“Gli ultimi giorni di Pompei” è il titolo di numerosi film girati nella prima metà del Novecento, tutti tratti dal celebre e omonimo romanzo di Bulwer-Lytton. La messa in scena della storia d’amore fra Jone e Glauco e della forza distruttrice del Vesuvio, vero protagonista e regolatore delle passioni e delle tragedie umane, ha emozionato intere generazioni quando il cinematografo era ancora un luogo magico e fantastico. Quando la vita degli italiani era ancora un’avventura dove c’era posto per i sogni e la speranza in un futuro migliore.
Gli scavi di Pompei sono stati a lungo la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà. Ora invece sono il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco. Sbaglia però chi crede che l’abbandono del prezioso sito archeologico sia iniziato di recente. La prima volta che ho visitato gli scavi era il 1984 e ancora oggi ricordo con amarezza il viaggio fra le rovine malinconiche. Già allora si percepiva il senso di desolazione e noncuranza a cui era pericolosamente esposta l’intera area. La precarietà si intuiva di fronte alle deboli transenne che avrebbero dovuto indicare il divieto di accesso ad alcuni ambienti a rischio di crollo, oppure quando si palesavano i danni piccoli e grandi provocati dagli atteggiamenti irresponsabili di un turismo stolto e dalla totale mancanza di controlli e vigilanza. Ricordo bene gli sguardi increduli dei visitatori stranieri di fronte a tanto deperimento, lo sdegno evidente per i cumuli di rifiuti abbandonati qua e là, lo stupore compassionevole per i cani randagi che si aggiravano fra le macerie.
Dopo lo sciopero dei giorni scorsi, la conseguente chiusura e le file di turisti furiosi, la stampa nazionale è tornata a occuparsi di Pompei. Non lo faceva con tanta “passione” dai giorni dei tragici crolli del 2010, quelli che portarono al linciaggio dell’allora ministro dei Beni Culturali Bondi. Ora, il soggetto è indifendibile. Tuttavia occorre avere il coraggio di dire che il crollo della Domus dei Gladiatori, vicenda che per l’appunto trascinò il senatore e coordinatore nazionale del Pdl nella bufera, ha dato il via a una triste e vergognosa farsa. Bondi fu responsabile di non essersi opposto ai tagli alla Cultura voluti e praticati dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ma affermare che il deperimento di Pompei sia una delle tante responsabilità dei Governi Berlusconi è una tesi originale, per non dire peggio. In molti nel 2010 sfilarono davanti alle telecamere con i volti carichi di sdegno, ma tanti di loro stavano in Parlamento e frequentavano le stanze della politica e del potere da un’infinità di anni. Anni durante i quali il degrado di Pompei è avanzato nella più assoluta noncuranza dell’intera classe politica. Un Paese civile, davvero preoccupato per le proprie sorti e non avvelenato dall’odio e pervaso dal malvezzo dell’immoralità, anziché trovare il solito capro espiatorio si sarebbe interrogato piuttosto su quale manutenzione ordinaria e straordinaria fosse stata attuata a Pompei negli ultimi sessant’anni e quale vigilanza il Ministero avesse esercitato sugli scavi e più in generale sull’immenso patrimonio storico e artistico nazionale. Ma di tutto questo non è mai importato nulla a nessuno. L’agonia dei nostri tesori artistici e paesaggistici non ha tolto il sonno ai ministri e ai parlamentari che si sono succeduti nei decenni promettendo ogni volta rapidi interventi; né ai giornalisti che hanno “offerto” ai lettori esercizi di retorica e libri pubblicati da editori collusi col malcostume e il malgoverno; né tanto meno a gran parte degli italiani, sempre pronti a indignarsi ma sempre lontani da ogni responsabilità.
Pompei ha continuato a sgretolarsi anche negli ultimi tre anni, ma sui giornali ne avete sentito parlare molto meno perché non c’era una figura goffa come Bondi da dare in pasto alla furia a gettone del popolo. Adesso per qualche giorno invece se ne parlerà ancora: ascolteremo l’allarme e le promesse di un ministro a termine, leggeremo corrosivi editoriali, ci toccherà perfino udire Pietro Salini, amministratore delegato di Impregilo e di Salini in fase di fusione, che denuncia di voler donare venti milioni di euro per il rilancio di Pompei, ma di non riuscire a farlo per colpa della burocrazia. Passatemi la divagazione: Impregilo è un’azienda italiana corresponsabile con alcuni governi sudamericani e africani di aver devastato interi habitat naturali e scacciato popolazioni indigene per erigere ciclopiche dighe e altri grandi opere, e forse il governo italiano dovrebbe domandarsi se è il caso di accettare soldi che grondano ingiustizia sociale e distruzione.
Tornando a Pompei, rassegnamoci. Non cambierà nulla. Tra qualche giorno non ne sentiremo più parlare. Fino a un nuovo scandalo o al prossimo crollo, che potrebbe essere l’ultimo. Chi ha visitato gli scavi ne conosce la provvisorietà ineluttabile. Una provvisorietà che non si manifesta solo nel senso di abbandono, ma che si tocca con mano nella prospettiva nord, dalla quale incombe sornione la mole del Vesuvio. Un sinistro presagio che ricorda un passato tragico e un destino di desolazione.
Sottoscrivo anche le virgole di questo tuo bellissimo articolo. Scritto con il cuore spezzato per come tutto il bello di questo paese sta andando in malora. Ci manca solo che Impregilo si rifaccia un’immagine sfruttando la disgraziata condizione dei nostri tesori artistici..
Purtroppo come società civile siamo assenti e atomizzati. Della “classe” (ossimoro) politica non riesco nemmeno più a parlare.