Non ha importanza sapere se Flaubert abbia mai pronunciato veramente la celebre frase “madame Bovary c’est moi”. Verità storica o falso letterario che sia, l’affermazione è comunque felice, perché racchiude quel processo simbiotico che deve avere inevitabilmente accompagnato l’autore durante il lavoro. Una simbiosi che si manifestava anche in una sofferenza fisica di cui Flaubert più volte parla alla sua Luoise Colet. “Ah la Bovary! Me ne ricorderò! Mi pare che sottili lame di temperini mi penetrino nelle unghie e ho quasi desiderio di digrignare i denti”, scrisse dal rifugio di Croisset. E ancora, in un’altra lettera buttata giù alle due di notte: “ Dalle due del pomeriggio sono con la Bovary. (…) sudo e ho la gola chiusa. (…) quando ho scritto quella frase ho avuto un attacco di nervi, ero così fuori di me, sbraitavo così forte, sentivo profondamente quel che la mia piccola donna provava”. Solo questo procedimento maniacale poteva portarlo a descrizioni di una intensità profonda e audace al tempo stesso: quando si incontra con Léon in albergo, Emma si sveste “brutalmente”, strappando il legaccio sottile del busto, che le vibra attorno ai fianchi “come una biscia che scivoli”. E al lettore pare di sentirlo il sibilo.
Sartre ha scritto che in Madame Bovary Flaubert si è travestito da donna. Vi è del vero in questa affermazione, perlomeno se la si vuol interpretare nel senso che Emma è la donna, così come la creerebbe un uomo, animal pur. Baudelaire, grande ammiratore dell’opera, sostenne, invece, che Flaubert, incapace di svestirsi della sua identità sessuale e di farsi donna, infuse il suo “sangue virile” nell’eroina. È così che Emma si eleva a donna ideale, almeno per l’uomo, dotata di ambizione, immaginazione e furore erotico. È così che si ottiene un’inversione del prodotto, e che i difetti della signora Bovary diventano qualità. Come Pallade armata, uscita dal cervello di Zeus, l’eroina flaubertiana conosce tutte le seduzioni di un’anima virile in un piacente, affascinante corpo di donna.
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Vivere con i libri #6 La musica della vita nei romanzi di Paula Fox
Per una vita è stata una outsider, un’autrice perlopiù ignorata, dalla critica e dal pubblico. Poi un giorno Jonathan Franzen ha parlato di lei definendola la maggiore scrittrice nordamericana vivente. Così Paula Fox a più di ottanta anni si è presa la rivincita ed è diventata un caso letterario. Anche l’editoria italiana, che non brilla certo per coraggio e lungimiranza, ha seguito l’onda. Dopo Quello che rimane, considerato il capolavoro della Fox, è questo il romanzo elogiato da Franzen, è stato ripubblicato Il segreto di Laura (datato 1976) e via via Fazi ha tradotto anche gli altri titoli. Paula Fox è maestra nella descrizione dei rapporti famigliari, forse grazie alla sua travagliata esperienza personale, raccontata in un’appassionante biografia, Borrowed Finery, che ha contribuito a fare di lei un personaggio di culto. Jonathan Franzen ha scritto che Quello che rimane è superiore ai romanzi di autori come Updike, Roth, Bellow. “Credo che Franzen abbia esagerato, che abbia usato un metro di giudizio poco “letterario”. Non mi sento per nulla a mio agio con quelle parole. E comunque non penso che la competizione letteraria sia molto sana, se non altro perché ora probabilmente mi sono guadagnata l’odio di tutti gli autori citati da Franzen. Dopo aver letto quelle parole sono stata lusingata per circa cinque minuti, poi sono tornata