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Non tutti i Maroni vengono per nuocere

Il presidente lombardo Roberto Maroni è arrivato a dire che “la Regione è parte lesa” nelle indagini che hanno portato all’arresto di Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, e di Pierpaolo Perez, direttore ufficio appalti. Se c’è qualcosa di leso, oltre ai cittadini lombardi, è il cervello di chi pronuncia queste parole senza pudore. Per fortuna c’è un altro Maroni, Marco, giornalista freelance, che sulle pagine de Il Fatto Quotidiano l’altro ieri ha scritto questa cosa qua Stampa, silenzi e grandi opere – Marco Maroni. Benvenuti alla mangiatoia dell’Expo, ce n’è per tutti. E non stupitevi se in giro ci sono ancora così tanti Expo-ottimisti. Nonostante i problemi organizzativi, le ombre del malaffare e i sospetti di infiltrazioni criminali. Nonostante tutto, insomma.

 

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Tempi moderni

C’è stato un tempo, assai lontano, in cui si è pensato alla politica come a un’arte nobile: la gestione della società per il bene comune di tutti. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Oggi vantiamo ministri della Repubblica che annunciano con euforia la possibilità di violare (anzi no, non si viola niente, pare) le norme senza pagare dazio. Avanti così, facciamoci del male.

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I terribilmente sopravvalutati

A proposito, Jackson Pollock rientra nella mia lista dei terribilmente sopravvalutati; insieme alla Conceptual Art, la Body-Art, i romanzi di Christina Stead, Marina Abramović, la Sinfonia n. 9 di Mahler, l’Orinatoio di Duchamp, la Merda d’artista di Manzoni, i Tagli di Fontana, tutta la produzione di Mimmo Rotella, tutti gli architetti che sono diventati famosi progettando case dove non vivrebbero mai, il Centro Georges Pompidou di Parigi, Vasco Rossi, il sushi, gran parte dell’Irlanda (Connemara escluso), La vita è bella (Roberto Begnini che vince l’Oscar contro Edward Norton in American History X. Devo dire altro?). 

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Maestri di stile? Sì, quello di Totò e Peppino

Allora, come tutti sappiamo oggi Matteo Renzi ha fatto visita ad Angela Merkel e corriere.it ha pensato bene di dare rilievo all’incontro commentando il look del premier italiano. «Renzi, gaffe nel look: il cappotto e l’abbottonatura storta» titola nel taglio alto dell’home page il sito del Corriere della Sera. Sì, in effetti Renzi si è presentato infagottato in un ridicolo cappotto per giunta abbottonato male. Ciò che lascia perplesso non è più neppure l’irrilevanza delle notizie di cui tratta il Corriere, quanto che pure nella facezia non riesce a centrare il bersaglio. Guardate le due foto sottostanti. Vi pare che il problema stia nel bottone allacciato all’asola sbagliata? O piuttosto nella ridicolaggine del cappotto da ufficiale della Wermacht? Ma chi pensava di dover incontrare Renzi, il feldmaresciallo Werner von Blomberg? E poi se proprio vogliamo buttarla sullo stile, tanto ormai in Italia sappiamo chiacchierare solo di cibo e di moda, ma chi diavolo ha tagliato questo orribile cappotto? Guardate  le maniche: o sono troppo corte quelle del cappotto o sono troppo lunghe quella della giacca. Che figura! Ma si può vestire peggio di un tedesco?!? Ebbene sì, Renzi c’è riuscito. Silvio, per l’amor di Dio, manda un sarto a ‘sto ragazzo.

RENZI ALL'ESAME MERKEL. TEDESCHI, 'PREMIER E' L'ANTI-RIGORE'Italian PM Renzi visits Berlin

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Silenzio, parla Oscar Farinetti!

