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Ruvide emozioni

José Saramago ha raccontato che suo nonno, prima di morire, scese nell’orto per abbracciare i suoi alberi. Herman Hesse invece ha scritto a proposito di alberi: «Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte». Ritrovare se stessi attraverso il contatto con gli alberi. Una pratica antichissima che accomuna culture molto diverse, dagli indiani d’America ai tibetani, fino agli aborigeni australiani.
Abbracciare gli alberi fa bene, lo sanno i popoli più antichi della terra. Noi invece gli alberi non li guardiamo neanche più. Vi svelo un segreto: abbracciare un albero è bello, ma farsi abbracciare è magia allo stato puro. Il Fuatèl, questo è il nome di un gigantesco faggio sui Monti lariani, a 1100 metri d’altitudine, mi ha accolto nel suo ventre. Lui è lì da almeno 400 anni, per intenderci dai tempi della famosa peste del 1630 che colpì anche i paesi sulle sponde del lago di Como. Quella descritta dal Manzoni nel XXXI capitolo dei “Promessi Sposi”. Proprio davanti al Fuatèl sostavano coloro che, per sfuggire al contagio, dal lago scappavano sugli alpeggi tra il Bugone e l’Alpe di Carate. Quello stesso Fuatèl che l’altro giorno, senza chiedere nulla in cambio, mi ha regalato il suo secolare abbraccio.

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