a scrivere” ha dichiarato la Fox anni fa in una delle rarissime interviste apparse in Italia (Corriere della Sera, 2004). I suoi libri, scritti negli anni Settanta, sono ancora molto attuali, profetici direi. Del resto, come ha detto lei stessa, “gli elementi più profondi della nostra esistenza, quelle note che formano la musica della vita, non cambiano nel corso dei secoli (…) Prendete la violenza familiare di cui parlo nei miei libri. Ed è inutile sforzarsi di dire cose nuove: Socrate e Aristotele hanno già detto tutto”. In Quello che rimane la protagonista, Sophie, viene morsa da un gatto randagio, episodio che minaccia di far franare tutto il castello perfetto della sua vita. È uno spunto autobiografico? “Sì. Il mio morso era molto meno serio di quello di Sophie ma è da quell’esperienza che è scaturita l’idea – ha commentato la scrittrice nella stessa intervista. – Proust parlava di un’antica tecnica giapponese che consisteva nel buttare dei pezzettini di carta in un vaso pieno d’acqua e osservare le forme infinite che quei coriandoli assumevano assorbendo l’acqua, diventando, sulla base dei nostri ricordi, case, persone, eventi”. La Fox ha avuto un’infanzia molto difficile. I suoi genitori prima la misero in un istituto, poi l’affidarono ad altre persone. “Il concetto di famiglia mi è sempre stato estraneo – ha spiegato. – Non sono mai appartenuta a nessuna famiglia che si possa definire tale, ed in questo senso sono sempre stata completamente libera. È un vantaggio o una condanna a seconda di come la vedi”. Non appartenere a una famiglia o a una conventicola ha regalato alla Fox un’autonomia di pensiero eccezionale.
Benché abbia amato molto Quel che rimane, preferisco, per quanto possano interessare i miei giudizi, Storia di una serva e Costa Occidentale. Ma l’unica cosa certa è che Paula Fox merita di essere letta tutta, ma proprio tutta. Perdonatemi questa banalità, ma ogni volta che in una libreria vedo qualcuno scegliere uno di quei banali, spesso orribili, titoli da classifica e sullo stesso banco, di fianco o poco distante, occhieggia un romanzo della Fox, sono tentato di afferrare il polso del compratore per impedire l’incauto acquisto.
Nella travagliata esistenza della scrittrice c’è stato spazio anche per una figlia avuta in giovanissima età, dalla quale è stata lontana per decenni. Tra i nipoti della Fox c’è la cantante Courtney Love, che aveva sposato il leader dei Nirvana, Kurt Cobain. A proposito di figli e quindi bambini, Paula ha scritto anche molti libri l’infanzia, spesso dai temi difficili: la morte, l’Aids, l’emarginazione. “Scelgo questi temi – ha spiegato – perché io mi sono sempre sentita una outsider. In fondo ogni bambino lo è in un certo momento della sua infanzia, ad intermittenza. Scrivo, o meglio scrivevo, di cose che venivano considerate pericolose, e di cui di solito si parlava poco. Ora di pericoloso è rimasto ben poco e dunque non scrivo più libri per bambini. Coleridge diceva che non c’è nulla di più pericoloso e sbagliato dell’insegnamento delle virtù. Ai suoi tempi c’erano molti libri di quel tipo e purtroppo ve ne sono anche oggi”.
La Fox ha cominciato a scrivere a quarant’anni, in Grecia, durante una pausa di sei mesi che si era presa. “Sono rimasta sorpresa quando qualcuno si è offerto di pubblicare i miei scritti” ha sempre dichiarato. La sua storia potrebbe indurre a credere che c’è una speranza per tutti. Forse è così. Ma attenzione, la sua scrittura e il suo talento sono merce assai rara.