Oscar Farinetti -eataly smeraldo

L’altra sera al Tg3 mi è capitato di vedere Oscar Farinetti mentre presentava Eataly Smeraldo, il nuovo supermercato del cibo che domani aprirà i battenti a Milano, proprio laddove una volta c’era il Teatro Smeraldo. Quando si parla di Oscar Farinetti è facile cadere nei luoghi comuni e usare espressioni del tipo “guru della sinistra”, “re del made in Italy culinario”, “renziano doc”. Vorrei invece ricordarlo per altri passaggi della sua carriera: agli inizi degli anni Ottanta fu segretario cittadino del Psi craxiano nella sua Alba, poi fondatore di Unieuro, la catena di centri commerciali che forse più di ogni altra ha spinto l’acceleratore sui consumi illimitati e superflui e sulla fabbrica dell’uomo perennemente indebitato e del consumatore privo di facoltà raziocinante; infine è stato inventore di Eataly, impresa nata a Torino, al Lingotto, tra polemiche che nessuno più ricorda e vuole ricordare, e presto assurta a simbolo dell’Italia che piace. Oggi Eataly, partecipata al 40% da Coop, è presente a Roma, Firenze, Genova, New York, Chicago, Tokio. Da domani sarà appunto anche a Milano. I negozi Eataly sono considerati luoghi di culto, dove non ci si limita a comprare acciughe e caciotta, ma si vive un’esperienza, ci si istruisce, si studiano le nostre radici. A me, come forse ad altri, Oscar Farinetti è sempre parso molto furbo. Un uomo che sa  coltivare le amicizie giuste e fare buoni affari, assai abile poi nel spacciarli per operazioni intrise di cultura e interessi diffusi. L’altra sera, al Tg3, ha un poco esagerato, ma è nel suo stile. Con un calice di vino bianco nella mano sinistra, di fronte al microfono di un cronista compiacente ha srotolato il suo credo: «La nostra non è una catena, aborro i luoghi tutti uguali. Questo (riferendosi al luogo su cui sorgeva il Teatro Smeraldo) è il luogo dove lo spettacolo del cibo può incontrare quello della musica. Le foto di Celentano, Mina, Gaber, Jannacci, ricordano la storia di questo teatro, fondato nel 1942, dove sono passati tutti i più grandi». Già, e dove non passeranno più, perché d’ora in poi al posto del palcoscenico e delle poltroncine rosse ci saranno scaffali colmi di pecorino e prosciutto pepato. Insomma un luogo che evoca  le corsie di un autogrill più che la sala di un teatro. L’indomito Farinetti ha pure aggiunto con tono afflitto che «l’Italia è un Paese strano, dove chiudono le librerie e i teatri». Be’ dove ce n’era uno, lui si appresta a vendere salumi e mozzarella. Comunque migliaia di milanesi e di turisti si metteranno in coda, perché non visitare Eataly è impensabile. Magari potranno evitare di entrare al Refettorio di Santa Maria delle Grazie per osservare il Cenacolo, scanseranno la Pinacoteca Ambrosiana e anche quella di Brera, ma Eataly non se lo perderanno. E la stampa celebrerà il successo di questo imprenditore illuminato che ha saputo coniugare le espressioni migliori del nostro Paese: la buona cucina e la cultura. Per quanto riguarda quest’ultima sarà sufficiente esporre un po’ di libri qua e là, tra un tocco di taleggio e una triglia, e invitare qualche nome altisonante ad esibirsi nelle giornate inaugurali. Si apre domani, mettetevi in coda, siori e siore! Oscar ha scelto non a caso il 18 marzo, data in cui si rievoca la prima delle Cinque Giornate di Milano. Perché lui vorrebbe che questo progetto facesse parte del nuovo Risorgimento italiano. Del resto un tempo inondavamo il mondo con le arie di Verdi, oggi, se va bene, con il prosciutto di Parma. Quello autentico, non contraffatto.

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La biblioteca di Babele

La_Biblioteca_di_Babele“M’inganneranno, forse, la vecchiaia e il timore, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”.

La biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges

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“Nel letto di Lucia”, gioiello satirico e irriverente di Rino Gaetano

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Rino Gaetano era una supernova. Lo so, l’ha già scritto Andrea Scanzi, ma è sempre meglio ripetere le parole intelligenti di qualcun altro che essere imbecilli nell’originalità. Rino Gaetano era una supernova e la gran parte di noi ha impiegato anni per comprendere la sua luminosità. Molti, pensando di dire una cosa sensata, hanno scritto: Rino Gaetano merita davvero un posto accanto ai più grandi esponenti della canzone italiana. In realtà l‘ironia e l’intelligenza dei suoi testi non hanno eguali e la denuncia sociale che si cela dietro le sue filastrocche è ancora attualissima. L’Italia grottesca in cui viviamo è raccontata nelle strofe di Rino Gaetano più che in quelle di tanti osannati colleghi viventi. Vorrei ricordarlo con una canzone nota, anche se non compare nel novero di quelle celeberrime: Nel letto di Lucia. Rino aveva intuito già tutto. Riascoltarlo oggi fa una certa impressione, perché sembra un veggente più che un cantautore. Il giaciglio di Lucia è un caravanserraglio di ministri, scaldapoltrone, reggimoccolo, colonnelli, sanfedisti, vecchi santi e chiromanti. Chi vuol capire…

