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Turismo in Italia: al diavolo la bellezza, ripartiamo dall’etica

Beni-culturali

Abbiamo il maggiore patrimonio culturale al mondo e la minore consapevolezza collettiva di averlo. Nessun altro Paese esibisce un divario tanto consistente tra beni culturali e ambientali posseduti e capacità di riconoscerli, difenderli e valorizzarli, in modo che l’arte, la natura e il paesaggio possano essere risorse autentiche.

Abbiamo un ministro dei Beni Culturali convinto che quel centinaio di facinorosi che giorni fa a Milano hanno manifestato contro l’iniqua distribuzione della ricchezza provocherà un danno economico irreparabile al turismo nazionale. Farebbe bene, tale ministro, a leggere le classifiche della competitività turistica globale. Scoprirebbe che, sebbene ogni anno, in occasione del Forum economico di Davos, dimostranti contestino anche in forma energica banchieri e capi di Stato di fronte alle telecamere di tutto il pianeta, la Svizzera domina incontrastata il ranking in virtù delle sue ottime infrastrutture e di un elevato grado di sicurezza, ma anche grazie alla qualità degli alberghi e dei servizi turistici, alle leggi ambientali molto severe e a una vasta percentuale di territorio soggetta a vincoli di protezione.

Nella stessa classifica (Travel & Tourism Competitiveness Report) l’Italia figura al 26° posto, penultima fra i paesi dell’Europa occidentale. Se pensiamo che nonostante questo resta ancora al 5° posto (a lungo è stata prima) tra le mete mondiali, è ancora più facile rendersi conto della disparità tra la bellezza che abbiamo ereditato e la nostra capacità di gestirla.

Sono finiti i tempi in cui ministri incompetenti e industriali arraffoni dichiaravano alla stampa: i beni culturali sono il nostro petrolio. La nuova sciocchezza che ci sentiamo ripetere per sostenere, almeno a parole, l’importanza dei tesori nazionali è: brand Italia. Tutto è brand: Firenze e Venezia, il Colosseo e la Scala, le Dolomiti e Capri. Perfino Leonardo è un brand. Diffidate quando sentite pronunciare questa parola.

Nell’immaginario l’Italia resta in cima ai sogni di molti. E a dire il vero è ancora in vetta alla classifica mondiale per quel che riguarda la voce “patrimonio artistico e culturale”. Poi c’è la realtà dei fatti. E i fatti raccontano di un Paese in decadimento. Non sono solo le immagini degli Scavi di Pompei ridotti come sappiamo o della Reggia di Caserta in totale abbandono a scaraventarci nelle retrovie; sono anche i disservizi, le furberie e i bidoni che rifiliamo a chi viene a trovarci. L’economista statunitense Jeremy Rifkin ha definito il turismo come “l’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza”. E l’esperienza che gli stranieri sperimentano da noi è spesso fatale.

È per questo che non siamo più primi. E anche per altro. Il Report sulla competitività turistica penalizza fortemente l’Italia pure per il modo in cui gestisce le sue ricchezze paesaggistiche: siamo 53esimi nelle politiche di sostenibilità ambientale, addirittura 84esimi nell’applicazione delle norme ambientali, 101esimi per le emissioni di CO2. E infine siamo al 135° posto, su 140 Paesi esaminati, per la trasparenza della politica. Rifletta, ministro. Rifletta!

Fonte http://www.rivistanatura.com

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L’agonia di Pompei

Scavi di Pompei

Domenica 22 giugno, cinquecento turisti si sono trovati sbarrati gli scavi di Pompei: “Chiusi per assemblea sindacale” avvisava un cartello. Era già accaduto qualche giorno prima, ed erano stati migliaia gli aspiranti visitatori provenienti da tutto il mondo a essere lasciati in attesa sotto il sole campano.

Pompei, che a lungo è stata la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà, è diventato il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco (continua…)

L’agonia di Pompei.

