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Pompei: da parcheggio per disoccupati a parcheggio per scooter

scooter scavi pompei

La foto l’avrete già vista, ma nel caso vi sia sfuggita ve la ripropongo. Ritrae uno scooter parcheggiato in via delle Tombe, all’interno degli scavi di Pompei. Questa immagine non è soltanto l’emblema di una grande area archeologica abbandonata, senza futuro, è lo specchio di un Paese intero. Nel maggio 2012, Le Monde titolò «Silenzio, Pompei si spegne». I permalosissimi custodi del presunto buon nome dell’Italia, gli stessi che magari parcheggiano in doppia fila, saltano le code appena possono o si fanno prescrivere una tac per il giorno dopo grazie ai favori dell’amico primario, avevano tuonato istericamente contro lo snobismo intellettuale francese. L’allora ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, uno dei peggiori della storia repubblicana, ma lo si potrebbe dire di chiunque altro (…Antonio Gullotti, Carlo Vizzini, Vincenza Bono Parrino, Ferdinando Facchiano, Sandro Bondi, Giancarlo Galan, Massimo Bray, Dario Franceschini… scegliete voi) con l’esclusione di Antonio Paolucci, in risposta a Le Monde formulò parole rassicuranti spiegando che «è oltre mezzo miliardo di euro quanto il Governo ha messo a disposizione di quell’area di particolare interesse culturale ed economico che è Pompei per un suo rilancio a partire dal rapporto cultura-sviluppo». E dove sono finiti? Chi ce lo può spiegare una volta per tutte in quali tasche sono finiti i soldi destinati nel corso dei decenni al risanamento e al consolidamento di questa area archeologica di valore universale? A Pompei non si vede neppure l’ombra di uno spazzino e da sempre circolano indisturbati branchi di cani randagi. Capite che siamo ben lontani dall’applicare una seria e competente politica di conservazione e valorizzazione del nostro preziosissimo patrimonio?! La ricorrente e beffarda mediocrità dei ministri dei Beni culturali italiani ha partorito montagne di vuote dichiarazioni, promesse, vaniloqui. I governi repubblicani hanno trattato la cultura come l’ultima delle loro priorità. Un parcheggio per figure maledettamente mediocri. Massimo Bray, portato in palmo di mano da molta stampa nazionale, ha trascorso i suoi dieci mesi da ministro rilasciando dichiarazioni come se fosse stato un opinionista anziché un uomo di governo con le responsabilità che ciò comporta. Rilasciare commenti e andare in TV a raccontare questo e quel disastro, quasi che la cosa non riguardasse il ministro di turno, è meschino oltre che mediocre. Ma noi italiani non sappiamo più imbarazzarci per le nostre miserie, neppure di fronte a un governante di una mediocrità conclamata o a uno scooter piazzato nel mezzo degli scavi di Pompei. Ma sì, quanta inutile indignazione! Sarà stato di Pasquale, il cognato di Ciro, che si è fermato solo un attimo per portare un pezzo di pizza ad Antonio…

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Come galline senza testa

Dl Irpef: Padoan al Colle per ulteriori chiarimentiLa lotta all’evasione sarà una delle “priorità” del semestre europeo a guida italiana. Così ha cantato oggi la gallina Padoan. C’è davvero da domandarsi cosa passa per la testa del ministro dell’Economia quando rilascia simili dichiarazioni. Riassumiamo per i disattenti. Secondo i più recenti dati disponibili, l’Italia è maglia nera assoluta nell’Unione Europea per evasione fiscale. Oltre un anno fa il presidente della Corte dei Conti, citando dati Ocse nel corso di un’audizione alla commissione Finanze del Senato, parlò di un’Italia che “si colloca ai primissimi posti della graduatoria internazionale”, alle spalle solo di Turchia e Messico. Uno studio realizzato dall’autorevole organizzazione Tax Reserach di Londra sulla base del Pil 2009 indicava che in Italia il sommerso equivale al 27% dell’intero Prodotto interno lordo nazionale; in Germania si ferma al 16%, in Francia al 15%, nel Regno Unito al 12,5%. Ora, quale può essere la credibilità di un uomo politico nostrano che va dicendo in giro che la lotta all’evasione sarà una delle “priorità” del semestre europeo a guida italiana? La stessa di un tedesco che dichiara di voler diffondere in Europa la cultura gastronomica. Anzi, meno ancora, visto che la Germania ci ha superati perfino nel cibo stellato: nell’edizione 2014 della celebre Guida Michelin i ristoranti tedeschi con tre stelle sono saliti a 11, contro gli 8 italiani.

