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La montagna remota e arcana di Dino Buzzati

Quarantadue anni fa – era il 28 gennaio 1972, alle ore 16.20 – lasciava questo mondo Dino Buzzati, autore fra i più famosi del Novecento. Aveva 65 anni. In un attico al decimo piano della Casa della Fontana, in viale Vittorio Veneto 24 a Milano, Buzzati abitò per dieci anni. Seppure trascorse gran parte della sua vita nel capoluogo lombardo, prima come studente poi come giornalista al Corriere della Sera, Buzzati sentì sempre sue le montagne bellunesi. Per questa ragione ho scelto di rendergli omaggio percorrendo con la mente i luoghi buzzatiani delle Dolomiti. 

Dalla villa di San Pellegrino, alle porte di Belluno, dove nacque, Buzzati cominciò da subito ad ammirare le montagne, che per prime nutrirono e alimentarono la sua fervida immaginazione. La centralità della montagna nei suoi scritti è un fatto noto. Ed è compito arduo quello di scegliere un brano anziché un altro per iniziare questo percorso. Forse partire da Bàrnabo delle montagne è quanto di meglio si possa fare. Perché in Bàrnabo c’è la montagna intesa in senso buzzatiano. Non un paesaggio stucchevole da cartolina, ma la montagna autentica e severa. “Bàrnabo completamente vestito si è gettato sul letto e con le braccia incrociate dietro la testa, fissando gli occhi nella massa degli abeti che nereggia dietro i vetri, sente come non mai la vicinanza delle montagne, con i loro valloni deserti, con le gole tenebrose, con i crolli improvvisi di sassi, con le mille antichissime storie e tutte le altre cose che nessuno potrà dire mai”. buzzati-a-cima-canali-sulle-pale-di-san-martino-di-castrozzaLe Dolomiti di Buzzati sono montagne “così poco di maniera”. Del resto Belluno e le sue cime erano perlopiù ignorate. “Se io dico che la mia terra è uno dei posti più belli non già dell’Italia ma dell’intero globo terracqueo, tutti cascano dalle nuvole e mi fissano con divertita curiosità…”. Eppure tra il Piave e la Schiara c’è una “Dolomite con tutte le carte in regola – sono sempre parole sue – né più né meno che le Tre Cime di Lavaredo e il Sasso Lungo”. Fin da ragazzo sognava di scalare quelle cime tormentate e fantasticava ad occhi aperti sulle antiche leggende della bella Dolasilla e del principe dei Duranni. La Schiara, anzi “lo” Schiara, come continuerà a scrivere nei suoi articoli anche quando la celebrità lo ha già raggiunto, concedendosi il vezzo affettuoso di perpetuare un uso improprio appreso da bambino, è la montagna della sua vita. Con “l’immortale Gusela”, dito di roccia levato al cielo. La materia in Buzzati si fa metafora, si disintegra e si dissolve per riapparire sotto altre forme fantastiche. E così le sue montagne diventano un luogo “remoto ed arcano” dove osservare “una poiana roteante lassù” e nel silenzio cogliere “il senso della vita che passa, che è passata per sempre”. Oggi le valli e le cime tanto care a Buzzati fanno parte del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, una vasta area che da Feltre a Belluno abbraccia un paesaggio di severa bellezza, conservatosi grazie all’isolamento e alla cura di uomini lungimiranti. Pareti immani sfiorate dal volo possente dell’aquila reale, guglie e creste frustate dal vento, gole impenetrabili dove regna il camoscio. montagna buzzati2“Esistono da noi valli che non ho mai viste da nessun’altra parte. Identiche ai paesaggi di certe vecchie stampe del romanticismo che a vederle si pensava: ma è tutto falso, posti come questi non esistono. Invece esistono: con la stessa solitudine, gli stessi inverosimili dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli pencolanti sull’abisso, e le cascate di acqua, e sul sentiero un viandante piuttosto misterioso. Meno splendide certo delle trionfali alte valli dolomitiche recinte di candide crode. Però più enigmatiche, intime, segrete”. Poste ai margini del grande traffico turistico dolomitico, queste montagne hanno conservato risorse naturali e paesaggistiche di eccezionale pregio. La disattenzione verso le sue amate vette infastidiva Buzzati: “è stata questa faccenda delle Dolomiti e di Cortina a tenere in eclisse il bellunese”. Ma la bellezza recondita della natura che circondava la sua Belluno lo inorgogliva. Perché “di fronte alla natura, se si riesce a guardarla con animo sincero, le miserie si sciolgono, gli uomini si ritrovano l’un l’altro dimenticando di avere questo o quel colore”.