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Pompei: da parcheggio per disoccupati a parcheggio per scooter

scooter scavi pompei

La foto l’avrete già vista, ma nel caso vi sia sfuggita ve la ripropongo. Ritrae uno scooter parcheggiato in via delle Tombe, all’interno degli scavi di Pompei. Questa immagine non è soltanto l’emblema di una grande area archeologica abbandonata, senza futuro, è lo specchio di un Paese intero. Nel maggio 2012, Le Monde titolò «Silenzio, Pompei si spegne». I permalosissimi custodi del presunto buon nome dell’Italia, gli stessi che magari parcheggiano in doppia fila, saltano le code appena possono o si fanno prescrivere una tac per il giorno dopo grazie ai favori dell’amico primario, avevano tuonato istericamente contro lo snobismo intellettuale francese. L’allora ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, uno dei peggiori della storia repubblicana, ma lo si potrebbe dire di chiunque altro (…Antonio Gullotti, Carlo Vizzini, Vincenza Bono Parrino, Ferdinando Facchiano, Sandro Bondi, Giancarlo Galan, Massimo Bray, Dario Franceschini… scegliete voi) con l’esclusione di Antonio Paolucci, in risposta a Le Monde formulò parole rassicuranti spiegando che «è oltre mezzo miliardo di euro quanto il Governo ha messo a disposizione di quell’area di particolare interesse culturale ed economico che è Pompei per un suo rilancio a partire dal rapporto cultura-sviluppo». E dove sono finiti? Chi ce lo può spiegare una volta per tutte in quali tasche sono finiti i soldi destinati nel corso dei decenni al risanamento e al consolidamento di questa area archeologica di valore universale? A Pompei non si vede neppure l’ombra di uno spazzino e da sempre circolano indisturbati branchi di cani randagi. Capite che siamo ben lontani dall’applicare una seria e competente politica di conservazione e valorizzazione del nostro preziosissimo patrimonio?! La ricorrente e beffarda mediocrità dei ministri dei Beni culturali italiani ha partorito montagne di vuote dichiarazioni, promesse, vaniloqui. I governi repubblicani hanno trattato la cultura come l’ultima delle loro priorità. Un parcheggio per figure maledettamente mediocri. Massimo Bray, portato in palmo di mano da molta stampa nazionale, ha trascorso i suoi dieci mesi da ministro rilasciando dichiarazioni come se fosse stato un opinionista anziché un uomo di governo con le responsabilità che ciò comporta. Rilasciare commenti e andare in TV a raccontare questo e quel disastro, quasi che la cosa non riguardasse il ministro di turno, è meschino oltre che mediocre. Ma noi italiani non sappiamo più imbarazzarci per le nostre miserie, neppure di fronte a un governante di una mediocrità conclamata o a uno scooter piazzato nel mezzo degli scavi di Pompei. Ma sì, quanta inutile indignazione! Sarà stato di Pasquale, il cognato di Ciro, che si è fermato solo un attimo per portare un pezzo di pizza ad Antonio…

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Renato Bazzoni. Tutta questa bellezza

Ieri, nel giardino di Villa Necchi Campiglio a Milano è stato presentato il libro intitolato Tutta questa bellezza. Si tratta di una raccolta selezionata degli scritti di Renato Bazzoni, edita da Rizzoli e curata da Antonella Cicalò Danioni. Renato Bazzoni (1922-1996), architetto, urbanista, paesaggista, fotoreporter e molte altre cose ancora, oggi è ricordato soprattutto per essere stato l’ideatore del Fai-Fondo Ambiente Italiano. Di lui ho parlato in questo post un anno fa, denunciando l’assurdo silenzio che il nostro Paese ha riservato alla sua nobile figura. L’iniziativa editoriale voluta dalla moglie Carla, che ha messo a disposizione l’archivio privato, sostenuta dal mecenatismo del prof. Egidio Marazzi e promossa dal Fai, ha in parte colmato questa lacuna. Renato Bazzoni Tutta questa bellezzaGli scritti scelti per questo libro mostrano innanzitutto la modernità del pensiero di Renato Bazzoni. Durante la presentazione, la curatrice del libro, entusiasta ed emozionata, ha sottolineato alcuni passaggi con cui Bazzoni commentò la crisi economica scaturita dallo schock petrolifero del 1973: il futuro fondatore del Fai confidava già allora che l’umanità sapesse approfittare della recessione per recuperare valori e principi perduti, come il rispetto della terra e un’economia più solidale. Sembra quasi superfluo annotare l’assonanza con le parole usate da molti opinionisti e commentatori in questi anni di profonda e violenta crisi, prima finanziaria e poi economico-produttiva.
Fra gli interventi che hanno scandito la conferenza è parso particolarmente centrato quello dell’attuale presidente del Fondo Ambiente Italiano, Andrea Carandini. Pur ammettendo pubblicamente di non avere mai avuto occasione di frequentare colui che fu l’iniziatore dell’avventura e che per due decenni ne è stato pensiero e muscolo, ha dimostrato di averne colto appieno lo spirito quando ha affermato che «Renato Bazzoni aveva la capacità di intraprendere fatti e non solo di denunciare misfatti». La laconicità del pensiero sintetizza in modo mirabile la stessa essenza del Fai. Sta proprio in questo la straordinaria e lungimirante intuizione di Bazzoni: a metà degli anni Settanta, in Italia non erano più sufficienti l’azione di denuncia, la protesta e l’indignazione.