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Fuori Salone FUORI DALLE PALLE

Questa settimana a Milano c’è il Salone del Mobile, i più ‘cool’ lo chiamano Design Week. E poi c’è il il Fuori Salone, cioè quello che anima i principali quartieri della città. Cos’è il Fuori Salone? Il palco per chiunque abbia qualunque cosa – armadi, tavoli, sedie, letti, cessi, cibo, lavapiatti, e poi anche installazioni artistiche (?), musica, servizi, elettrodomestici, auto – da esporre e, sopratutto, da vendere. Tutti espongono tutto e tutti vendono tutto, però condendo le loro proposte con espressioni che dicono e non dicono, riempiono l’aria e fanno chic: tra tradizione e innovazione, valorizzazione dei territori, eccellenze, experience, contaminazione, narrazione, sensoriale. Ecco un estratto di un comunicato per il lancio di un’attività del Fuori Salone 2014:

“Creazioni di luci dai tratti essenziali ed eleganti, stravaganti elementi d’arredo luxury fino agli accessori dalle forme geometriche piuttosto che dal tocco vintage mescolato a linee classiche sono alcune delle peculiarità delle opere  che animano l’ambiente”.

Ci avete capito qualcosa? No? Bene, allora siete i frequentatori perfetti del Fuori Salone. Tanto lì è importante esserci, non capire.

Quest’anno una delle espressioni più usate dagli uffici stampa e dai geni della comunicazione per promuovere i vari eventi  è, manco a dirlo, La Grande Bellezza. Appare un po’ ovunque nei comunicati, perfino per descrivere componenti per bagno.

Altro tema forte dell’edizione 2014 è il ‘food’, guai a chiamarlo cibo! E allora vai con catering, banqueting, finger food, aperitivo rinforzato, apericena e showcooking con lo chef stellato di turno .

Quando si parla di design siamo tutti ‘update’ e ‘cool’. Poco fa l’edizione della Lombardia del Tg3, in un lungo marchettone pro Fuori Salone, ha avuto l’ardire di presentare un concorso indetto per disegnare il kit del pellegrino, destinato a quanti intenderanno percorrere in futuro la Via di Francesco. Roba da non credere, eppure eccolo qui, al minuto 10 e 27 secondi di questo video http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-aed7dd21-863f-48bf-86c0-2d9ea119d781-tgr.html#p=0

Spiegano i promotori, con un mirabile compendio di aria fritta, che il design è ‘trasversale’ e ‘strategico’. Ah, se Francesco d’Assisi avesse avuto il suo ‘lunch box’ quel giorno sul monte della Verna…

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Maratona di Milano versus Maratona di Parigi. La grandeur e la tristesse

