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BookCity Milano: aria di MinCulPop

Parto con un’ammissione: li attendevo al varco. Attendevo i dati “ufficiali” del numero dei partecipanti a BookCity, evento promosso dal Comune di Milano. Ero certo che sarebbero circolati numeri sospetti, non immaginavo che si arrivasse alla propaganda. Titola il Corriere della Sera: “Folla a Bookcity, 130 mila visitatori. Raddoppia la città dei lettori”. Per chi non lo sapesse, il Gruppo RCS figurava tra i promotori dell’iniziativa. Ora non voglio tediarvi con cifre e percentuali per non cadere nel ridicolo balletto di numeri fra manifestanti e questura che segue ogni manifestazione. Però non posso nemmeno tacere l’evidenza. Sabato pomeriggio ho assistito alla conferenza di Jamie Ford, autore de “Il gusto proibito dello zenzero”, milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si è svolta alla Sala delle otto colonne di Palazzo Reale, di fianco al Duomo, in uno dei luoghi più centrali, prestigiosi e noti fra quelli che ospitavano gli eventi di BookCity. Pubblico presente: 90 persone. Quando si entrava a Palazzo Reale non c’era nessun cartello evidente che informasse dell’evento e il personale in servizio rilasciava informazioni confuse e imprecise.
Villa Necchi Campiglio, elegante e raffinata dimora del Fai, anch’essa nel cuore di Milano, ha ospitato 4 conferenze dedicate al giardinaggio e alla natura: totale dei partecipanti 100, per una media di 25 persone a ciascun incontro.
200 persone per 5 eventi, e non 5 eventi qualsiasi, bensì ospitati in sedi di prestigio. Una media di 40 partecipanti, che moltiplicata per 650 eventi (tanti erano più o meno quelli in programma) dà un totale di 26.000 visitatori. Possiamo essere clementi e accettare che qualche conferenza abbia clamorosamente alzato la media. È comunque davvero difficile credere che il numero di persone che hanno assistito, anche magari solo per qualche minuto, agli incontri proposti da BookCity 2013 sia stato superiore a 35.000/40.000. Figuriamoci 130mila! Non ci arriva neppure se ci mettiamo quelli che erano già in giro per lo shopping natalizio e si sono affacciati per errore a un evento, magari solo per sorseggiare un po’ dei 50 litri di vin brûlé distribuiti. Sì, sì, ben 50 litri, lo hanno fatto sapere con solerzia gli organizzatori.
L’anno passato, prima edizione, i visitatori, sempre secondo gli organizzatori, furono 80mila. Dunque se fossero davvero raddoppiati, come titola il Corriere, oggi avremmo dovuto festeggiare 160mila partecipanti, non 130mila. Ma il problema, come ho tentato di spiegare, è che anche 130mila se li sono solo sognati il Comune di Milano, Rcs e la pletora di grandi sponsor, banche, assicurazioni, società energetiche, che hanno sostenuto la kermesse. L’unica folla che si è vista durante il weekend per le strade di Milano era quella assiepata in Corso Vittorio Emanuele, di fronte allo Swatch Store, per vedere Mika che presentava l’orologio Mika 4 Swatch, lo Swatch Kukulakuku. Un nome profetico, che invita a salutare i promotori di BookCity così: Cucù, e il pubblico non c’è più.

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Oggi si parte con Bookcity Milano 2013. La cognizione del grigiore