Renato Bazzoni con Sandro Pertini

In una delle foto pubblicate in “Tutta questa bellezza” appare Renato Bazzoni con il presidente Sandro Pertini alla mostra “National Trust/Fai: esperienze a confronto”, 1984.

Con spirito pragmatico egli mise la cultura accanto alla disponibilità economica, sperando che in qualche modo avvenisse un’impollinazione incrociata. E il seme attecchì. Nel corso della serata, altri hanno ricordato come da quell’intuizione sia nata una realtà che oggi conta centinaia di collaboratori, migliaia di volontari e soprattutto un nucleo di beni architettonici e naturali strappati all’incuria e al degrado e restituiti al pubblico italiano e non solo. Un autentico miracolo in questo Paese che cade a pezzi sotto i colpi degli scandali, dell’abusivismo e dell’abbandono. Di Renato Bazzoni sono stati ricordati anche il contagioso entusiasmo e l’inconsueta generosità. Prova di quest’ultima resta il fatto che, a differenza di molti altri che hanno usato l’impegno ambientalista come trampolino di lancio per approdare ai più confortanti e soprattutto remunerativi scranni del Parlamento o dei consigli di amministrazione di grandi società pubbliche e private, Bazzoni è rimasto fino all’ultimo giorno della sua esistenza seduto alla scrivania della sua amata creatura, il Fai. Con il suo stipendio modesto, la sua utilitaria, il suo guardaroba dimesso e la sua semplice abitazione, che guardacaso era proprio di fronte gli uffici della Fondazione, quasi a volere perpetuare quella consuetudine di casa-bottega propria dei lavoratori indefessi, degli uomini che sanno intraprendere.
Riguardo all’entusiasmo contagioso credo che chiunque lo abbia conosciuto possa citare numerosi episodi. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta ho accompagnato Renato Bazzoni in giro per l’Italia a spargere i semi della speranza. Pochi ancora conoscevano il Fai, ma studiosi e imprenditori illuminati organizzavano conferenze nelle proprie città offrendogli la possibilità di illustrare il suo progetto. Bazzoni aveva moltissimo da raccontare e quando parlava produceva un magnifico fragore. Era convincente. La gente lo adorava. Alcune delle donazioni ricevute dal sodalizio negli anni successivi si devono a quegli incontri. Appena trentenne, io ero poco più di un ragazzo di bottega. Preparavo gli eventi, organizzavo gli spostamenti e alla fine sedevo in platea ad ascoltarlo insieme a tutti gli altri . Spesso i nostri erano autentici tour de force. Si partiva nel tardo pomeriggio da Milano, si raggiungeva la città di destinazione in serata e dopo la conferenza il più delle volte si ripartiva immediatamente perché l’indomani mattina c’erano nuovi appuntamenti che ci attendevano in ufficio. Accadde così anche quella sera a Lucca: partenza alle cinque del pomeriggio dopo una giornata di lavoro, viaggio con una breve sosta per rifocillarci, quindi l’incontro pubblico. Non si finiva mai presto, perché la gente era incuriosita, voleva saperne di più, poneva domande e lui con pazienza rispondeva a tutti, convinto che dietro a ciascuno di quei volti poteva celarsi un forte donatore o comunque un futuro grande amico del Fai. Erano già passate le undici di sera quando stavamo per rimetterci in viaggio. Non saremmo rientrati a casa prima delle due di notte, anche più tardi. Eppure già sapevo che lui, sebbene avesse quarant’anni più di me, sarebbe stato di nuovo in ufficio al mattino presto. «Peccato» mi disse mentre ci stavamo accomodando in automobile, «siamo a poche centinaia di metri da una delle più belle piazze italiane e ce ne andiamo ignorandola». «Quale piazza?» domandai rivelando senza pudore la mia ignoranza. Smontò dalla vettura e senza offrirmi possibilità di replica mi disse: «Andiamo a vederla, disgraziato!».
Renato Bazzoni era fatto così, non perdeva mai l’occasione per spargere i semi della bellezza, anche quando il terreno che aveva di fronte appariva arido. Ecco perché il titolo di questo libro – Tutta questa bellezza – suona quanto mai appropriato. La curatrice, Antonella Cicalò Danioni, ha voluto chiarire che era stato scelto ben prima che esplodesse il fenomeno de La grande bellezza, il film con cui Sorrentino ha riportato l’Oscar in Italia. Ha spiegato che attinge nientemeno che al teatro di Samuel Beckett, a quella che
 dalla
 critica
 è
 riconosciuta
 all’unanimità
 come
 la
 sua maggiore opera
  – Finale di partita dove Hamm, il cieco sopravvissuto alla guerra nucleare, affacciandosi alla finestra esclama: «Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza!». Che in Renato Bazzoni ci fosse anche una lucida follia è possibile. Del resto sono le persone con queste caratteristiche che di solito sanno guardare un passo più avanti di tutti gli altri. Ma è certo invece che pochi, pochissimi altri in Italia meritano quanto lui di vedere accostato il proprio nome al sostantivo femminile “bellezza”.