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Un Paese senza memoria celebra la Giornata della Memoria

Gabriele Nissim, giornalista, saggista e storico italiano, ha affermato in un editoriale: “L’Italia ha molti difetti, ma non c’è un Paese d’Europa dove il giorno della Shoah sia così sentito”. Bene. In effetti quasi non c’è amministrazione comunale (piccola o grande) che non organizzi una ricorrenza pubblica per il 27 gennaio; e giornali, televisioni e testate online propongono servizi, interviste, reportage. Insomma, sembrerebbe proprio che almeno questa volta abbiamo fatto bene.
Ma per comprendere l’efficacia di una celebrazione occorre guardarsi attorno, cioè al di fuori dai luoghi stessi dove la ricorrenza si autoalimenta. Lo scorso dicembre nella trasmissione – quiz di Rai Uno, L’Eredità, è accaduto questo.

Ora  molti di voi diranno: ma quei concorrenti non rappresentano l’Italia intera. Certo, ma è altrettanto vero che essi ne rappresentano una buona fetta. Se la Giornata della Memoria diventa solo un luogo in cui le istituzioni si specchiano, un’occasione per vuoti proclami politici e per celebrazioni a bassa partecipazione popolare, la trasmissione del passato nel nostro Paese continuerà a non funzionare. «Noi siamo un paese senza memoria»– constatava amaramente Pier Paolo Pasolini – ed aggiungeva: «Il che equivale a dire senza storia». 

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Non è giornalismo

Premio “Non è giornalismo” del 24 gennaio 2014 assegnato di nuovo a Corriere.it. Il quotidiano di via Solferino, che in passato vide fra le sue firme più prestigiose Eugenio Montale, Ennio Flaiano, Dino Buzzati e Pier Paolo Pasolini, oggi sembra essere diventato una succursale di Alfonso Signorini. Specchio dei tempi.

Buffon Seredova D'Amico

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Non è giornalismo

Premio “Non è giornalismo” del 23 gennaio 2014 a Corriere.it che per il quarto giorno consecutivo insiste sui fatti privati di Andrea Pirlo. Né più né meno che come l’ultima rivista di gossip. E poco importa se a firmare queste righe è Maria Luisa Agnese, storica firma del quotidiano di via Solferino, ex direttore di Sette e Specchio della Stampa.

Pirlo

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Leonardo Re Cecconi, alias Leopardo

LEONARDO RE CECCONI

Alla fin fine non sono poi molti i nomi che hanno contributo in maniera significativa a costruire la figura del disk-jockey in Italia. Anzi sono davvero pochi. Un manipolo di pionieri trasformatisi in artisti. Tutti gli altri si sono ispirati a loro. Molti hanno copiato malamente. Tra i primi va senza dubbio annoverato Leonardo Re Cecconi, più noto ai radioascoltatori con il nome di Leopardo, scomparso prematuramente il 22 gennaio di dieci anni fa. Linus oggi lo ha ricordato nel suo blog definendolo “uno dei Padri Fondatori delle radio private milanesi, nonché uno dei miti di quelli mia generazione”. Sottoscrivo, essendo della stessa generazione. Leonardo “Leopardo” è nato come dj nel 1976 a Radio Reporter di Rho, ma è arrivato al successo nel 1977, con l’approdo a Radio Milano International FM 101. Ha poi proseguito con esperienze in altre stazioni, tra cui Studio 105,  RTL e Radio Montecarlo, ma nel cuore di tutti noi restano indelebili soprattutto gli anni trascorsi negli studi di via Locatelli 6, storica sede di One-O-One. La sua voce roca e stridula al tempo stesso, il suo leggendario saluto-ruggito. Mentre quasi tutti gli altri elencavano titoli e interpreti delle canzoni che passavano, lui su ogni singolo disco costruiva un piccolo show. I suoi motti, il doppio fischio seguito da un “ragazzi!”, le sue trovate che ora possono apparire perfino ingenue, ma allora erano assolutamente geniali. Con Leopardo non si perdeva un minuto, perché tutta la sua trasmissione era uno spettacolo. Alcuni, forse, lo associano alla dance. Niente di più sbagliato. Certo gli anni del suo maggiore successo furono gli anni della dance, ma grazie a Leopardo conobbi i Cure, i Joy Division e perfino John Coltrane. Mentre mandava in onda il soul, lui non perdeva mai occasione per allargare i gusti di chi lo ascoltava. E così con nonchalance, fra gli Earth, Wind & Fire e i B.T. Express, buttava lì i Genesis o gli Who. 
Quando penso alla scomparsa di Leopardo avverto ancora oggi, a distanza di dieci anni, un senso di perdita grave. Lui rappresenta un pezzo della mia storia giovanile che se n’è andata per sempre e ormai soggiorna solo nei ricordi. Di lui ora rimangono solo qualche “file audio” faticosamente rintracciabile in Internet e alcune foto. Un po’ poco. Ma in realtà mi basta chiudere gli occhi ed è come se riascoltassi una sua Soul Train. Grazie, Leonardo Leopardo. Ascoltarti è stato un privilegio.

