico: sindacalisti misteriosamente uccisi, radio e televisioni chiuse e perquisite, giornalisti aggrediti, lavoratori e manifestanti rinchiusi in carcere senza accuse. Molti nostri politici sembrano essersi accorti di tutto questo solo oggi, ma da tempo la comunità internazionale denuncia la situazione. All’inizio dell’anno passato l’Ocse definì le elezioni appena avvenute “non democratiche”. Ora, se in Italia affidiamo a figure come Scajola e Treu il ruolo di interpretare lo sdegno per quanto è accaduto, ciò significa che siamo proprio finiti. La collusione con le autorità del Kazakistan non è un fatto ristretto a qualche politico e un paio di aziende corrotte o corruttibili. No, qui c’è un intero Paese, il nostro, con i suoi governanti e i suoi imprenditori, pronto a fare affari con chiunque. In Kazakistan come in Nigeria e in tante altre aree del mondo. Perfino il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non ha ancora napolitanocommentato la vicenda, non si è sottratto all’idea di avere rapporti ufficiali con il dittatore kazako Nazarbaev. Lo ricevette nel 2009 spiegando che il Kazakistan «è un Paese esempio e specchio di tolleranza, di moderazione e di convivenza pacifica». L’ultimo ministro a fare visita a Nazarbaev è stato quello della Difesa Giampaolo di Paola nel febbraio del 2013. Ma, un momento, Di Paola chi? Quello che insieme all’altro ministro Terzi, i Bibì e Bibò della diplomazia italiana, è stato protagonista della vergognosa vicenda dei marò? Ebbene sì, proprio lui. Comunque, nel 2012 Mario Monti ci andò ben due volte per incontrare il primo ministro Karim Massimov. Insomma, la vicenda dell’improvvida espulsione di Alma Shalabayeva e la piccola Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, è stata solo una maldestra operazione che ora costringe politici e imprenditori a difendere il loro diritto a operare in Kazakistan. Tranquilli, ora cadrà qualche altra testa, magari anche quella di Alfano, ma gli affari non si fermeranno. No, quelli non si fermano mai.

 

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Italia-Kazakhstan: democrazia a gettone

La questione kazaka è delicata, molto delicata. E non conosceremo mai la verità, statene certi. Sì, salterà qualche testa, ma non si andrà al cuore del problema. Il male si annida nella torbida commistione fra politica e business. Ci sono grandi aziende italiane che hanno in corso affari giganteschi in aree del pianeta dove non c’è democrazia e dove vengono quotidianamente violati i più elementari diritti umani. Ma nel nome dello sviluppo economico i loro progetti vengono sostenuti anche dal nostro  governo. Due nomi soltanto, ma l’elenco sarebbe lungo: Impregilo e Eni. Il primo è il principale gruppo italiano nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria, e dopo l’annunciata fusione per incorporazione di Salini incrementerà la sua quota di mercato; è stato ed è protagonista di molte opere che hanno comportato devastazioni ambientali e lo sradicamento di popolazioni indigene dai luoghi nativi (basti citare la diga di Yacyretà sul fiume Paranà, tra Argentina e Paraguay, e quelle in costruzione nel Lesotho, una enclave all’interno della Repubblica Sudafricana, vicenda quest’ultima per la quale Impregilo è stata anche condannata dall’Alta Corte del Lesotho per aver corrotto l’ex direttore del progetto). Eni è indagata per tangenti e violazioni dei diritti umani in Nigeria e Kazakhstan, e altri forti sospetti insistono sugli affari del Gruppo in Mozambico e Iran. Ora il caso Shalabayeva ha alzato il velo sugli intrecci fra affari e politica in Kazakhstan. Pare che che il dittatore kazako Nursultan Nazarbaev abbia trascorso alcuni giorni di vacanza in Sardegna nella villa di Ezio Simonelli, commercialista, presidente dei collegi sindacali di numerose aziende italiane tra cui Mediolanum e collaboratore con altre importanti imprese tra cui Fininvest. Così l’ombra di Berlusconi si spande anche su questa vicenda. Ora, Dio mi guardi dall’assolvere il Cavaliere dalle sue colpe, ma non lasciatevi ingannare da chi vuol farvi credere che tutto il male sia sempre e solo da una parte. In Kazakhstan e in molti altri Paesi alcune imprese italiane hanno interessi molto forti da tempo. I giri d’affari sono enormi, così enormi da passare sopra le vite umane e i governi, anche quelli di Stati che possono vantare sistemi democratici più consolidati. Guardate questa foto scattata nel 2007 in Kazakhstan, in occasione dell’incontro fra l’Amministratore Delegato di Eni Paolo Scaroni, il primo ministro kazako Karim Masimov e il ministro dell’Energia Sauat Mynbayev. Riconoscete qualcun altro?