RenatoBazzoni - Fondo Ambiente Italiano

Renato Bazzoni nella chiesa del Monastero di Torba, la prima proprietà acquisita dal Fondo Ambiente Italiano, dove oggi sono tumulate le sue spoglie

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La grande bellezza insegna: per vincere basta esportare la nostro decadenza

La grande bellezza

A ben pensarci non c’è alcun motivo, come italiani, di esaltarci per il successo ottenuto all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, dal film diretto da Sorrentino, La grande bellezza. Lascio a chi è più competente i giudizi sull’opera cinematografica. Non m’interessa in questa sede dibattere se è un lavoro presuntuoso o meno e se è vero che il regista si compiace un po’ troppo per le tantissime citazioni letterarie di cui è imbevuto il film. Vorrei concentrarmi solo sulla storia raccontata.
La grande bellezza rimanda al tempo perduto, sprecato, quello che non può più tornare. C’è l’amore finito del protagonista, sperimentato nell’età più dolce della sua vita. L’amore a vent’anni, vissuto intensamente, ma che improvvisamente si è spezzato e non è stato mai più ritrovato. E c’è il fascino sfarzoso e unico di Roma, capace di provocare una vertigine nell’osservatore. Ma questo fascino apparente immortale deve fare i conti con le brutture dell’Italia odierna.
È in questo passaggio che La grande bellezza diventa spietata e mostra come l’italianità degli ultimi decenni si alimenta solo del proprio passato, perché è incapace di produrre qualcosa di originale, figuriamoci di rivoluzionario. Roma e con essa gran parte del Paese vivono sulle vestigia di un passato del quale noi non abbiamo alcun merito. Tutta questa bellezza l’abbiamo ereditata. E tutto ciò che abbiamo saputo fare è stato di attribuire a noi stessi una grandezza che non ci appartiene. Non ce la meritiamo, perché non abbiamo fatto nulla per proseguire lo straordinario processo creativo, anzi lo stiamo divorando. Forse per questo siamo così arroganti e maleducati, soprattutto all’estero, perché viviamo di una luce riflessa che ormai si sta spegnendo. Presuntuosi senza alcuna ragione.
Il film di Sorrentino parla di questo, non illudiamoci. Anche se a tratti può apparire indulgente con le specifiche di oggi, in realtà racconta un’italianità mediocre, lontana dal suo antico prestigio, approfittatrice, prepotente e volgare. E da fuori gli stranieri ci vedono proprio così. Con quel misto di deferenza per il nostro passato e dileggio per il nostro presente. Come quando si guarda un ragazzino rimbambito, ma figlio di un grande imprenditore, e lo si rispetta perché suo padre è stato un genio. L’immagine che si ha di noi è quella delle nostre piazze, i nostri monumenti, i nostri siti archeologici, la nostra cucina tradizionale, tutte cose per le quali nel presente non abbiamo alcun merito.
L’Italia raccontata dal film di Sorrentino è rassicurante, soprattutto per chi ci guarda con spirito di colonizzazione. È il Paese della decadenza presuntuosa e dell’imbroglio, delle mazzette e dei nobili decaduti, dove non è quasi più possibile distinguere il vero dal falso. Ma è anche il luogo che ancora custodisce la «grande bellezza» di chiese e palazzi, di fronte alla quale ogni turista dell’altro mondo si emoziona e dimentica le nefandezze.
Ecco perché il plauso americano intorno al film di Sorrentino non ci deve esaltare.