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Non è un paese per imprenditori

Ambiente: Squinzi a Letta, irrealistica riduzione 40% CO2

Gran Bretagna, Germania, Francia e altri 8 Paesi (tra questi l’Italia) stanno spingendo affinché il prossimo 22 gennaio in sede europea sia approvato un ulteriore inasprimento delle politiche anti-inquinamento: in sostanza si tratterebbe di alzare dal 20 al 40% il taglio delle emissioni di CO2 entro il 2030. I massimi rappresentanti degli imprenditori italiani sono insorti. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Enrico Letta, per chiedere di rivedere la posizione italiana. Interpellato al riguardo, Squinzi ha dichiarato con il ‘consueto ottimismo’ che un simile provvedimento «sarà catastrofico per la competitività del sistema manifatturiero italiano». Il Sole 24 Ore, che è il giornale di Confindustria, ha sostenuto la tesi del presidente degli imprenditori. In un breve articolo apparso sulla versione digitale di ieri è stato spiegato che “se l’arcigna Europa del rigore si agghinda con la camicia di forza dell’ambientalismo velleitario, per i Paesi in cerca di una via di fuga dalla recessione, come è l’Italia, non può che esserci prima paralisi, poi declino”. Quindi il suggerimento: “prima di firmare appelli autolesionisti con compagni di strada che nulla hanno da perdere (perché magari puntano sui servizi e non sulla produzione) meglio pensarci”. Quali sarebbero i compagni di squadra che puntano sui servizi e non sulla produzione? La Germania, per esempio!?!
Squinzi approfitta anche di questa situazione per chiedere il solito ‘aiutino’. Secondo il presidente di Confindustria, infatti, quello che serve è un sostegno alle imprese: «Auspichiamo che le decisioni che saranno assunte in sede europea in merito diano un segnale di sostegno alla competitività dell’industria e non penalizzino il sistema produttivo italiano». Francamente ne abbiamo le palle piene di queste aziende che chiedono e arraffano aiuti per poi mettere sotto scacco i lavoratori e i cittadini. Come non se ne può già più di sentire parlare di una ripresa alle porte, forse già in atto, ma di un’occupazione che non tornerà a crescere, almeno a breve. La posizione di una gran parte degli imprenditori italiani è efficacemente sintetizzata da una nota battuta di Ricucci. Tolti alcuni casi eccezionali, ne cito uno per tutti, Leonardo Del Vecchio, il nostro capitalismo nazionale da sempre è rappresentato  da nanismo congenito delle imprese, incapacità di diventare globali, intreccio con la politica. I percorsi biografici da veri industriali scarseggiano in Italia, esattamente come gli imprenditori disposti a rischiare in proprio. Si cerca piuttosto il potere, un ruolo di comando, visibilità e influenza politica. Sempre con i soldi degli altri. Le grandi famiglie capitaliste italiane sono sempre state così. Dall’avvocato in giù. Non hanno mai tirato fuori una lira di tasca propria per le aziende. 
Dal principio della crisi Confindustria ha scaricato tutte le colpe e le responsabilità sulla politica. Che quest’ultima sia colpevole è un fatto certo. Ma è altrettanto certo che le imprese hanno altrettanti scheletri negli armadi. L’elenco di aziende che hanno ricevuto aiuti e poi hanno delocalizzato sarebbe assai lungo. Eppure Squinzi si presenta in ogni occasione col cappello in mano, dichiarando a pie’ sospinto che le aziende sono «vicinissime alla fine». Dopo la spesa pubblica e la concorrenza sleale, il nuovo ostacolo si materializza nella lotta all’inquinamento. Che le imprese italiane, chi l’avrebbe mai detto?, non possono sostenere. E pensare che l’Italia dal 1990 ha ridotto le emissioni di gas serra del 6%, la Germania del 25%. Eppure l’economia in crisi è la nostra, non la loro. Insomma anche la green economy da noi resta una svolta sacrosanta solo nelle parole dei convegni. Naturalmente pagati con i soldi degli altri.