Eni Kasakistan

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Chiacchiere per fanfaroni istituzionali

Le prime pagine dei quotidiani di oggi sono eloquenti. Tralasciando la paralisi politica in cui versa l’Italia, balza all’occhio la notizia dell’ennesima indagine che coinvolge società impegnate nella costruzione di opere pubbliche. Questa volta si parla del Consorzio Venezia Nuova, un raggruppamento di grandi aziende di costruzione italiane, cooperative e imprese locali, concessionario del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per la realizzazione degli interventi per la salvaguardia di Venezia e della laguna, in pratica un sistema di dighe mobili meglio conosciuto come Mose.  Sulla società si è abbattuta una vera e propria bufera: arrestato l’ex presidente Mazzacurati, in manette anche il consigliere Savioli. Fatture false e appalti distorti sarebbero le accuse. Per anni i nostri ministri hanno girato il mondo per presentare quello che secondo loro dovrebbe essere la meraviglia dell’ingegneria italiana, anche se da sempre comitati locali e ambientalisti sollevano dubbi sul progetto. Sono stati a Londra, a New York, a Parigi a presentare la grande opera che dovrebbe salvare Venezia dalle acque. Peccato che a sprofondare non è solo la città lagunare, ma la credibilità dell’Italia intera. 
L’altra notizia di spicco è di natura finanziaria: ieri tutti gli indici di borsa a Wall Street hanno toccato i loro rispettivi record storici. Lo S&P 500 e il Dow Jones hanno chiuso ai massimi di sempre e il Nasdaq al meglio dall’ottobre 2000. Nel caso non seguiste la Borsa vi segnalo soltanto che gli indici di Piazza Affari, invece, ristagnano da anni attorno ai minimi. Sul paniere principale molti titoli hanno più che dimezzato il loro valore, alcuni poi valgono anche meno di un quinto rispetto alle quotazioni di anni fa. Scandali a raffica hanno falcidiato Mps, Finmeccanica, Eni, Saipem, ma l’elenco potrebbe continure.
Ecco, quando leggete che la crisi è globale e che gli Usa hanno contagiato il resto del mondo, ricordatevi questi dati. Qualcuno potrebbe obiettare che i mercati finanziari sono una cosa e l’economia reale un’altra. Certo, ma gli investitori istituzionali, cioè i fondi, le grandi banche e le compagnie di assicurazione, non sono tanto stupidi da investire in un’economia malata. I loro soldi vanno dove ci sono imprese sane, che generano utili. Questo sta accadendo negli Stati Uniti e in altre aree del Pianeta. Questo non sta accadendo più in Italia. Da tempo. Punto. Tutto il resto sono solo chiacchiere per fanfaroni istituzionali.

Cattelan-Piazza Affari

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Chi è causa del suo mal, pianga se stesso