Vivere con i libri #4 “Un bel posticino” La Spoon River di Hermann Hesse
È difficile parlare di Hermann Hesse. Terribilmente difficile. Di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto. Scrittore di vastissima popolarità, inviso a una certa critica. Il perché di questa ostilità alla sua figura e alla sua opera è presto detto. Lo scrittore tedesco ha condotto un’esistenza solitaria, cercando la perfezione attraverso i sentieri dell’interiorità, una via quindi, che non contemplava le realtà sociali e politiche. Hesse privilegiava il dentro, non il fuori, il sentimento piuttosto che l’assoluta razionalità. Molti critici lo hanno accusato di spiritualismo. Oh, una colpa assai grave. Certo perché per loro è vera letteratura solo quella di chi si crogiola nella crisi esistenziale e nella mancanza di valori, nel nichilismo e nulla altro. Quando si parla di pace, natura, amore universale, meditazione, ricerca spirituale, quel genere di critici mette mano alla pistola. Dunque non poteva che essere detestato il ricercatore assoluto, il letterato che sarebbe divenuto un mito per i giovani dagli anni Sessanta in poi. Ecco, forse questa è la “vergogna” di Hesse: essere diventato un’icona adorata dagli adolescenti, l’età in cui si creano i miti. Gli scettici annoiati e imbevuti di relativismo continuano a liquidare Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il gioco delle perle di vetro, e non parliamo neppure de Il pellegrinaggio in Oriente o Francesco d’Assisi, come libretti intrisi di un sentimentalismo confezionato ad arte per giovani foruncolosi.
Certo, centinaia di migliaia di giovani, giovani alla ricerca della propria identità e di una purificazione spirituale, che un tempo partivano per l’India e che oggi tornano a coltivare la terra, che scrivono poesie ingenue e rabbiose, che chiedono sentimenti profondi, che anelano giustizia e uguaglianza, tutti questi giovani da decenni vagano per il pianeta con in tasca la propria copia sgualcita del Siddharta. E allora? Divenire un grande narratore popolare è sufficiente per essere giudicato volgare? Che Hesse sia popolare, cioè “del popolo”, è dimostrato dalla continua presenza dei suoi romanzi nelle classifiche dei libri più venduti. Francesco, Siddharta e Josef (il maestro del Gioco delle perle di vetro) rappresentano un antidoto a quella pretesa superiorità intellettuale di un’élite autonominatasi tale, volgare e arraffona, tutta vezzi e birignao, in barba alla quale si continueranno a leggere le opere dello scrittore tedesco.
Che lo abbiate amato da giovane, o scoperto solo in età adulta, poco importa. Non dovreste comunque perdervi un bel libro, da poco dato alle stampe da Marco y Marcos. Si chiama Un bel posticino, lo ha scritto Carlo Zanda. Il sottotitolo recita La Spoon River di Hermann Hesse. Cosa ha fatto Zanda? Se ne è andato a Montagnola, piccolo paese ticinese sulla Collina d’oro, sopra Lugano, dove Hesse ha vissuto dal 1919 al 1962, anno della morte e dove scelse di essere sepolto, acquistando nel piccolo cimitero di Sant’Abbondio “un bel posticino”, furono proprio queste le parole usate dallo scrittore in un articolo per un giornale tedesco. È andato al cimitero e ha fotografato le tombe di coloro che hanno vissuto negli stessi anni di Hesse, poi ha ricostruito con pazienza le loro biografie. Ci sono Natalina, che per anni ha accudito lo scrittore con la discrezione propria delle donne intelligenti, il medico Plinio, l’amico Ball, il parroco don Cesare, l’elettricista Balzelli e tanti altri. Per ogni personaggio una scheda, una foto e un piccolo arguto racconto. Incastonati tra queste, come lampi di luce, le opere che Hesse scrisse nel suo rifugio svizzero.