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Alleviamo Gattopardi

Ammazziamo il Gattopardo è un titolo roboante e riuscito, occorre riconoscerlo. Ma il nuovo libro di Alan Friedman  è soltanto un’operazione commerciale mascherata da scoop giornalistico. Tutto, ma proprio tutto puzza di bruciato. A partire dall’editore. Ma vi pare possibile che un libro dai contenuti davvero dirompenti, o addirittura rivoluzionari, venga pubblicato dalla casa editrice più compromessa e collusa con le classi dominanti e le strutte economiche e imprenditoriali manovrate da quelle stesse classi? Il Gruppo RCS è la “voce del padrone” e il suo quotidiano, il Corriere della Sera, lo stesso che, neppure tanto abilmente, ha distillato anticipazioni a scopo promozionale del libro di Friedman, è un’istituzione, è “la riserva editoriale della Repubblica italiana”.  Anzi è ancora qualcosa di più: è la casa dell’imprenditoria nostrana. Come è noto il Corriere non ha un editore, ma tanti azionisti di riferimento (tra gli altri Fiat, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Generali, Pesenti, Pirelli, Rotelli, Della Valle, Merloni, Unipol). Dentro al Patto di Rcs, che  ha ufficialmente governato il Gruppo dal 1984 fino allo scorso ottobre, Giovanni Bazoli, presidente di sorveglianza e padre di Intesa Sanpaolo, la prima banca d’Italia, azionista di maggioranza di Bankitalia, ha rappresentato (e tuttoggi rappresenta) il custode di un potere che parte dagli anni in cui c’era ancora l’Avvocato Agnelli e Fiat in Italia faceva il bello e il cattivo tempo e arriva ai giorni nostri, quello dello strapotere degli Istituti bancari e assicurativi. Ecco, domando un po’ a malincuore ai lettori che hanno tributato applausi soddisfatti al libro: ma davvero avete creduto, o peggio continuate a credere che vi siano state svelate verità fino a questo momento taciute? Davvero credete che dallo stesso allevamento che ha cresciuto, custodito e sfornato Gattopardi a ripetizione, piazzandoli nei gangli vitali della vita pubblica e privata italiana, sia improvvisamente sfuggita la pecora nera? Poveri illusi. Se provate a guardarlo da questa prospettiva, vi renderete conto che il titolo scelto da Friedman per il suo libro appare piuttosto irriverente, per non dire peggio, nei confronti di chi lo acquista e lo legge.
Il miglior commento a questa maldestra operazione commercial/editoriale l’ha twittato qualche settimana fa @fridaipse: “Ci dà lezioni di democrazia anche il doppiatore di Ollio, siamo davvero alle comiche”.
  

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Un piccolo mondo di egoismo, il nostro

Ogni mattina nuove notizie riempiono le nostre giornate.
Appena alzati, la radio o la Tv ci informano di un attentato in Afghanistan, o era il Pakistan? Mah… Nel frattempo sentiamo il profumo del caffè e freschi di doccia scivoliamo in cucina dove ci aspettano fragranti croissant.
Saltiamo in auto, ancora la radio: nuovi venti di guerra in Medio Oriente. Un drone di Hezbollah ha sorvolato la Palestina occupata, l’esercito israeliano ha reagito… Suona il cellulare, il primo appuntamento è stato rimandato alle dieci. Bene, possiamo prendercela con un poco più di calma. Dove eravamo rimasti? Ah sì, Israele… Eh no, ora si parla di un’immensa discarica abusiva di rifiuti elettronici rinvenuta in Costa d’Avorio. Le sostanze inquinanti hanno già contaminato il suolo, l’aria e l’acqua, chiarisce lo speaker…
Mah, accidenti la strada è bloccata, deve essere successo qualcosa. Tanto vale fermarsi all’edicola, di fianco c’è anche il bar, ci sta un altro caffè prima di cominciare la giornata. Apriamo il giornale, il solito incidente sul lavoro. Dove? In Bangladesh. Fra le vittime ci sono anche ragazzini, che vergogna! Leggiamo distrattamente… Esattamente dove si trova il Bangladesh?
Mentre sorseggiamo il secondo caffè il pensiero corre al cliente che incontreremo fra poco: un tipo tosto, che non ama troppi salamelecchi, per convincerlo a firmare occorrerà essere concreti. E allora è meglio affrettarsi, così magari prima di riceverlo ripasseremo le carte.
La mattinata scorre veloce, tra appuntamenti, strette di mano e telefonate. Alla pausa del pranzo decidiamo di staccare con le chiacchiere e ci rifugiamo nella solita tavola calda dove tutti si conoscono, ma quasi nessuno si parla. Mangiamo un po’ troppo frettolosamente (eppure il medico ce l’ha detto che dobbiamo masticare bene, sennò poi lo stomaco…) e riapriamo il giornale. Pannella digiuna per le condizioni drammatiche in cui sono costretti a vivere i carcerati… Come? Ancora?
Passiamo alle pagine sportive, e l’occhio cade su un titolo: “Cina, allenamenti shock sui bambini-atleti”. Il servizio è accompagnato da foto che ritraggono piccoli in lacrime costretti a duri esercizi di perfezione, una specie di reclusione che allontana dal gioco e da un’infanzia serena. Squilla il cellulare, è nostra figlia.
– Ciao tesoro, che c’è?
– Sto tornando da scuola, papà. La mamma mi ha detto che oggi devi venire tu a prendermi in piscina. Ricordarti, eh!
– Sì, sì, non ti preoccupare… Ah, tutto bene con gli allenamenti? Pronto? Mi senti?
Niente, ha già riattaccato. Il resto della giornata ci riserva qualche scocciatura con un fornitore in ritardo, la solita riunione inutile e l’ultima telefonata, quella della segretaria del direttore, che con toni un po’ bruschi ci convoca per la mattina successiva. Che vorrà? Boh, ci penseremo domani.
La sera ci attende fra le sicure mura domestiche. E stretti in questo caldo pensiero sfiliamo senza accorgercene di fianco al solito lavavetri rompiscatole.
Siamo un piccolo mondo di egoismo, chiusi nel nostro particolare. Intanto il mondo fuori bene o male continua a girare.