Avete sentito parlare della lettera “L’Italia è morta, andatevene finché siete in tempo“, pubblicata il 2 luglio 2013 su Italians di Beppe Severgini? Una lettera dai contenuti bislacchi e ricca di luoghi comuni (nel puro Italians style), condita con qualche attacco ai vari Trota, Batman, Formigoni e Minetti (con questi non si sbaglia mai). Eppure ha fatto il botto: 34mila condivisioni su Facebook, oltre 1.800 su Twitter. Numeri da far impallidire tanti modesti e minuscoli blogger come il sottoscritto. Il giornale online Linkiesta ha pensato perfino di ospitare un’intervista all’autore della lettera dei record, Aldo Marchioni, consulente informatico di 55 anni, che nel corso della chiacchierata ha candidamente ammesso di aver votato per Monti alle ultime elezioni. Ma come? Il signor Marchioni si scaglia contro lo Stato vessatore, sostiene che l’Italia è un paese perduto, invita i giovani ad andarsene finché sono in tempo, e ha votato per un uomo che in un anno non ha saputo tagliare neppure un euro di spesa pubblica, ha generato il disastro umano e sociale degli esodati, ha aumentato le tasse su chi produce e ha creato uno Stato ancora più disuguale e ingiusto? E vabbè, signor Marchioni, a lei non è restato proprio altro che giocare a fare la rivoluzione con Beppe Severgnini! Come si dice: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

 

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Imprese italiane: benvenuti alle grandi svendite di fine stagione

L’ennesimo downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s ha suscitato malumori fra i nostro governanti. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, si è spinto addirittura ad affermare che l’agenzia di rating avrebbe assunto la decisione sulla scorta di dati vecchi. Di parere opposto il leader del M5S, Beppe Grillo, che nel corso dell’incontro col Capo dello Stato al Quirinale ha espresso tutte le sue preoccupazioni sulla situazione economica e politica. Poi in conferenza stampa ha alzato i toni:«Ho la certezza che il default dello Stato sia prossimo». Chi ha ragione? Qualcuno potrebbe obiettare che le parole di un economista sono più credibili di quelle di un comico, ma molti fatti recenti dovrebbero indurci ad abbandonare simili certezze. Intanto l’impressione è che dalle parti di Bruxelles la decisione di Standard & Poor’s non abbia sorpreso più di tanto. La Commissione si mostra sempre più preoccupata per i crescenti scricchiolii della grande coalizione italiana e dà segni di impazienza per i ritardi sulle riforme urgenti: mercato del lavoro, pubblica amministrazione, fisco. I burocrati europei vorrebbero da noi altre lacrime e sangue. Il governo tergiversa, rinvia. Il presidente della Republica si costerna, s’indigna. Nel frattempo i grandi gruppi stranieri fanno razzia dei nostri marchi. Ormai siamo solo un immenso osso da spolpare, questa è l’amara verità. In questi giorni sono balzati agli onori della cronaca i casi di Cova e Loro Piana. Ma è da tempo che marchi celebri del made in Italy passano in mani straniere. I cantieri Ferretti sono andati ai cinesi di Shandong Group; la griffe della moda Brioni è finita nel carniere del francese Pinault, mentre Bulgari veniva acquistata da Lvmh. Gli arabi del Qatar si sono mangiati in un boccone Valentino. Perfino un comparto radicato nel territorio come  quello del vino ha visto l’acquisizione della Gancia da parte dell’imprenditore tartaro Roustam Tariko, e della Ruffino da parte degli americani di Constellation Brands. E prima ancora i casi Buitoni, San Pellegrino, Parmalat, Algida, Motta, Invernizzi, Fendi, Gucci, Bulgari, e sono solo alcuni esempi. Ai quali andrebbero aggiunte le grandi aziende: Telecom da ani nel mirino di Telefonica, Ansaldo Energia stretta fra le ambizioni dei tedeschi di Siemens e dei coreani di Samsung, Eni corteggiata dai cinesi. Siamo tornati ad essere una terra di conquista. Oggi non si contendono più il Ducato di Milano o il Regno di Napoli, ma le nostre imprese. Ciò che resta dell’industria italiana fa gola e rappresenta il bersaglio di un’immensa, silenziosa razzia. Posta in essere con la complicità di molti. La sensazione è sempre più netta: chi ci denigra e ci declassa risponde al vecchio adagio «chi disprezza compra». E per attuare indisturbati la loro strategia, gli alti papaveri manovrano per far sì che il Paese sia guidato da ‘innocue’ figure di compromesso. 