Se Milano avesse avuto un suo festival della letteratura attorno alla metà del Novecento, probabilmente avrebbe ospitato scrittori come Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Giorgio Scerbanenco, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. A Bookcity Milano 2013, kermesse promossa dal Comune di Milano e sostenuta da una corposa schiera di aziende, al via oggi, al più si potranno ascoltare autori di dubbia fama, e a volte sconosciuti meriti, chiacchierare attorno alle opere dei sopra citati letterati. Sempre meglio che assistere agli incontri, il programma di Bookcity ne è colmo, con autori-comici, autori-conduttori tv, autori-deejay, autori-cheef, autori-editorialisti, autori-sociologi, autori-psicologi e via discorrendo.
Sempre se Milano avesse avuto un suo festival della letteratura quando era davvero una delle capitali dell’editoria, forse avrebbe ospitato anche figure del calibro di Ernest Hemingway, Jorge Luis Borges, Marguerite Duras, Truman Capote, Simone de Beauvoir, William Faulkner. Invece la star internazionale di Bookcity Milano 2013 sarà Rupert Everett. Non me ne voglia il simpatico e brillante attore britannico, che sì, va bene, ha scritto un paio di memoir dopo che il mondo del cinema gli ha voltato le spalle, ma la domanda, come si dice in questi casi, sorge spontanea e la formulo con le parole di uno dei maggiori pensatori della nostra epoca: ma che c’azzecca Rupert con la letteratura?

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Alluvione in Sardegna: il silenzio degli onesti e il gracchiare dei corvi

Uno degli aspetti drammatici meno evidenti dell’alluvione che ha colpito la Sardegna è il silenzio degli onesti. Il silenzio di quelle persone, studiosi o semplici appassionati, che già negli anni Sessanta e Settanta del secolo passato invocavano interventi atti a prevenire, a investire sulla tutela del suolo, a ridare il giusto valore al paesaggio. Alcune di quelle persone, penso ad Antonio Cederna, Giorgio Bassani, Renato Bazzoni, non sono più fra noi. Le loro battaglie si sono infrante contro il muro di gomma della cattiva politica e dell’indifferenza generale. Altri hanno semplicemente smesso di credere nella possibilità di un cambiamento, si sono rassegnati alla peggiore delle loro previsioni, ossia che in questo disgraziato Paese le cose non potranno mai cambiare in meglio. Così oggigiorno ogni disastro ambientale, magari provocato da fenomeni eccezionali ma le cui conseguenze sono sempre aggravate dalle dissennate politiche urbanistiche, è accompagnato soltanto dalle vuote, retoriche parole dei corvi istituzionali, corresponsabili a differenti livelli, e dalle inopportune denunce dei profittatori, cioè di chi si avvantaggia di situazioni eccezionali o delle altrui disgrazie per ricavarne guadagno, magari con un bell’editoriale, un libro o una comparsata in Tv. Giornalisti, opinionisti e commentatori di 50, 60 e anche 70 anni che non ricordo di aver mai visto in prima linea a battersi a favore dell’ambiente quando pochi prestavano attenzione a simili “bagatelle”. In questi giorni sfogliando le pagine dei più noti quotidiani leggerete pezzi intrisi di indignazione e di denuncia. Sono firmati da celebri editorialisti, a volte autori di titoli che negli ultimi anni hanno incassato molto bene in libreria. Ebbene, dopo aver dato la vostra adesione ai toni profetici di questi signori ponetevi una domanda: dov’erano venti o trenta anni fa, quando già si consumava l’atto finale del saccheggio al territorio italiano, ma tutti ancora danzavano e brindavano inebriati da un falso progresso che poggiava solo sul malcostume e la peggiore devastazione? 

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In attesa del peggior evento editoriale

Giorni fa ho pubblicato un post dedicato ai comici indignati che non disdegnano le prebende della pubblicità. Alcuni lettori hanno commentato per esprimere il proprio disappunto. No, non verso il post, nei confronti dei comici. Pare che spazientiscano molto questi signori e queste signore che amano fare i paladini dei diritti calpestati dalle stesse aziende alle quali prestano il loro volto per la reclame. Eppure fanno ascolti in Tv e hanno successo al cinema e in libreria. Quindi non illudiamoci. Noi siamo una minoranza, noi che ci scandalizziamo per la faccia tosta di lor signori. La maggioranza degli italiani invece aspetta con ansia l’evento editoriale che decreterà l’ingresso fra il novero dei grandi letterati di lei, l’autrice di capitoli memorabili della narrativa mondiale intitolati “Il bell’addormentato nei boxer”, “Il pacco in bagno”, “Le tette di Kate”, “Il pisciavelox”, “Lo scaldawalter”, “Belén e Belìn”, “Fighitudine imperitura”, “Le smutandate”, “Il grand cul di Carlà” e “Le telefonate della Minchiamobail”. Prima o poi accadrà, vedrete. Il suo cofanetto di fianco a quelli di  Gustave Flaubert, Lev Tolstoy, Thomas Mann, Heny James, William Faulkner, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Emily Dickinson. Accadrà, siamo in Italia.