A Milano domenica scorsa si è disputata la 14esima edizione della Maratona, un evento sportivo che in ogni angolo del mondo si trasforma in una festa colorata, non solo per chi corre ma anche per chi vi assiste, mentre nel capoluogo lombardo si trasforma in un’eterna lotta tra i podisti e gli automobilisti. Qualche anno fa, nel disperato tentativo di attenuare l’impatto della manifestazione sulle vie cittadine, è stato deciso dagli organizzatori di trasferire la partenza nell’area fieristica di Rho-Pero. Grazie a questo colpo di genio quasi metà della gara viene corsa lungo anonime strade di avvicinamento a Milano e altrettanto anonimi viali di periferia. Gli stessi organizzatori, arrendendosi all’evidenza, ossia che le iscrizioni non aumentavano di anno in anno, anzi semmai calavano, al contrario di ciò che accadeva altrove, si sono inventati le staffette: squadre composte da 4 partecipanti che correndo circa 10 km ciascuno completano il percorso della maratona lungo 42,195 km. Un’iniziativa che ha il lodevole intento di avvicinare alla corsa anche chi non ha nelle gambe le lunghe distanze, ma che nulla ha a che fare con un’autentica maratona e soprattutto con lo spirito di questa disciplina che ha proprio nella fatica e nella sfida alla sofferenza e alla resistenza la sua stessa ragione di esistere. Risultato: a Milano la maratona non decolla, gli iscritti restano sempre pochi e anche l’aspetto agonistico della manifestazione latita poiché gli atleti di élite preferiscono partecipare a gare più blasonate. Per comprendere la modestia della gara milanese può essere utile fare qualche raffronto con la Maratona di Parigi che tradizionalmente si disputa lo stesso giorno dell’anno. Cominciamo dai numeri. A Parigi domenica scorsa hanno tagliato il traguardo 39.115 maratoneti, a Milano 3.551 (meno del 10%). A Parigi ha gareggiato e vinto Kenenisa Bekele, tre volte campione olimpico e cinque volte campione del mondo nei 5.000 e 10.000 m. A Parigi la gara parte dagli Champs-Élysées, con veduta verso l’Etoile con l’Arco di trionfo, e si dirige verso il centro attraversando Place de la Concorde con il suo obelisco. A Milano, come già detto, la gara parte fra i padiglioni della Fiera di Rho-Pero (che senza ricorrere all’iperbole di Grillo “ma chi c..zo ci viene a Rho?”, è oggettivamente un’area dal fascino assai modesto) e si dirige verso viali desolati fra cantieri, svincoli, autostrade e ferrovie. A Parigi lungo le strade della città si animano circa 100 spettacoli musicali. A Parigi, sempre lungo le strade, gli abitanti e i turisti si radunano a migliaia per salutare, festeggiare e incoraggiare il passaggio dei maratoneti. A Milano, salvo alla zona di arrivo, si corre fra la disattenzione assoluta dei cittadini; al più si ricevono gli insulti degli automobilisti spazientiti e maleducati. A Parigi tutto il percorso è riservato esclusivamente ai podisti; a Milano in alcuni tratti i podisti sono costretti a condividere metà della strada con le automobili. Serve aggiungere altro? Non credo. Ah, se non abitate a Milano e ieri avete letto qualche articolo sulla Gazzetta dello Sport o sul Corriere della Sera in cui si celebra la splendida festa della Maratona di Milano, non dimenticate che RCS è l’organizzatore della manifestazione.

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Ogni popolo ha i quotidiani che si merita

Corriere.it ha rinnovato la veste grafica, ma non la linea editoriale. Ecco alcuni titoli (accompagnati da foto pruriginose) dalla homepage di oggi:

Nymph()maniac? I tagli e il sesso. Le cinque cose da sapere

Neoquarantenni a confronto, chi li porta meglio?

Alessia Marcuzzi e Paolo Calabresi, baci in pubblico

Cameron, Leslie e la «palpatina» sul red carpet

Mi piace: il lesbian kiss aiuta la carriera

Gran Bretagna: cerca l’iPhone in un tombino, rimane incastrata

Elle Macpherson: fisico da top a 50 anni

Aiuto! Consegnare prima possibile copiose dosi di bromuro in Via Solferino.