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Le canzoni della rivolta. Playlist

Stiamo attraversando un periodo plumbeo, e sfido chiunque a sostenere il contrario. Ma se andassimo a ritroso col pensiero ci accorgeremmo che quasi ogni periodo recente si è dovuto confrontare con crisi economico-finanziarie, disoccupazione e sfruttamento del lavoro, corruzione e mafie, poteri deviati e privilegi di classe. In passato lo sdegno per questi fenomeni ha prodotto canzoni di rivolta che a volte si sono trasformati in veri e propri inni. Oggi probabilmente non si riesce più nemmeno a sognare un mondo differente e la gran parte dei giovani non assapora la stagione da incendiari. Anche gli artisti perlopiù sono ripiegati su stessi. Così la lunga stagione della canzone di protesta italiana si allontana a gran ritmo senza rinnovarsi. Per un puro e semplicissimo divertissement ho provato a comporre la mia classifica ideale di quel genere. Una premessa fondamentale: ho affrontato la canzone di rivolta a partire grosso modo dagli inizi degli anni ’60, cioè da quando in Italia si è affermata in modo forte la diffusione commerciale della musica. Naturalmente la storia della canzone politica italiana è assai più lunga. È sufficiente pensare che alcuni degli inni musicali impegnati più noti e conosciuti risalgono al periodo della Resistenza (Bella Ciao e Fischia il vento solo per fermarsi a un paio di esempi). Ecco dunque la mia playlist. Che ne pensate?

10) Piccolo uomo di Ivan della Mea

9) I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini

8) Borghesia di Claudio Lolli

7) Contessa di Paolo Pietrangeli

6) La locomotiva di Francesco Guccini

5) Canzone del Maggio di Fabrizio De Andrè

4) Pablo di Francesco De Gregori

3 Gioia e rivoluzione degli Area

2) La libertà di Giorgio Gaber

e infine…

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Crollano i consumi. Ma non lasciatevi ingannare