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Un Paese di chiacchieroni inconcludenti

“Dire molto per fare poco” titola un editoriale di Angelo Panebianco pubblicato oggi su Corriere.it. Questo è il passaggio principale: “Si aggiunga il vincolo che pesa su tutti i governi italiani: le nostre istituzioni premiano i poteri di veto, non il potere di decisione. Da qui la tradizionale politica degli annunci: «Faremo questo, faremo quello». Poiché, in realtà, si può fare poco, poiché c’è sempre qualcuno che può porre veti (si veda cosa è successo appena il governo ha cercato di mettere mano ai conti della Sanità), i governi, anziché fare, devono limitarsi a promettere che faranno”. Poche righe più avanti, l’editorialista prefigura già il declino dell’astro nascente Matteo Renzi: “Se non gli gettano la proporzionale fra i piedi forse vincerà le prossime elezioni. Magari riuscirà anche a stravincerle. E si troverà a seguire le orme di Berlusconi: grandi maggioranze, scarsi risultati”.
Tutto vero, tutto condivisibile. Diceva Talete di Mileto: “Gli dei hanno dato agli uomini due orecchie e una bocca, per ascoltare il doppio e parlare la metà”. Peccato, però, che ci abbiano concesso anche due mani, e in tanti si sono sentiti in diritto di scrivere, scrivere, scrivere… senza più ascoltare il Paese. Al Corriere ne sanno qualcosa. Oh, se ne sanno.

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Quei comici di Intesa Sanpaolo…

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No, per carità, non vorrei essere frainteso per via del titolo. Non intendo affatto dare del comico a Giovanni Bazoli, presidente di sorveglianza e padre della superbanca, né al neo consigliere delegato, Carlo Messina, o a Gian Maria Gros-Pietro, presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Figuriamoci, questa sono tutti pezzi da novanta. Gros-Pietro è stato nientemeno che l’ultimo presidente dell’Iri e poi numero uno di Eni e Autostrade, un economista amico di Prodi e caro a Ciampi. Di Bazoli poi cosa si può dire che non sia già stato detto. Per comprendere il potere di questo cattolico bresciano basti dire che Intesa Sanpaolo è la prima banca d’Italia, oltre che l’azionista di maggioranza di Bankitalia con il suo 30,3%. Dai tempi del governo Prodi, grande amico anche di Bazoli, è la ‘banca per il Paese’. Di oltre 500 miliardi di euro è il credito complessivo che l’istituto vanta nei confronti dell’economia italiana, privata e pubblica. Insomma, si può tranquillamente dire che Intesa Sanpaolo tiene l’intero Paese per le pa… Sì, insomma ci siamo capiti.
Intesa Sanpaolo è l’istituzione per eccellenza, è la quintessenza dell’establishment economico e finanziario, il potere fatto e finito. Per tutto questo mi hanno sempre fatto un po’ sorridere quei comici italiani che prestano le loro voci e i loro volti per svecchiare e “umanizzare” l’immagine dell’istituto in cambio di ricche prebende. Comici alti, spocchiosi, pieni di buone intenzioni e anche pieni di sé, mica gente da B-movie come Bombolo&Co. No, qui si parla di comici conformisticamente incazzati, quelli che firmano gli appelli e satireggiano sulla mediocrità del popolino italiano. L’ultimo in ordine di tempo è Claudio Bisio, che ha raccolto il testimone dalla Gialappa’s. Ma in tempi lontani mi pare proprio di ricordare che la voce “istituzionale” degli spot della banca, quando era ancora Cariplo, fosse quella di Lella Costa, da sempre impegnata professionalmente e civilmente.
Gli spot pubblicitari oggi sono pieni di queste star anti-sistema, di questi duri e puri, sempre attenti al politicamente corretto, tutti indignati, anzi indignados, tutti anti, che però cedono facilmente alle sirene dell’advertising: non solo banche, ma anche cellulari, compagnie telefoniche, detersivi, acque minerali. Perfino call center, ossia quei luoghi dove annega la dignità professionale di molti giovani. Mi è impossibile chiudere senza citare Luciana Litizzetto, protagonista ante litteram di un celebre spot per Banca San Paolo: “Ti amo bancario”. La scrittrice, umorista e tante altre cose che fa sberleffi ai potenti, accartoccia i governanti e satireggia sulle loro facce, non disdegna la strada dello spot, che passi da Coop o porti a Vodafone.
Recitava una fulminante battuta di Marcello Marchesi, lui sì era un intellettuale: “È Carosello che traccia il solco”. Già, ma sono i comici indignados che lo difendono.