 

 

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I gusti di Renzi e degli italiani

Che poi il problema non è neppure di stabilire se Dolce e Gabbana sono evasori condannati come tali o soltanto dei furbacchioni che aggirano il fisco senza violare la legge. Il problema è ciò che rappresentano, ossia uno stile italiano fatto di zigomi turgidi, labbroni, muscoli esibiti, mutande esibite, tutto esibito, tacchi da tariffa postribolare, abiti e accessori maculati, sfolgorii sparsi, markettoni patinati. Insomma, un’Italia da Oscar della volgarità. Che tuttavia ad alcuni piace…

SelfieRenziDolce&Gabbanadolce-gabbana

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Renato Bazzoni. Tutta questa bellezza

Ieri, nel giardino di Villa Necchi Campiglio a Milano è stato presentato il libro intitolato Tutta questa bellezza. Si tratta di una raccolta selezionata degli scritti di Renato Bazzoni, edita da Rizzoli e curata da Antonella Cicalò Danioni. Renato Bazzoni (1922-1996), architetto, urbanista, paesaggista, fotoreporter e molte altre cose ancora, oggi è ricordato soprattutto per essere stato l’ideatore del Fai-Fondo Ambiente Italiano. Di lui ho parlato in questo post un anno fa, denunciando l’assurdo silenzio che il nostro Paese ha riservato alla sua nobile figura. L’iniziativa editoriale voluta dalla moglie Carla, che ha messo a disposizione l’archivio privato, sostenuta dal mecenatismo del prof. Egidio Marazzi e promossa dal Fai, ha in parte colmato questa lacuna. Renato Bazzoni Tutta questa bellezzaGli scritti scelti per questo libro mostrano innanzitutto la modernità del pensiero di Renato Bazzoni. Durante la presentazione, la curatrice del libro, entusiasta ed emozionata, ha sottolineato alcuni passaggi con cui Bazzoni commentò la crisi economica scaturita dallo schock petrolifero del 1973: il futuro fondatore del Fai confidava già allora che l’umanità sapesse approfittare della recessione per recuperare valori e principi perduti, come il rispetto della terra e un’economia più solidale. Sembra quasi superfluo annotare l’assonanza con le parole usate da molti opinionisti e commentatori in questi anni di profonda e violenta crisi, prima finanziaria e poi economico-produttiva.
Fra gli interventi che hanno scandito la conferenza è parso particolarmente centrato quello dell’attuale presidente del Fondo Ambiente Italiano, Andrea Carandini. Pur ammettendo pubblicamente di non avere mai avuto occasione di frequentare colui che fu l’iniziatore dell’avventura e che per due decenni ne è stato pensiero e muscolo, ha dimostrato di averne colto appieno lo spirito quando ha affermato che «Renato Bazzoni aveva la capacità di intraprendere fatti e non solo di denunciare misfatti». La laconicità del pensiero sintetizza in modo mirabile la stessa essenza del Fai. Sta proprio in questo la straordinaria e lungimirante intuizione di Bazzoni: a metà degli anni Settanta, in Italia non erano più sufficienti l’azione di denuncia, la protesta e l’indignazione.

Renato Bazzoni con Sandro Pertini

In una delle foto pubblicate in “Tutta questa bellezza” appare Renato Bazzoni con il presidente Sandro Pertini alla mostra “National Trust/Fai: esperienze a confronto”, 1984.