Crollo dei consumi nel 2012 (-2,8%), la caduta peggiore dal 1997. Lo ha rivelato l’Istat e si è subito messa in moto la litania dei quotidiani. Premesso che l’affidabilità di queste indagini è assai dubbia, a marzo dopo l’ennesimo dato sui consumi in picchiata si era detto che si era tornati ai livelli del 2004, resta ferma la necessità di interpretare il fenomeno e soprattutto il paragone con il passato. Cosa significa essere tornati al 2004 o aver registrato il peggior dato dal 1997? Qual era la situazione dei consumi delle famiglie italiane in quegli anni? Provo a esercitare il compito che la gran parte dei giornalisti economici, sebbene profumatamente remunerati, non svolgono. La gran parte si limita a riprendere i dati e perfino i commenti rilasciati dai vari istituti di ricerca. Il risultato è quello che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi sfogliando i giornali: un lungo belato, uguale per tutti. Vi propongo un passaggio contenuto in una lezione di Mario Draghi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia, tenuta nel 2007 all’Università di Torino. «La spesa pro capite per consumi è oggi più che raddoppiata rispetto al 1970. La sua crescita si è però fermata negli ultimi sei anni, dopo essere stata pari in media all’1,7 per cento nel corso degli anni Novanta. Dal 1990 la dinamica dei consumi è stata comunque assai più sostenuta di quella del reddito disponibile, il cui valore pro capite è rimasto sostanzialmente stazionario per tutto il periodo». Poche parole che spiegano molte cose. Innanzitutto che, tolta una breve parentesi fra il 1992 e il 1993, i consumi erano cresciuti ininterrottamente per 30 anni, per poi assestarsi negli ultimi 5 o 6. Questo aumento dei consumi peraltro è avvenuto pur in presenza di un reddito stazionario negli anni Novanta. E allora occorre porsi qualche domanda: non siamo stati scriteriati prima? Era così necessario spingere i consumi in assenza di un’adeguata crescita della ricchezza individuale? Spingere il credito al consumo fino ai livelli pre-crisi non è stato fortemente irresponsabile? Gran parte della stampa, indistintamente dal Corriere della Sera a Repubblica, passando per Il Giornale, La Stampa, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Avvenire e Libero, si limita a lanciare allarmi e seminare il panico. Eppure basterebbe poco, forse soltanto un po’ di voglia di studiare, per analizzare in modo più approfondito i dati che vengono somministrati con generosità. Se rinunciamo a fare questo, non comprenderemo mai cos’è accaduto e men che meno dove stiamo andando. È la sacralità della merce e del suo consumo ad essere entrata in crisi, più ancora della nostra economia. Il cosiddetto consumo emotivo coinvolge una fascia di popolazione che si assottiglia di giorno in giorno. Se la nostra economia produttiva continuerà a proporre modelli di consumo indotti e si affiderà alla vecchia logica dello status symbol quasi certamente la regressione proseguirà. Gli anni ’80 hanno legittimato socialmente l’edonismo. La nostra vecchia cultura contadina improntata a valori come dovere, misura e sacrificio è stata soppiantata da una forma di individualismo narcisistico dominata dal desiderio di soddisfare ogni forma di piacere attraverso i consumi. L’edonismo per la verità non è un prodotto di quegli anni, perché già nel passato è stato al centro delle riflessioni di importanti scuole filosofiche; la differenza è che nel decennio dell’effimero è diventata una pratica, un obiettivo di massa, non più una suggestione filosofica di carattere selettivo o elitario. Nel nuovo edonismo il conseguimento del piacere si è trasformato in una delle motivazioni più addotte per giustificare gli acquisti. Per fortuna però l’homo ludens, quello che confonde i desideri con i bisogni, si sta rivelando una specie più debole dell’homo sapiens e per un semplice principio darwiniano sembra destinato a scomparire. In quali tempi non si sa, tuttavia una fascia sempre più ampia di popolazione si sta interrogando sul bisogno irrazionale di consumare. Molti di noi hanno cominciato a comprendere che affannarsi per soddisfare futili desideri è totalmente privo di senso e che l’arrembante corsa ai consumi non serve ad accrescere la nostra felicità. Tuttalpiù serve ad alimentare un sistema al cui interno solo pochi traggono benefici esagerati. Per queste ragioni l’esercito di consumatori edonisti privi di qualsiasi facoltà raziocinante si sta riducendo. Ora non vorrei peccare di ottimismo: vedo ancora in giro parecchia umanità che s’illude di affrancarsi dalla condizione di miseria intellettuale in cui versa indossando scarpe e occhiali griffati oppure guidando un’automobile che il più delle volte assorbe gran parte delle disponibilità economiche. E soprattutto vedo muoversi con aria minacciosa una pletora di economisti, politici e opinionisti che invoca la crescita. Tutto risponde a un disegno preciso, quello di farci ripiombare nel ruolo di stolidi consumatori perennemente indebitati. Ora spetta a noi resistere. Se lasciarci ricondurre nell’ovile, che è rappresentato da luoghi infernali dove tutto è studiato per indurci a soddisfare il desiderio di acquistare. Oppure non tornare nel branco. Se scegliamo questa seconda strada, il crollo dei consumi, perlomeno dei consumi generati dalla ‘fabbrica dell’uomo indebitato’, ci spaventerà assai meno di quanto vorrebbero loro.

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Ma è così difficile fare le cose bene?