Molti anni fa, totalmente immerso nell’opera narrativa di Hesse, mi recai a Montagnola per visitare il cimitero e cercare la casa Rossa, dove lo scrittore visse con Ninon, la terza moglie, e ospitò profughi, esiliati, intellettuali. Appenai tornai a casa, andai a cercare Siddharta, per un’ennesima lettura. Ben più geniale è stata la scelta di Carlo Zanda, che tornato a Milano dopo la visita al cimitero di San’Abbondio, è andato invece a cercare l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Con già un’idea in testa: una nuova Spoon River con al centro Hermann Hesse. Che fosse possibile, non ne era ancora certo. Che valesse la pena tentare, sì. E così si è trasformato nello scalpellino Richard Bone.
Bravo Zanda, quanto ti invidio! Sì, avrei tanto voluto avere la tua idea trent’anni fa. Ora posso solo accontentarmi di tenermi vicino il tuo bel libro e rimettermi all’opera.
Vivere con i libri #2 I cento passi
Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino, fu ammazzato dalla mafia, a Cinisi, 35 anni fa. Aveva trasformato il suo microfono, quello di Radio Aut, in un megafono dal quale ripeteva, ogni giorno, nomi e fatti che nessuno osava citare. Parlava Peppino. Parlava tanto in una Cinisi (ma potremmo dire in un’Italia) muta, sorda e cieca. La sua vicenda umana e il suo coraggio sono stati raccontati in un bel film diretto da Marco Tullio Giordana, I cento passi. Feltrinelli ha pubblicato la sceneggiatura dell’omonimo film, scritta da Claudio Fava, Monica Zapelli e lo stesso Marco Tullio Giordana. A chi non vuole dimenticare, ne suggerisco la lettura. E suggerisco anche di sostenere la petizione su Change.org per salvare il casolare nel quale fu trucidato Peppino, diventato uno dei luoghi simbolici della battaglia contro le mafie, meta di un pellegrinaggio laico per tanti italiani. Quelle pietre devono essere custodite affinché, come scrisse Peppino, nessuno possa dimenticare che: “La mafia uccide, il silenzio pure”.
Vivere con i libri #1 Ai piedi di Emma Bovary
Perché i libri ci appassionano tanto? Perché li accumuliamo nel corso di tutta la vita? Non esiste una sola risposta a queste domande, ciascuno di noi ha la propria, o meglio le proprie. I libri che leggiamo, i libri che collezioniamo, i libri che conserviamo in modo apparentemente disordinato, ci legano al passato, al presente e al futuro in modo semplice e facilmente accessibile.
I libri sono generosi: ti regalano una storia da cui trai godimento. Di quella storia diventi per qualche tempo custode, conscio che altri prima di te l’hanno “posseduta” e ne hanno goduto per poi passarla ad altri. Nella vita di un lettore ci sono tanti momenti meravigliosi: la scoperta di un nuovo autore, l’incontro con un capolavoro, la magia di un racconto che ti accompagnerà per sempre. Credo che ciascuno di noi debba la propria passione per i libri a un titolo in particolare. Nel mio caso la fiamma è stata accesa da Madame Bovary. Non che prima d’imbattermi nell’eroina di Gustave Flaubert non avessi letto nulla, ma sento di poter dire che solo dopo aver attraversato la storia di Emma Rouault, sposata Bovary, sono diventato un lettore maturo.
Tentai di leggere le vicende di questa piccola adultera di provincia quand’ero ancora al liceo. Come tutti gli adolescenti mi sentivo tormentato. Avevo letto che quella della Bovary era la storia di un’anima travolta nella ricerca del sogno, dell’ideale a cui anela chi non può assolutamente adeguarsi alla realtà. Così cercai in quelle pagine una comunione di tribolazioni e tormenti. Ma non vi trovai nulla di tutto questo. Anzi la storia mi parve del tutto convenzionale. Le mie ansie e i miei afflati adolescenziali non si specchiarono affatto nella vicenda di una donna che si avvelena a causa della sua condotta immorale. Ricordo che lessi il romanzo a singhiozzo, inframezzandolo con lunghe pause e saltando intere parti, una su tutte quella lunghissima dedicata ai Comizi agricoli.