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Un logo vintage per il Padiglione Italia di Expo Milano 2015

Un germoglio tricolore stilizzato. È il logo del Padiglione Italia per l’Expo di Milano 2015, presentato ieri a Roma nella sede della Stampa estera. Non c’è molto da dire. Qualche delusione è trapelata subito, nonostante le parole cariche di entusiasmo usate da Diana Bracco, presidente di Expo 2015 spa e commissario generale di sezione del Padiglione Italia. Nel logo si nasconde “tutta l’Italia nelle sue tante articolazioni, le sue moltissime diversità – ha spiegato Bracco, – in una maniera da cui emerge unità, una rappresentazione univoca del nostro Paese”. L’ho fissato a lungo, quasi rapito. Caspita! mi sono detto, ma io mi identifico davvero in questo marchio. Sento che appartiene alla mia memoria. Poi si è accesa la luce. Il ricordo è affiorato con prepotenza. Il disegno è pressoché identico a quello che campeggiava sulla carta da parati del tinello di una mia vecchia zia. Negli anni Settanta.

Expo 2015 logo Padiglione Italia

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L’economia dello spreco genera discriminazioni ripugnanti

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Oggi sulla Terra ci sono oltre sette miliardi di persone, forse quattro volte di più di quante ve ne fossero un secolo fa. La popolazione non è cresciuta solo di numero, ma è anche meglio nutrita e vive più a lungo, nonostante le catastrofi che avvengono tuttora in Africa e in Asia sembrerebbero indicarci il contrario. Il mondo è più ricco di quanto lo sia mai stato prima, produce beni e servizi in quantità e varietà smisurata ed è dominato da una tecnologia in costante progresso, la cui conseguenza più evidente è stata la rivoluzione nelle comunicazioni che ha praticamente annullato il tempo e la distanza. Fino al decennio passato la maggior parte delle persone ha avuto un tenore di vita superiore a quello dei propri genitori e, nelle economie avanzate, perfino superiore a quanto avessero mai potuto immaginare. Perché dunque non si sta celebrando questo prodigioso progresso e invece si diffonde un senso di disagio e inquietudine? Perché un numero crescente di persone guarda al futuro senza speranza? A metà del Novecento sembrò che si fosse trovato il modo di distribuire con maggiore equità almeno una parte di tutta la ricchezza che si stava accumulando nel mondo, ma poi la disuguaglianza ha preso di nuovo il sopravvento e si è massicciamente introdotta anche nei paesi ex comunisti, dove prima se non altro regnava una certa uguaglianza dovuta a una generale povertà. Le diversità nelle nazioni emergenti o in forte sviluppo, come Cina e India, sono ancora più accese e crudeli che nelle mature democrazie occidentali. La tirannia del denaro ormai permea ogni angolo del globo generando discriminazioni ripugnanti. Da una parte lusso e sprechi, dall’altra povertà estrema. Papa Francesco ha tuonato più volte al riguardo. “I soldi comandano – ha osservato. – Se tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia, sembra normale, ma non può essere così”. Già, eppure lo è. La cultura e la pratica dello spreco procedono a ritmi inarrestabili, alimentate da lobbies industriali e dagli stessi Stati che sostengono processi produttivi dannosi e talvolta anche inutili, basti pensare al continuo consumo di suolo in Italia per la costruzione di nuove case, mentre i centri storici sono sempre più disabitati. Un quadro allarmante di questo mondo a due velocità è rappresentato dallo spreco alimentare. Il volume complessivo di cibo gettato via, nei vari passaggi dal campo alla tavola, ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate. Lo ha rivelato il “Rapporto sulle conseguenze ambientali dello spreco di prodotti alimentari” della Fao. In tutto il mondo viene prodotto cibo in quantità tali da soddisfare le necessità di 12 miliardi di persone, eppure 842 milioni soffrono la fame. Questo spreco ha effetti disastrosi anche sull’economia, il costo è stimato in 565 miliardi di euro, e sull’ambiente. Per produrre generi alimentari destinati a finire nella spazzatura si emettono 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, più del doppio della quantità arrecata dai trasporti su strada negli Stati Uniti. Un quadro analogo emerge dal rapporto del Wwf “Quanta natura sprechiamo” e dall’indagine realizzata da GfK Eurisko con la collaborazione di Auchan e Simply secondo cui ogni anno in Italia vengono buttati col cibo 1.226 milioni di metri cubi di acqua, 24,5 milioni di tonnellate di CO2 e il 36% dell’azoto da fertilizzanti usati inutilmente. Intanto proliferano le iniziative simboliche dei produttori e si approfitta della diffusione di questi dati apocalittici per promuovere i comportamenti virtuosi di questa e quella azienda. La sensazione però è di assistere impotenti a un mercato dominato da ben altri equilibri e interessi. I bimbi che muoiono di fame, i senzatetto e i poveri non fanno notizia, per tornare alle parole di Bergoglio. Invece gli indici di borsa e le percentuali del Pil occupano stabilmente giornali e Tv. Verrebbe da aggiungere che per avviare un autentico cambiamento occorre partire dal basso. Se non si temesse di sprecare anche le parole.