Luciana Litizzetto

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Se il buongiorno si vede da Gramellini… siamo senza speranze

Posso capire che è più semplice leggere poche banali righe dell’imbonitore Gramellini piuttosto che un pezzo di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, edizione italiana di Scientific American. Ma a volte è proprio la complessità a svelarci l’inutilità di certe letture. Vi invito a leggere il pezzo di Cattaneo, che pubblico integralmente qui sotto. Perché vi garantisco che leggendolo potreste apprendere cose che prima non sapevate, mentre leggendo ogni Buongiorno di Gramellini non imparerete mai nulla.

Se il buongiorno si vede dal Gramellini
di Marco Cattaneo (da Le Scienze Blog)

Sarò io che ho un brutto carattere, ma nutro sempre una certa diffidenza nei confronti dei monopolisti dei buoni sentimenti. Così ieri ho affrontato con il solito sopracciglio mezzo alzato, e solo previa segnalazione, il Buongiorno che Massimo Gramellini dispensa quotidianamente ai lettori di “La Stampa”, attirato più che altro dal titolo singolare: Abbasso gli algoritmi.

Le prime righe riassumevano superficialmente uno spettacolare studio di Lars Backstrom e Jon Kleinberg che con ogni probabilità Gramellini non hai mai nemmeno pensato di leggere. Ma se c’è da semplificare a partire da resoconti già di terza mano e pontificare a dovere, guai a tirarsi indietro. Parlano, i due esperti di computer science della Cornell University, di una bella ricerca sulla forza delle relazioni sentimentali misurata attraverso un nuovo parametro, che chiamano “dispersione” delle relazioni sociali. Uno studio realizzato grazie a un nuovo strumento, gli “amici” di un social network diffuso come Facebook.
I giornali lo hanno etichettato come l’algoritmo che prevede quanto durerà una storia d’amore, e a Gramellini non deve essere sembrato vero di aver trovato un nuovo, efferato nemico della bontà: l’algoritmo.

Così si è lanciato in un’appassionata invettiva degna di miglior causa. “La dittatura dell’algoritmo – scrive di getto il severo custode delle nostre anime – è l’ultimo rifugio di un certo tipo di persone, per lo più maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro…”. E per fortuna ci risparmia dettagli sulla forma di altri organi.
Ma rincara la dose: “Questi aridi manichini del sapere moderno pensano di controllare la realtà, racchiudendola in una previsione statistica…”. Vi risparmio il resto. Se proprio ci tenete a farvi del male lo trovate qui.