Ma un’altra straordinaria generosità dei libri è quella di concederti sempre una seconda occasione. Ripresi in mano Madame Bovary durante una breve vacanza concessami dopo la laurea. Terminai il libro in tre giorni e dopo di allora credo di averlo letto per intero almeno altre tre volte, per singoli brani, invece, un’infinità di volte. Spiegare le ragioni personali per cui ci s’innamora di un’opera che è universalmente riconosciuta come un capolavoro assoluto può essere fonte di imbarazzo. Attorno a Madame Bovary hanno scritto tutti i più illustri critici letterari del mondo, è dunque difficile aggiungere qualcosa di utile e, soprattutto, intelligente. Tuttavia voglio provare a condividere la mia personale chiave di lettura di questo strepitoso romanzo.
Flaubert, per il quale qualcuno ha riservato l’appellativo di Cristo della letteratura, fu definito il descrittore accanito, e questo suo modo di procedere fu considerato da alcuni addirittura un limite. Certi critici sono rimasti infastiditi dal rilievo concesso al materiale scenico, che, a loro dire, giunge a soffocare i personaggi. Io invece adoro il dettaglio flaubertiano, perché possiede una natura funzionale. Prendiamo ad esempio proprio la sua creazione più celebre: Emma Bovary. Fin dal primo incontro con Charles si ricevono puntuali e per niente occasionali descrizioni della signorina Rouault. Tali da farci divenire subito familiare il suo corpo. Le labbra carnose, che era solita mordicchiare nei momenti di silenzio. I capelli spartiti da una riga sottile sulla sommità del capo, che, lasciando intravedere appena il lobo dell’orecchio, scendevano ad ammassarsi dietro in una crocchia opulenta. Gli stessi capelli nelle pagine dedicate agli incontri amorosi con Leon sono attorti in una massa pesante, con indolenza, e secondo le vicende dell’adulterio, che ogni giorno li discioglieva, paiono quasi disposti da un artista abile nel raffigurare la corruzione. Pian piano conosciamo tutto di lei: le sue palpebre che sembrano tagliate apposte per i lunghi sguardi amorosi, gli occhi che per quanto fossero bruni sembravano del tutto neri per il gioco delle ciglia, il forte respiro che dilatava le narici fini e rialzava gli angoli carnosi delle labbra, ombreggiati nella luce da una lieve peluria nera, le unghie brillanti, fini in cima, più lisce dell’avorio di Dieppe e tagliate a mandorla. Perfino i dettagli, apparentemente più insignificanti, sembrano avvicinarci a lei e svolgono una funzione, potremmo dire tattile, come l’occhialetto di tartaruga che portava, al pari d’un uomo, infilato fra due bottoni della blusa. Foglio dopo foglio, la Bovary cessa di esistere solamente nella finzione letteraria e si materializza fisicamente dinanzi al lettore.
Poi ci sono le descrizioni cariche di un erotismo più esplicito, seppure molto cerebrale. Come quando Emma si punge le dita cucendo e se le porta più volte alla bocca per succhiarne il sangue; oppure il modo particolare con cui getta indietro la testa per bere il bicchierino quasi vuoto di curaçao, con le labbra sporgenti e il collo teso, mentre con la punta della lingua tenta felinamente di leccarne le poche gocce rimaste. Tutto di lei sembra suggerire un forte potenziale erotico: il modo languido con cui parla, i suoi sussurri, le palpebre semisocchiuse, la lieve peluria dietro al collo accarezzata dal vento, le goccioline di sudore sulle spalle nude. Quando usciva prima dell’alba, per recarsi all’incontro con Rodolphe, Emma entrava nella stanza a tentoni, socchiudendo gli occhi, e le gocce di rugiada, sospese sulle bande dei capelli, formavano come un’aureola di topazio attorno al suo viso. Queste descrizioni accanite, che la prima volta senz’altro concorsero a rendere assai faticosa la lettura, in realtà testimoniano la piena consapevolezza con cui Flaubert sceglieva i dettagli. C’è una sua precisa volontà di accendere il romanzo mediante un sottofondo potentemente sessuale. L’impiego insistente di alcuni vocaboli, che potremmo definire prediletti, mollesse, assoupiment, torpeur, rimandano inevitabilmente ad un vago, languido stato di compiacimento sensuale.