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Quindici anni di euro: disastro Italia

Sono trascorsi 15 anni dall’entrata in vigore dell’Euro. Euro-entusiati ed euro-scettici in tutto questo periodo si sono fronteggiati a suon di previsioni. I primi, decisamente più numerosi fra le istituzioni e le forze politiche, non è dato di sapere fra l’opinione pubblica poiché in Italia, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi, non si è ritenuto di raccogliere il parere del popolo, hanno sempre sostenuto che l’euro avrebbe portato in Italia tassi di interesse più bassi, minore debito pubblico, stabilità finanziaria e maggiore crescita. Carlo Azeglio Ciampi, forse il maggiore euro-entusiasta, incontrando gli imprenditori italiani al Quirinale disse loro: «Ricordate quanto si pagava più di interessi rispetto ai concorrenti europei? Prima dell’euro lo Stato italiano era considerato un debitore meno affidabile di altri Stati. Ora siamo credibili quanto gli altri».
Secondo gli euro-scettici, invece, l’eurozona è soltanto il tentativo dei tedeschi di crearsi un mercato protetto, usando  gli strumenti delle quote e dei divieti per uccidere le economie di tutti gli altri paesi.
I cittadini hanno sperato, sbuffato, imprecato. E prima ancora di capire chi aveva ragione si sono trovati immersi in una delle peggiori crisi economiche della storia recente.
Nei giorni scorsi The Economist  ha pubblicato un grafico che mostra le variazioni del reddito pro capite – la quantità di PIL (prodotto interno lordo) mediamente posseduta dai cittadini di un determinato Stato, in sostanza un indicatore usato per misurare il benessere della popolazione – dal debutto dell’euro sui mercati finanziari a oggi. Il grafico comprende alcuni paesi che fanno parte dell’eurozona, altri che non ne fanno parte ma che sono nell’Unione Europea, altri extra-europei. I dati sono del Fondo Monetario Internazionale. Il pil pro capite della Germania, nonostante la crisi economica e la recessione,  è salito del 20%, quello dell’Italia è calato del 3%. 
Questi sono dati, il resto sono solo parole.

grafico-The Economist

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Segnali di ripresa

Alcuni indicatori economici sembrerebbero suggerire l’inizio di una tiepida ripresa anche per l’Italia. Gli esperti non sono ancora del tutto concordi al riguardo, ma proprio in questi giorni giunge un segnale incontrovertibile. Si tratta della nuova pubblicità del mensile automobilistico alVolante. Ebbene sì, i giornali su carta esistono ancora e nonostante la violenta recessione è sopravvissuto perfino il mercato dell’automobile. Ma a confermare il ritorno a vecchie e rassicurati abitudini è soprattutto il gadget che il numero della rivista in edicola questo mese offre ai suoi lettori: il leggendario Arbre Magique, autentica icona pop dei rampanti e faraonici anni Ottanta. Rispolverate gli stereo 8 di Fausto Papetti, stiamo uscendo dal tunnel.