Su molti quotidiani italiani stamani si dibatte sul futuro delle Province. Lo so, ormai è diventata una questione insopportabile, che sottolinea la pigrizia della nostra classe dirigente. Se ne parla da anni e siamo di nuovo al punto di partenza. Tra i numerosi commenti mi ha colpito quello di Bruno Tinti (ex magistrato, ora giornalista) pubblicato su Il Fatto Quotidiano. Tinti esordisce così: “Che non si potessero abolire le Province con un decreto legge è evidente: sono Enti previsti dalla Costituzione, serve una legge costituzionale; che significa doppio passaggio in Parlamento, eventuale referendum, insomma un paio d’anni ed esito incerto”. Ma come? E i tecnici del Governo Monti non lo sapevano? Perdonatemi la povertà intellettuale dell’esempio che sto per fare: ma se chiamo un tecnico per ripararmi un tubo che perde acqua e dopo il suo intervento il tubo perde ancora di più, prendo atto che il tecnico è un incompetente. Ora, non passa mese senza scoprire che il Governo dei tecnici plurilaureati e decorati, per intenderci quello che aveva esordito col Decreto Salva Italia, era composto in realtà da cloni di Silvestro Gatto Maldestro. I segnali c’erano stati fin da subito con la drammatica vicenda della Riforma Fornero e il disastro umano e sociale degli esodati. Poi si è aggiunta la modifica allo statuto dei lavoratori: solo i tecnici montiani potevano credere che dando maggiore libertà di licenziare alle aziende aumentasse di conseguenza la possibilità di assumere. Gli imprenditori ne hanno approfittato per licenziare, punto. Ma ancora. Da un governo di professori era lecito attendersi un forte piano di investimenti a favore di scuola e Università pubblica, e invece altri milioni di euro sono stati dirottati dalla scuola pubblica a quella privata. La misera vicenda della spending review poi è finita come sappiamo: è servita solo a fare titoloni sui giornali e a tagliare qua è là un po’ di welfare, creando così uno Stato ancora più disuguale e ingiusto; intanto le spese militari non sono state ridotte, il numero dei parlamentari non è diminuito e i manager pubblici continuano a percepire compensi miracolosi: il direttore della Rai, solo per citarne un esempio, percepisce oltre 50mila euro al mese. Torniamo alle Province. Adesso il Governo Letta propone di sostituirle con “collegi delle autonomie”; il progetto prevede anche di sfoltire settemila “enti di mezzo”, consorzi e società varie. E qui si aprie il capitolo dei cosiddetti Enti inutili, questione assai più annosa di quella delle stesse province. Se ne parla da decenni, sono stati versati fiumi di inchiostro e sono stati istituiti perfino commissioni per l’abolizione degli Enti inutili, che naturalmente sono diventate a loro volta inutili e hanno sortito l’unico effetto di infoltire la lista dei primi. Eppure il più delle volte per capirne l’inutilità basta leggere i nomi, a tratti fantozziani, di molti istituti e consorzi. Ogni governo ha annunciato soppressioni, Calderoli e Enrico Bondi (il supertecnico, il tecnico dei tecnici) sono stati gli ultimi a promettere cancellazioni a raffica. Ma non è mai successo nulla, perché come diceva Leo Longanesi: “La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: tengo famiglia”. Forse per questo in Italia è così difficile fare le cose bene.

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Ogni rivoluzione parte dalle parole

Il decadimento della politica italiana è stato preceduto dall’uso insistente di parole trite, tristi, vecchie, stanche. E l’informazione, quella stessa informazione che crede di meritarsi la “i” maiuscola quando invece è solo la corte minuscola della stessa politica, ha assecondato, anzi rafforzato questi questi riti vuoti, questi panegirici estenuanti. I protagonisti che hanno tentato di sparigliare sono finiti nel tritacarne ed espressioni come “teatrino della politica” o “rottamazione” hanno presto assunto lo stesso fascino di centralismo democratico, unità d’intenti, convergenze parallele, tavolo di concertazione, blocco sociale, forte condivisione, abbassare i toni, situazione contingente, mettere in campo delle politiche, larghe intese, vibrante monito. Per favore, basta! Smettetela.  Esiste qualcuno capace di farci riscoprire che si può parlare di politica senza tutto questo grigiume? Capace di farci innamorare della cosa pubblica e assaporare il gusto di governare insieme il nostro domani? Capace di esprimere passione, coraggio, bellezza. Se c’è, batta un colto. Anzi dica una parola. Chiara, semplice, facile.

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FIAT: Fix it again Thiago!