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La grande bellezza insegna: per vincere basta esportare la nostro decadenza

La grande bellezza

A ben pensarci non c’è alcun motivo, come italiani, di esaltarci per il successo ottenuto all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, dal film diretto da Sorrentino, La grande bellezza. Lascio a chi è più competente i giudizi sull’opera cinematografica. Non m’interessa in questa sede dibattere se è un lavoro presuntuoso o meno e se è vero che il regista si compiace un po’ troppo per le tantissime citazioni letterarie di cui è imbevuto il film. Vorrei concentrarmi solo sulla storia raccontata.
La grande bellezza rimanda al tempo perduto, sprecato, quello che non può più tornare. C’è l’amore finito del protagonista, sperimentato nell’età più dolce della sua vita. L’amore a vent’anni, vissuto intensamente, ma che improvvisamente si è spezzato e non è stato mai più ritrovato. E c’è il fascino sfarzoso e unico di Roma, capace di provocare una vertigine nell’osservatore. Ma questo fascino apparente immortale deve fare i conti con le brutture dell’Italia odierna.
È in questo passaggio che La grande bellezza diventa spietata e mostra come l’italianità degli ultimi decenni si alimenta solo del proprio passato, perché è incapace di produrre qualcosa di originale, figuriamoci di rivoluzionario. Roma e con essa gran parte del Paese vivono sulle vestigia di un passato del quale noi non abbiamo alcun merito. Tutta questa bellezza l’abbiamo ereditata. E tutto ciò che abbiamo saputo fare è stato di attribuire a noi stessi una grandezza che non ci appartiene. Non ce la meritiamo, perché non abbiamo fatto nulla per proseguire lo straordinario processo creativo, anzi lo stiamo divorando. Forse per questo siamo così arroganti e maleducati, soprattutto all’estero, perché viviamo di una luce riflessa che ormai si sta spegnendo. Presuntuosi senza alcuna ragione.
Il film di Sorrentino parla di questo, non illudiamoci. Anche se a tratti può apparire indulgente con le specifiche di oggi, in realtà racconta un’italianità mediocre, lontana dal suo antico prestigio, approfittatrice, prepotente e volgare. E da fuori gli stranieri ci vedono proprio così. Con quel misto di deferenza per il nostro passato e dileggio per il nostro presente. Come quando si guarda un ragazzino rimbambito, ma figlio di un grande imprenditore, e lo si rispetta perché suo padre è stato un genio. L’immagine che si ha di noi è quella delle nostre piazze, i nostri monumenti, i nostri siti archeologici, la nostra cucina tradizionale, tutte cose per le quali nel presente non abbiamo alcun merito.
L’Italia raccontata dal film di Sorrentino è rassicurante, soprattutto per chi ci guarda con spirito di colonizzazione. È il Paese della decadenza presuntuosa e dell’imbroglio, delle mazzette e dei nobili decaduti, dove non è quasi più possibile distinguere il vero dal falso. Ma è anche il luogo che ancora custodisce la «grande bellezza» di chiese e palazzi, di fronte alla quale ogni turista dell’altro mondo si emoziona e dimentica le nefandezze.
Ecco perché il plauso americano intorno al film di Sorrentino non ci deve esaltare.

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