arbre magique

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Virzì e l’Italia profanata

il-capitale-umanoIl titolo di questo post, meglio chiarirlo subito, è preso in prestito dal libricino di Giampaolo Dossena, facente parte della Collana I Quaderni Di Palazzo Sormani, Gadda e la Brianza profanata. E con la Brianza chiudiamo qui.
Il capitale umano di Paolo Virzì presenta un microcosmo di umanità alle prese con la sopravvivenza materiale e morale. Ciò che conta non è dove risiede questa umanità; è importante invece un altro aspetto: nessuno esce vincitore. Certo, lo squalo della finanza alla fine consolida la sua ricchezza costruita sulla speculazione e perfino lo spregevole immobiliarista parvenu ottiene ciò che bramava. Ma la vera protagonista del film resta la miseria umana. Si sono sprecati i raffronti e le citazioni in questi giorni, come sempre accade quando una storia si mostra potente e fa parlare di sé. Nella vicenda umana di Giovanni Bernaschi e dei suoi soci come in quella di Dino Ossola riecheggiano lo stesso fascino perverso e corrotto e la stessa geografia della Commedia umana di Balzac. Non importa se il luogo si chiama Ornate Brianza. Comunque è quella terra di mezzo che non ha altro dio se non l’appartenenza a se stessa, altro valore che non sia il prezzo.
Quando Carla Bernaschi, la moglie del cinico speculatore, afferma: “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, il marito replica subito: “Abbiamo, cara”. Sta proprio in questo “Abbiamo, cara” la sintesi del Virzì-pensiero. Nessuno è innocente. E non solo all’interno della famiglia Bernaschi.
Fra gli italiani cresce, seppure lentamente, questo senso di correità. Francesco De Gregori, ospite lo scorso dicembre a Che tempo che fa, a Fabio Fazio che gli domandava se c’è ancora la possibilità di riparare l’Italia ha così risposto: “Questo Paese è ridotto veramente malissimo, credo che quello che dobbiamo dirci un po’ tutti è che nessuno è innocente”. L’applauso del pubblico è partito con qualche secondo di ritardo. E De Gregori ha rincarato la dose: “Non credevo di aver detto qualcosa di così popolare”.
Ne Il capitale umano nulla sfugge all’occhio attento di Virzì. Nell’intimità umana e domestica emergono i vizi di tutti, non solo quelli dei ricchi e potenti, ma anche quelli della borghesia smaniosa di ascendere e delle classi meno abbienti che non sfuggono all’imperioso mistero della miseria e della fragilità umana. Lo zio sfaccendato e scroccone che sfrutta e metti nei pasticci il nipote Luca è un omuncolo non meno spregevole del mago della finanza o dell’immobiliarista da strapazzo. Anche i personaggi minori sono mediocri e tragici nelle loro grottesche ambizioni. Sì, il regista livornese si mostra meno superficiale di Woody Allen, che nel suo Blue Jasmine tratteggia una società manichea rigidamente divisa in buoni e cattivi, poveri e ricchi. Dove i ricchi sono inesorabilmente stronzi e approfittatori e i poveri ingenui e creduloni. I personaggi che animano Il capitale umano invece non sono figurine abbozzate, bensì donne e uomini approfonditi e sofferti. Tutti inesorabilmente responsabili.
E allora chi riparerà l’Italia? Qualcuno ha voluto vedere un lieto fine. Secondo questa interpretazione la redenzione è affidata ai giovani Luca e Serena. Sarà davvero così? Pare più realistico, e coerente allo sviluppo narrativo voluto da Virzì, considerare i due ragazzi solo delle miracolose eccezioni peraltro non prive a loro volta di contraddizioni. Ma il resto dei giovani sono quelli volgari, prepotenti, maleducati e indifferenti che si agitano nel corso delle feste scimmiottando i padri e le madri. Sono loro il “futuro” di questo Paese irreparabilmente profanato.

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Federico Rampini e il senso del pudore

Federico Rampini, corrispondente per La Repubblica da New York e autore di alcuni saggi, ieri sera a Servizio Pubblico di Michele Santoro ha affermato: “Negli Usa i capitalisti rischiano. In Italia il capitalista vuole comandare senza rischiare”. Detto da uno che scrive per il quotidiano di Carlo De Benedetti francamente pare un’affermazione priva di senso del pudore

Federico Rampini

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Brianza quale?