Fra i critici contemporanei circola una sciocca considerazione, di quelle che passano di penna in penna senza ulteriori approfondimenti: il processo a Madame Bovary oggi ci appare incomprensibile. Com’è noto Flaubert dovette subire un processo per offesa alla morale e alla religione. Processo che l’autore vinse e che contribuì a dare notorietà al libro. D’accordo, l’accusa fu esagerata, ma chi oggi liquida questa vicenda giudiziaria solo come un’inadeguata risposta dei tempi, o non ha mai letto il romanzo, oppure non è stato capace di avvertire la forte pulsione erotica di cui è impregnato. Domando: è mai stato scritto qualcosa di più eccitante della famosa scena d’amore nella carrozza? Per l’intera durata, al lettore è concessa soltanto la vista della vettura con le tendine abbassate, e l’unica nudità appare alla fine, una mano senza guanto che s’infila di sotto alle tendine di tela gialla e getta frammenti di carta che, come farfalle bianche, ricadono su un campo di trifoglio rosso in fiore. Ma la carrozza che procede dapprima lentamente e poi in un furioso galoppo, il crescendo vertiginoso e i movimenti scomposti evocano altro. A chi sa fantasticare.
Nel libro non si trovano oscenità. E di questo ne era convinto lo stesso Flaubert, che, dopo la pubblicazione sulla Revue de Paris e le prime voci di scandalo, scrisse al fratello Achille: “Sto diventano la celebrità della settimana, tutte le puttane d’alto bordo si contendono la Bovary per cercarvi oscenità che non ci sono”. Ma quel culto per la descrizione degli oggetti ha consegnato per sempre alla storia della letteratura mondiale la figura di un cronico feticista. L’intero romanzo è disseminato di semplici oggetti che, quantunque ai più appaiono privi di qualsiasi carica interiore, sono sapientemente trasformati da Flaubert in feticci.
Anni dopo la seconda lettura di Madame Bovary, venni a sapere che Flaubert custodiva gelosamente le pantofoline di Louise Colet, letterata con cui egli intrattenne una relazione tenera e tempestosa. Le teneva in un cassetto dello scrittoio e di tanto in tanto le estraeva e le osservava. In una lettera alla sua Musa, Gustave si abbandonò disperatamente alla sua inclinazione feticista, paragonando i vari stili di scrittura alle diverse calzature. “… Sandalo, che parola magnifica e che suono solenne. Non è così? Quelli dell’estremità a punta, rivolte all’insù come lune crescenti, ricoperti di lustrini d’oro scintillanti carichi di splendide decorazioni simili a edifici indiani. Vengono dalle rive del Gange. Con tali calzature ai piedi si può passeggiare all’interno di pagode dai pavimenti di aloe oscurato dal fumo di incensi profumati e odorosi di muschio. Sono gli stessi che ti conducono negli harem su tappeti scomposti da disegni simili ad arabeschi. Viene da pensare a inni perenni di amore soddisfatto…”.