Ieri sono stati diffusi i dati sulle vendite di automobili in Italia nel mese di giugno ed è ancora profondo rosso: il mercato auto lo scorso mese è sceso del 5,5% anno su anno (-10% da inizio anno). Fiat ha fatto ancora peggio: -15% anno su anno (-11% da inizio anno). Ma i volumi persi in Italia sono stati compensati dal solido trend in Brasile, dove la casa del Lingotto ha segnato il miglior semestre della sua storia. Dall’inizio del 2013 la Fiat ha venduto 380.131 veicoli, mantenendo per l’undicesimo anno consecutivo la leadership in questo mercato. fiat-palioTra i modelli del marchio sono in evidenza Fiat Palio, Fiat Siena e il pick-up Fiat Strada. Ebbene sì, la Fiat Palio, cioè il secondo modello Fiat più brutto della storia (il primo è ovviamente la Duna) spopola in Brasile, seppure in una versione rivisitata rispetto a quella che abbiamo visto circolare sulle strade italiane. 
Accantonando tutta la retorica sul made in Italy, occorre riconoscere che la Palio si sta rivelando un ottimo modello per i mercati in via di sviluppo. Questa è la vera identità di Fiat, il resto sono solo chiacchiere e distintivo. D’altra parte in casa Agnelli non sono mai stati innovatori e lo hanno dimostrato anche di recente rafforzando la loro presenza nella carta stampata. Vogliono smarcarsi dall’Italia? Lasciamoli andare. Fiat_StradaLa Fiat sta crollando in Italia e in Europa perché produce modelli inadeguati per un mercato evoluto. I costruttori tedeschi si sfidano per sedersi sul trono dei marchi premium e la casa torinese non ha alcuna speranza di competere in questa fascia. In giro per il mondo, invece, ci sono e ci saranno ancora per molto Paesi alle prese con una vertiginosa evoluzione della motorizzazione privata, caratterizzati dunque da un mercato meno esigente.
Per decenni nel Nordamerica l’acronimo Fiat è stato esteso in “Fix It Again, Tony!”, che più o meno suona così: “Riparala ancora, Tony!”. Dove Tony naturalmente è l’emigrante italiano alle prese con la sua vettura Fiat tradizionalmente poco affidabile. Cambiano i tempi, si muovono i mercati: ora Fiat sta per “Fix It Again, Thiago!”.

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STOP VIVISECTION! Firmate online

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Vi invito a visitare il sito www.stopvivisection.eu dove trovate il link per firmare a sostegno di questa importante e “civile” iniziativa rilanciata presso il parlamento europeo il 26 giugno 2013. Vi chiedo cortesemente anche di attivarvi per diffonderla. Per come è strutturato il sito dell’Unione Europea, si fa una certa fatica a capire cosa si sta sottoscrivendo, qui di seguito vi riporto il testo. «Sollecitiamo la Commissione europea ad abrogare la direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici e a presentare una nuova proposta che abolisca l’uso della sperimentazione su animali, rendendo nel contempo obbligatorio, per la ricerca biomedica e tossicologica, l’uso di dati specifici per la specie umana». Si tratta di una tappa importante per la ricerca biomedica e per la partecipazione dei cittadini europei nelle scelte fondamentali per il futuro. Anche Jeremy Rifkin, quale sostenitore dell’iniziativa, ha voluto far pervenire il suo contributo.