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L’Italia ostaggio di grotteschi ministri da repubblica delle banane

Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la cui credibilità è stata già fortemente minata dalla “imprudente” telefonata con la compagna di Salvatore Ligresti nel giorno del suo arresto, riferendo in Parlamento sul caso di Bartolomeo Gagliano, il serial killer di cui si sono perse le tracce dopo un permesso premio dal carcere di Marassi, ha affermato “Tutti erano a conoscenza del percorso di Gagliano”. E allora? Domandiamo a lei, signor ministro, e non ad altri, perché un pericoloso criminale ha ricevuto un permesso premio.
Il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge ha così commentato il calvario che stanno vivendo 26 famiglie italiane bloccate nella Repubblica Democratica del Congo dallo scorso 13 novembre: «Il Congo ha cambiato le regole, ci hanno negato anche le liste». E allora? Come mai i ministri di una delle maggiori potenze occidentali, Bonino e Kyenge, non riescono ad ottenere un timbro dalla Direction Générale de Migration del Congo per riportare a casa i propri connazionali?
Il ministro dei Beni culturali Massimo Bray è andato alla Tv di Stato, ospite da Fabio Fazio, e ha spiegato che la cultura in Italia è al disastro. E allora? Ma non dovrebbe essere lui a fare qualcosa?
Ma che razza di Paese siamo diventati? Come si permettono questi signori e queste signore di parlare come se fossero opinionisti anziché ministri. I problemi loro non li devono denunciare, ma risolvere. Lo stato comatoso della giustizia italiana, il tragico declino delle nostre relazioni internazionali e le pessimi condizioni in cui versano la gran parte dei beni culturali di quello che un tempo fu il Bel Paese oggi sono una loro responsabilità. Sono loro che devono porvi rimedio. Nel momento stesso in cui hanno accettato i loro incarichi conoscevano bene le difficoltà a cui sarebbero andati incontro. Oppure credevano di governare un Paese dove il sistema carcerario e giudiziario eccellono, le diplomazie sono rispettate e il patrimonio storico e artistico è al centro dell’attenzione? Rilasciare commenti e andare in TV a raccontare questo e quel disastro, quasi che la cosa non riguardasse loro, è meschino. E lasciar parlare questi ministri senza contestare loro menzogne e furbizie è da codardi.

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Al rogo! Al rogo!