Vorrei rassicurare Gramellini su un paio di cose. La prima è facile facile, alla portata delle sue semplificazioni. Gli aridi manichini di cui parla sono persone non diverse da lui. Si alzano al mattino, fanno colazione, vanno al lavoro, si fanno quattro risate alla macchinetta del caffè, magari scambiano due battute sull’ultima partita dei New York Yankees (precisazione per Gramellini: i New York Yankees sono, a grandi linee, la Juventus di New York), tornano a casa in metropolitana, la sera, e magari tengono pure famiglia. In alcune nazioni particolarmente evolute quei manichini lì li chiamano scienziati, e a quelli bravi danno anche dei premi.

La seconda è un po’ più ardita, ma confido che con qualche sforzo ce la possa fare. Scrivere “Abbasso gli algoritmi” e deprecarne la dittatura è un po’ come scrivere “Abbasso la forza di gravità” o “Abbasso la postura eretta”. In parole povere, una sciocchezza.
La parola algoritmo deriva dal nome di uno dei massimi matematici dl Medioevo; quello sì, un gigante del sapere. Vissuto nel IX secolo, si chiamava Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, probabilmente perché proveniva dalla regione persiana del Khwārezm. Matematico, astronomo e geografo, è considerato uno dei padri nobili dell’algebra, quell’arida branca della matematica con cui si calcolano per esempio i diritti dei libri di Gramellini. E il termine algoritmo deriva dalla trascrizione latina del suo nome perché fu tra i primi a fare riferimento al concetto di procedimento per risolvere un problema in un numero finito di passi: un algoritmo, appunto.

Gli algoritmi, non me ne voglia Gramellini, sono dappertutto, infestanti come la gramigna. A modo loro erano algoritmi, anche se loro non lo sapevano, pure i calcoli che permisero agli antichi abitanti del Neolitico di decidere il momento della semina in funzione dell’alternarsi delle stagioni. E di lì in poi non abbiamo fatto che infilare algoritmi nella nostra vita. Perché gli algoritmi scovano le regolarità nei fenomeni, e ci permettono di descriverli con una lingua sintetica, quella della matematica. Non sempre semplice, ma sintetica.

Ci sono algoritmi nei frigoriferi, negli impianti elettrici, nelle automobili. Ci sono algoritmi che permettono di risparmiare spazio, o materiali nella manifattura. Ci sono algoritmi negli strumenti diagnostici, come la risonanza magnetica: servono a raddrizzare l’immagine grezza prodotta dal campo magnetico, che sarebbe troppo deformata per permettere diagnosi precise. Ci sono algoritmi nei computer con cui Gramellini scrive i suoi testi, o perlomeno nelle macchine che li stampano, se lui si ostina a vergarli sulla pergamena con la penna d’oca. Ci sono algoritmi nelle telecamere che settimanalmente lo riprendono e nei televisori che ci portano a casa la sua immagine rassicurante. Ci sono algoritmi persino nella testa di ognuno di noi. In qualche caso, magari, a sua insaputa.

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Siamo un popolo di emigranti

siamo un popolo di emigranti

Dopo il pontefice argentino, ma di origini italiane, abbiamo anche il sindaco di New York italo-americano. Non è la prima volta. Prima di Bill De Blasio c’erano già stati due primi cittadini italo-americani che hanno fatto la storia della Grande Mela, Fiorello La Guardia, dal 1934 al 1945, e Rudolph Giuliani, dal 1994 al 2001, e un terzo che pochi ricordano, Vincent Impellitteri, dal 1950 al 1953.
Tra il 1860 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall’Italia. Nostri connazionali vivono quasi in ogni angolo del mondo. Molti hanno fatto fortuna, alcuni hanno raggiunto  posizioni di prestigio in ambito pubblico e privato. Dove è stata offerta loro una possibilità, gli italiani hanno concorso a migliorare le condizioni di vita dei Paesi che li hanno ospitati. In qualche caso hanno esportato anche malavita e malaffare. E anche per questa ragione molti emigranti italiani hanno dovuto subire il disprezzo razzista. Sarebbe bene che ce lo ricordassimo, soprattutto quando per paura, ignoranza e faciloneria cadiamo nel tragico equivoco delle generalizzazioni.