Con spirito pragmatico egli mise la cultura accanto alla disponibilità economica, sperando che in qualche modo avvenisse un’impollinazione incrociata. E il seme attecchì. Nel corso della serata, altri hanno ricordato come da quell’intuizione sia nata una realtà che oggi conta centinaia di collaboratori, migliaia di volontari e soprattutto un nucleo di beni architettonici e naturali strappati all’incuria e al degrado e restituiti al pubblico italiano e non solo. Un autentico miracolo in questo Paese che cade a pezzi sotto i colpi degli scandali, dell’abusivismo e dell’abbandono. Di Renato Bazzoni sono stati ricordati anche il contagioso entusiasmo e l’inconsueta generosità. Prova di quest’ultima resta il fatto che, a differenza di molti altri che hanno usato l’impegno ambientalista come trampolino di lancio per approdare ai più confortanti e soprattutto remunerativi scranni del Parlamento o dei consigli di amministrazione di grandi società pubbliche e private, Bazzoni è rimasto fino all’ultimo giorno della sua esistenza seduto alla scrivania della sua amata creatura, il Fai. Con il suo stipendio modesto, la sua utilitaria, il suo guardaroba dimesso e la sua semplice abitazione, che guardacaso era proprio di fronte gli uffici della Fondazione, quasi a volere perpetuare quella consuetudine di casa-bottega propria dei lavoratori indefessi, degli uomini che sanno intraprendere.
Riguardo all’entusiasmo contagioso credo che chiunque lo abbia conosciuto possa citare numerosi episodi. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta ho accompagnato Renato Bazzoni in giro per l’Italia a spargere i semi della speranza. Pochi ancora conoscevano il Fai, ma studiosi e imprenditori illuminati organizzavano conferenze nelle proprie città offrendogli la possibilità di illustrare il suo progetto. Bazzoni aveva moltissimo da raccontare e quando parlava produceva un magnifico fragore. Era convincente. La gente lo adorava. Alcune delle donazioni ricevute dal sodalizio negli anni successivi si devono a quegli incontri. Appena trentenne, io ero poco più di un ragazzo di bottega. Preparavo gli eventi, organizzavo gli spostamenti e alla fine sedevo in platea ad ascoltarlo insieme a tutti gli altri . Spesso i nostri erano autentici tour de force. Si partiva nel tardo pomeriggio da Milano, si raggiungeva la città di destinazione in serata e dopo la conferenza il più delle volte si ripartiva immediatamente perché l’indomani mattina c’erano nuovi appuntamenti che ci attendevano in ufficio. Accadde così anche quella sera a Lucca: partenza alle cinque del pomeriggio dopo una giornata di lavoro, viaggio con una breve sosta per rifocillarci, quindi l’incontro pubblico. Non si finiva mai presto, perché la gente era incuriosita, voleva saperne di più, poneva domande e lui con pazienza rispondeva a tutti, convinto che dietro a ciascuno di quei volti poteva celarsi un forte donatore o comunque un futuro grande amico del Fai. Erano già passate le undici di sera quando stavamo per rimetterci in viaggio. Non saremmo rientrati a casa prima delle due di notte, anche più tardi. Eppure già sapevo che lui, sebbene avesse quarant’anni più di me, sarebbe stato di nuovo in ufficio al mattino presto. «Peccato» mi disse mentre ci stavamo accomodando in automobile, «siamo a poche centinaia di metri da una delle più belle piazze italiane e ce ne andiamo ignorandola». «Quale piazza?» domandai rivelando senza pudore la mia ignoranza. Smontò dalla vettura e senza offrirmi possibilità di replica mi disse: «Andiamo a vederla, disgraziato!».
Renato Bazzoni era fatto così, non perdeva mai l’occasione per spargere i semi della bellezza, anche quando il terreno che aveva di fronte appariva arido. Ecco perché il titolo di questo libro – Tutta questa bellezza – suona quanto mai appropriato. La curatrice, Antonella Cicalò Danioni, ha voluto chiarire che era stato scelto ben prima che esplodesse il fenomeno de La grande bellezza, il film con cui Sorrentino ha riportato l’Oscar in Italia. Ha spiegato che attinge nientemeno che al teatro di Samuel Beckett, a quella che
 dalla
 critica
 è
 riconosciuta
 all’unanimità
 come
 la
 sua maggiore opera
  – Finale di partita dove Hamm, il cieco sopravvissuto alla guerra nucleare, affacciandosi alla finestra esclama: «Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza!». Che in Renato Bazzoni ci fosse anche una lucida follia è possibile. Del resto sono le persone con queste caratteristiche che di solito sanno guardare un passo più avanti di tutti gli altri. Ma è certo invece che pochi, pochissimi altri in Italia meritano quanto lui di vedere accostato il proprio nome al sostantivo femminile “bellezza”.

RenatoBazzoni - Fondo Ambiente Italiano

Renato Bazzoni nella chiesa del Monastero di Torba, la prima proprietà acquisita dal Fondo Ambiente Italiano, dove oggi sono tumulate le sue spoglie