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Gli ultimi giorni di Pompei

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“Gli ultimi giorni di Pompei” è il titolo di numerosi film girati nella prima metà del Novecento, tutti tratti dal celebre e omonimo romanzo di Bulwer-Lytton. La messa in scena della storia d’amore fra Jone e Glauco e della forza distruttrice del Vesuvio, vero protagonista e regolatore delle passioni e delle tragedie umane, ha emozionato intere generazioni quando il cinematografo era ancora un luogo magico e fantastico. Quando la vita degli italiani era ancora un’avventura dove c’era posto per i sogni e la speranza in un futuro migliore.
Gli scavi di Pompei sono stati a lungo la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà. Ora invece sono il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco. Sbaglia però chi crede che l’abbandono del prezioso sito archeologico sia iniziato di recente. La prima volta che ho visitato gli scavi era il 1984 e ancora oggi ricordo con amarezza il viaggio fra le rovine malinconiche. Già allora si percepiva il senso di desolazione e noncuranza a cui era pericolosamente esposta l’intera area. La precarietà si intuiva di fronte alle deboli transenne che avrebbero dovuto indicare il divieto di accesso ad alcuni ambienti a rischio di crollo, oppure quando si palesavano i danni piccoli e grandi provocati dagli atteggiamenti irresponsabili di un turismo stolto e dalla totale mancanza di controlli e vigilanza. Ricordo bene gli sguardi increduli dei visitatori stranieri di fronte a tanto deperimento, lo sdegno evidente per i cumuli di rifiuti abbandonati qua e là, lo stupore compassionevole per i cani randagi che si aggiravano fra le macerie. 
Dopo lo sciopero dei giorni scorsi, la conseguente chiusura e le file di turisti furiosi, la stampa nazionale è tornata a occuparsi di Pompei. Non lo faceva con tanta “passione” dai giorni dei tragici crolli del 2010, quelli che portarono al linciaggio dell’allora ministro dei Beni Culturali Bondi. Ora, il soggetto è indifendibile. Tuttavia occorre avere il coraggio di dire che il crollo della Domus dei Gladiatori, vicenda che per l’appunto trascinò il senatore e coordinatore nazionale del Pdl nella bufera, ha dato il via a una triste e vergognosa farsa. Bondi fu responsabile di non essersi opposto ai tagli alla Cultura voluti e praticati dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ma affermare che il deperimento di Pompei sia una delle tante responsabilità dei Governi Berlusconi è una tesi originale, per non dire peggio. In molti nel 2010 sfilarono davanti alle telecamere con i volti carichi di sdegno, ma tanti di loro stavano in Parlamento e frequentavano le stanze della politica e del potere da un’infinità di anni. Anni durante i quali il degrado di Pompei è avanzato nella più assoluta noncuranza dell’intera classe politica. Un Paese civile, davvero preoccupato per le proprie sorti e non avvelenato dall’odio e pervaso dal malvezzo dell’immoralità, anziché trovare il solito capro espiatorio si sarebbe  interrogato piuttosto su quale manutenzione ordinaria e straordinaria fosse stata attuata a Pompei negli ultimi sessant’anni e quale vigilanza il Ministero avesse esercitato sugli scavi e più in generale sull’immenso patrimonio storico e artistico nazionale. Ma di tutto questo non è mai importato nulla a nessuno. L’agonia dei nostri tesori artistici e paesaggistici non ha tolto il sonno ai ministri e ai parlamentari che si sono succeduti nei decenni promettendo ogni volta rapidi interventi; né ai giornalisti che hanno “offerto” ai lettori esercizi di retorica e libri pubblicati da editori collusi col malcostume e il malgoverno; né tanto meno a gran parte degli italiani, sempre pronti a indignarsi ma sempre lontani da ogni responsabilità. 
Pompei ha continuato a sgretolarsi anche negli ultimi tre anni, ma sui giornali ne avete sentito parlare molto meno perché non c’era una figura goffa come Bondi da dare in pasto alla furia a gettone del popolo. Adesso per qualche giorno invece se ne parlerà ancora: ascolteremo l’allarme e le promesse di un ministro a termine, leggeremo corrosivi editoriali, ci toccherà perfino udire Pietro Salini, amministratore delegato di Impregilo e di Salini in fase di fusione, che denuncia di voler donare venti milioni di euro per il rilancio di Pompei, ma di non riuscire a farlo per colpa della burocrazia. Passatemi la divagazione: Impregilo è un’azienda italiana corresponsabile con alcuni governi sudamericani e africani di aver devastato interi habitat naturali e scacciato popolazioni indigene per erigere ciclopiche dighe e altri grandi opere, e forse il governo italiano dovrebbe domandarsi se è il caso di accettare soldi che grondano ingiustizia sociale e distruzione.
Tornando a Pompei, rassegnamoci. Non cambierà nulla. Tra qualche giorno non ne sentiremo più parlare. Fino a un nuovo scandalo o al prossimo crollo, che potrebbe essere l’ultimo. Chi ha visitato gli scavi ne conosce la provvisorietà ineluttabile. Una provvisorietà che non si manifesta solo nel senso di abbandono, ma che si tocca con mano nella prospettiva nord, dalla quale incombe sornione la mole del Vesuvio. Un sinistro presagio che ricorda un passato tragico e un destino di desolazione.