Flaubert coltivava una vera e propria passione per i piedi femminili. Calzati o non, sono costantemente al centro della sua attenzione. Per tutte le protagoniste dei suoi romanzi riserva al lettore minuziose descrizioni delle loro estremità e delle calzature che indossano. Ma il momento più alto e intrigante di questa mania non va cercato fra le pagine di Madame Bovary, bensì in quelle di Salambò. La critica contemporanea guarda a questo romanzo soprattutto in chiave di ricostruzione storica. In effetti si tratta di un grande affresco che narra le gesta dei Cartaginesi contro i barbari mercenari. Ma l’opera è interamente percorsa da un gusto sofisticato del macabro e della perversione e mostra anche doti spiccatamente cinematografiche, sorprendenti oltre ogni modo se si tiene conto che fu pubblicato nel 1862. Il modo in cui Flaubert fa entrare in scena Salambò dà vita alla pagina più erotica di tutta la letteratura: la sacerdotessa di Tanith discende le scale con una catenella d’oro alle caviglie per dare la misura al suo passo. E naturalmente, ancorché l’autore non lo precisa, per garantirne la purezza.
L’importanza di un buon inizio
Quella per le classifiche è una passione infantile, alla quale però è difficile sottrarsi. È un modo per catapultare chi ci ascolta o ci legge direttamente dentro il mondo delle nostre emozioni. Quand’ero molto giovane ero animato da un furore classificatorio: i dischi più forti, i film più emozionanti, i più bravi cantanti, i migliori attori e le più belle attrici, i piatti preferiti e via discorrendo. Anni dopo ho letto Alta fedeltà di Nick Hornby e mi sono riconosciuto nell’ossessione per la catalogazione del protagonista Rob. E siccome un certo delirio solipsistico in realtà non mi ha mai abbandonato del tutto, ecco la mia personalissima classifica dei dieci più belli incipit di tutti i tempi. Nick, te lo dico subito. Ci sei andato vicino, ma fra i primi dieci non ci sei
I dieci incipit più belli di tutti i tempi
Accadde a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare.
Gustave Flaubert, Salambò
Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio caro lettore.
Fedor Dostoevskij, Le notti bianche
Chiamatemi Ismaele.
Hermann Melville, Moby Dick
La storia ci aveva tenuti abbastanza in sospeso, lì intorno al fuoco.
Henry James, Giro di vite
Non c’è niente di meglio della Prospettiva Nevskij, almeno a Pietroburgo, dove essa è tutto.
Nikolaj Gogol, La Prospettiva Nevskij
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne.
J.D. Salinger, Il giovane Holden
E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno.
Don DeLillo, Americana
Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita.
Philip Roth, Lamento di Portony
Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!»
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare
Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti.
Javier Marias, Un cuore così bianco
Che ne dite? E i vostri incipit preferiti quali sono?
Cosa ha consumato il consumismo?
Nel 1962 fece la sua comparsa nelle librerie italiane un titolo profetico, La vita agra di Luciano Bianciardi, capace di prevedere, con mezzo secolo di anticipo, l’Italia di oggi. È un libro che dovrebbe rientrare di diritto nei programmi scolastici e che invece pochi conoscono e ancora meno leggono. In tempi di grande entusiasmo, ha prefigurato i temi che progressivamente hanno preso piede nella nostra società: la crisi economica e di valori, il precariato, lo sfruttamento del lavoro intellettuale.
La pelle di Curzio Malaparte
“Una volta si soffriva la fame, la tortura, i patimenti più terribili, si uccideva e si moriva, si soffriva e si faceva soffrire, per salvare l’anima, per salvare la propria anima e quella degli altri (…) Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Tutto il resto non conta (…) È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta ormai”.
Che libro scomodo, politicamente scorretto, crudo, implacabile e colto è La pelle di Curzio Malaparte. L’ho letto una prima volta al liceo, erano gli anni Settanta. Condizionato dal clima culturale, non ne colsi la potenza visionaria. Sprecai il tempo a cercare le prove dell’incoerenza di Malaparte, che è stato fascista e antifascista, vinto e vincitore. Solo molti anni dopo compresi che nelle sue contraddizioni l’autore era stato straordinariamente coerente. Aveva coltivato un’idea così diversa dell’Italia da riversare in quelle pagine grondanti di orrori tutto lo smarrimento per il martirio di un Paese e della sua identità. Continua a leggere