Pietosa, stucchevole e inutile appare la polemica innescata dal nuovo film di Paolo Virzì Il capitale umano. Breve riassunto per chi (beato lui) è all’oscuro dei precedenti. Il regista livornese, presentando il suo lavoro al quotidiano La Repubblica, ha definito la Brianza come un “paesaggio gelido, ostile e minaccioso”, fatto di “grumi di villette pretenziose”, di “ville sontuose dai cancelli invalicalibili”. Apriti cielo! Il primo a mostrare disappunto attraverso le pagine del suo blog è stato Andrea Monti, assessore provinciale della Lega Nord al Turismo e Sport. Il lumbard ha definito le dichiarazioni di Virzì «uno schiaffo, se non un insulto, a tantissimi brianzoli, che hanno costruito le proprie casette, grandi o piccole che siano, con la fatica e il sudore». In seguito è intervenuto anche il presidente della moribonda provincia MB, mentre all’assessore Monti non è parso vero di avere trovato il modo di ricevere tanta visibilità, così si è gettato a capofitto in uno scambio di tweet con Virzì, prontamente ripreso dalla stampa locale. Il tenore del dialogo è il seguente.

MONTI: «Scusi, ma Paolo Virzì chi?» (replica Monti citando Matteo Renzi)
VIRZI’: «Andrea Monti si dia un contegno, lei è un uomo delle istituzioni, lasci fare il buffone a noi gente dello spettacolo. Torni a bordo, caxxo!»

Partita un po’ in sordina, la vicenda ha poi ricevuto attenzione anche dalla stampa nazionale. Oggi corriere.it ospita un intervento di Alessandro Sala, che nel cognome sembrerebbe tradire confidenza con la Brianza, ma nei fatti dimostra di non conoscerla. Il post intitolato La Brianza arrivista del livornese Virzì. Che non esiste prende le distanze dal lavoro di Virzì, cita Porta, Parini e Manzoni (ma dimentica Gadda che già 50 anni fa parlava di Brianza profanata, la pagina della Cognizione del dolore che comincia con Di ville, di ville! piaccia o no va letta come una guida agli orrori) e passa dunque a descrivere l’anima autentica di quella terra (bontà sua, Sala poteva giusto scrivere per il Corriere, del resto nel suo breve profilo ammette di gironzolare per via Solferino da quando avevo 26 anni). In un crescendo di luoghi comuni, il giornalista sostiene che «Brianza sono le grandi aziende familiari», peccato che fra gli esempi cita Valli, ceduta già nel 2008 agli svedesi, e Caldirola, passata a una cordata di imprenditori piemontesi. Ma fa anche di peggio, quando scrive che «Brianza è la Silicon Valley italiana, con il polo vimercatese che mette insieme Siemens, St Microelettronics, Alcatel, Ibm». In verità Ibm se n’è andata da tempo, Alcatel già fortemente ridimensionata minaccia di farlo da anni e quella che un tempo era stata appunto ribatezzata in modo un po’ baldanzoso la Silicon Valley italiana si sta trasformando in un arido deserto.
Insomma Virzì nelle interviste di lancio del film ha ammesso almeno di non essere un conoscitore del territorio, e Alessandro Sala (chi?) dimostra di non essere da meno. Temo che nei prossimi giorni, il film esce nelle sale solo oggi quindi finora la polemica si è retta solo sulle dichiarazioni, sentiremo parlare spesso di Brianza. La maggior parte degli opinionisti che interverranno nel dibattito probabilmente non sapranno neppure indicare dove si trova. Eppure parleranno. Ora, di tutti i luoghi comuni, quello della Brianza fatta solo di capannoni industriali e villette di dubbio gusto proprio non mi è mai andato giù. La Brianza come capitale del kitsch è diventato da anni un cliché da proporre e riproporre in tutte le salse. Senza più domandarsi cosa ci sia di vero. Senza mai chiedersi se in Piemonte, nel Veneto, in Emilia o in molta parte del meridione ci siano meno brutture. Lo si ripete e basta. Come un mantra. Perché in fondo, a forza di ripeterlo, quello dell’opulenta Brianza sfigurata è diventato uno stereotipo divertente e rassicurante, col quale si assolve tutto il resto: le città dominate dalla criminalità organizzata, devastate da scelte urbanistiche criminali, prive dei più elementari servizi pubblici, sommerse dai rifiuti, traboccanti di edifici mai terminati e strade pavimentate in modo sommario. Questo è il vero viaggio allucinante che ognuno di noi può fare attraversando l’Italia da Roma in giù, non altri.
Ai “pazzarielli del tempo passato” (è un’espressione di Brera) piace additare la Brianza come simbolo del cattivo gusto, come il luogo che riassume il peggio del nuovo ricco. Questa terra, da cui sono nati il secondo tratto ferroviario italiano e la prima associazione degli industriali, effettivamente ha pagato a duro prezzo la propria crescita tumultosa. Ma non c’è niente in Brianza di così mostruosamente brutto e volgare che non troverete in qualsiasi altra regione italiana.

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Il genio secondo Toyota

Campeggiano per le strade di Milano alcuni cartelloni pubblicitari della nuova Toyota Yaris Hybrid. Lo slogan recita: “Un’idea geniale. Come entrare gratis nell’area C”. Area C è la congestion charge che regola gli accessi nel centro di Milano. Per entrarvi è necessario attivare un titolo d’ingresso di 5 Euro. Ora, si dia il caso che la Toyota Yaris Hybrid è offerta in promozione (si fa per dire) a 15.950 Euro. A me pare più geniale recarsi in centro a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici. E chi proprio non sa rinunciare alle quattro ruote, farebbe bene ad effettuare un’accurata manutenzione della propria vecchia auto. Con la cifra di 15.950 euro (a cui naturalmente si dovranno aggiungere costi per i tagliandi, l’assicurazione e il bollo) si possono acquistare ben 3.189 ingressi. C’è di che divertirsi, non trovate? Soprattutto a guardare i geni che entreranno “gratis” con la loro nuova e fiammeggiante Yaris Hybrid.

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Verità svelate

Massimo Gramellini su La Stampa di oggi pubblica uno dei suoi Buongiorno più strampalati, surreali e grotteschi. Commentando la vicenda dell’aumento dello stipendio agli insegnanti, prima concesso e poi negato, si è così espresso:

«E un governo a maggioranza democratica può essere così autolesionista da prendere a sberle la categoria che rappresenta il nocciolo duro dell’elettorato democratico? È ciò che si è chiesta, tra gli altri, la nuova segreteria del Partito democratico».

Ma dài!? La categoria degli insegnanti costituisce il nocciolo duro dell’elettorato democratico? E chi l’avrebbe mai detto…

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C’era una volta il Corriere della Sera…

Curioso articolo quello pubblicato oggi dal Corriere a firma di Aldo Cazzullo. “La fenomenologia dell’insulto in rete”, questo è il titolo roboante, prende spunto dalla vicenda riguardante le maledizioni gli insulti seguiti alla notizia sul malore di Bersani. Non voglio dilungarmi sulla vicenda. Sono state già state sprecate sufficienti parole di dubbia solidarietà all’ex segretario del Pd, pertanto mi affido a un sincero e rispettoso silenzio. Mi interessa invece soffermarmi sulle parole usate da Cazzullo per disegnare il mondo dei social: “Nel villaggio globale, che i social network hanno nello stesso tempo dilatato e rimpicciolito, (…) tutti parlano, molti gridano, minacciano, offendono; e non si capacitano che nessuno ascolti”. Apparentemente partecipe al disagio di chi si trova solo nell’immensa piazza elettronica, l’editorialista del Corriere in realtà mostra i muscoli di chi è ancora convinto di scrivere per il più importante e diffuso quotidiano italiano e getta uno sguardo sdegnato alla plebaglia che sgomita e fatica inutilmente tra blog, pagine Facebook e frattaglie varie. Senza accorgersi che sono proprio lui e il suo giornale a dirigersi a vele spiegate verso la solitudine. Nel 1995 il Corriere della Sera vendeva mediamente 650mila copie al giorno, nel 2013 ne ha vendute 350mila. Procedendo a questo ritmo il deserto si avvicina rapidamente, se solo salisse sulla sedia della scrivania Cazzullo scorgerebbe già le prime dune. Qualcuno potrebbe obiettare che a compensare il calo delle vendite cartacee interviene la maggiore diffusione delle copie digitali. Vero, ma la media di queste ultime è inferiore a 70mila, quindi comunque la si giri il principale quotidiano italiano ha perso circa il 40% dei propri lettori. Il declino inglorioso di un giornale e dei suoi giornalisti.

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