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Il Governo Letta è il peggiore dei governi avuti negli ultimi vent’anni. Sì, lo so, adesso molti di voi staranno già pensando:Eh no! Peggio dei governi Berlusconi proprio no! Oppure: Mah, non sarà un buon governo, però sono stati peggiori quelli presieduti da Prodi. I governi Berlusconi e Prodi possono avere fatto bene o male (personalmente credo più male che bene in entrambi i casi) ma sono stati l’espressione di un voto popolare. Cosa che invece non si può dire per il governo Letta, e nemmeno per quello precedente presieduto da Monti. Sempre non legittimati dalle urne sono stati anche i governi D’Alema e Amato II. Quattro pessimi presidenti del Consiglio per quattro orribili governi che, seppure in forme e modi differenti, hanno tutelato gli interessi di pochi a discapito del bene collettivo. Gli ultimi due, Letta Monti, sono accomunati dal fatto di essere, o essere stati, sostenuti da una larga maggioranza. Ma mentre quello precedente era retto da un tecnico rivelatosi disastroso sul piano politico (per molti anche su quello delle competenze economiche, finanziarie e istituzionali), l’attuale è presieduto da un uomo che nella propria vita non ha mai fatto null’altro oltre la politica (agli inizi degli anni Novanta era già presidente dei Giovani democristiani europei). Di conseguenza, pur muovendosi nel solco tracciato da Monti e seguitando a tutelare gli interessi consolidati del potere italiano (banchieri, funzionari di stato, militari, accademici e poco altro), ha pure la tracotanza di sfidare l’esacerbata pazienza degli italiani ammantando le proprie politiche di provvedimenti demagogici e inutili (classici specchietti per allodole) oppure di minacciare l’elettorato (se cade il Governo pagherete l’Imu, credo che quest’ultima provocazione sia la peggiore espressione del potere di tutta la storia repubblicana). Letta ha la spudoratezza degli impuniti quando spara nel mucchio degli evasori fiscali (troppo facile, servono provvedimenti non moniti!) o, peggio ancora, quando tagliuzza qua e là gli immensi sperperi in auto e flotte aeree di Stato e annuncia che i risparmi ottenuti saranno destinati alla manutenzione dei Canadair. Si vergogni! Si Vergogni!!! Nella sola Sardegna sono già andati persi anche quest’anno più di 8mila ettari di boschi e quella degli incendi estivi nel Mediterraneo non è un’emergenza imprevedibile. È la norma, da decenni. E quando il governo stanziava fondi per l’acquisto degli F-35 sono stati in molti a ricordare a Letta e ai suoi ministri che forse sarebbe stato meglio investire quei soldi per aerei da impiegare nella lotta agli incendi. 
L’elenco di queste ‘bravate’ potrebbe durare a lungo, coinvolgendo larga parte della compagine governativa, compreso quei ministri che godono di buona stampa, ma in realtà si stanno rivelando soltanto dei vuoti parolai. Primo fra questi Massimo Bray, ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, che ogni giorno annuncia rifioriture nella cultura italiana al pari di un principe rinascimentale, e intanto Pompei crolla, Venezia affonda,  i Bronzi di Riace restano negli scantinati e il nostro patrimonio forestale va in fumo. Ma al di là dei soliti simboli del Belpaese, è sufficiente visitare la gran parte dei maggiori musei italiani per comprendere lo stato di fatiscenza e abbandono in cui versano tutti i nostri tesori artistici e storici.
Mentre loro brigano e blaterano, a noi restano poche cose: un mucchio di rovine e carboni ancora roventi.

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Fanfaronate estive sulla pelle arsa dei poveri italiani

Sentirete il premier Letta sproloquiare di ripresa alle porte, ma intanto il Pil continua a contrarsi. Sono di oggi i dati relativi al secondo trimestre del 2013, che registrano l’ottavo calo consecutivo.
Sentirete il ministro Bray fantasticare sul rilancio dei nostri beni culturali e paesaggistici; l’altro ieri ha dichiarato «Renderemo Sibari un bene d’eccellenza». Ma intanto in Liguria, solo per fare uno dei tanti esempi possibili, e sottolineo in Liguria, (non dunque nella martoriata, disgraziata e irreparabilmente persa Calabria) la celeberrima «Via dell’Amore», lo storico sentiero a picco sul mare che collega Riomaggiore e Manarola, nel Parco delle Cinque Terre, un luogo che quasi in ogni angolo del globo sarebbe trattato con la massima cura e attenzione possibili, resta chiusa dopo la frana che 12 mesi fa travolse e ferì 4 turiste australiane.
Questo non è l’unico Governo possibile, checché ne dicano i governanti stessi e i tromboni del Corriere della Sera, servili portavoce degli interessi finanziari e industriali favoriti da Letta&Co.
Questo è un governo, come del resto il precedente, e il precedente ancora, e il precedente ancora, che spegnerà le ultime, deboli speranze. L’Italia è un Paese aggrappato all’orlo del baratro con la punta delle dita. E su quelle dita danzano baldanzosi i nostri ministri. Mossi dai loro burattinai.

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Gli ultimi giorni di Pompei

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“Gli ultimi giorni di Pompei” è il titolo di numerosi film girati nella prima metà del Novecento, tutti tratti dal celebre e omonimo romanzo di Bulwer-Lytton. La messa in scena della storia d’amore fra Jone e Glauco e della forza distruttrice del Vesuvio, vero protagonista e regolatore delle passioni e delle tragedie umane, ha emozionato intere generazioni quando il cinematografo era ancora un luogo magico e fantastico. Quando la vita degli italiani era ancora un’avventura dove c’era posto per i sogni e la speranza in un futuro migliore.
Gli scavi di Pompei sono stati a lungo la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà. Ora invece sono il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco. Sbaglia però chi crede che l’abbandono del prezioso sito archeologico sia iniziato di recente. La prima volta che ho visitato gli scavi era il 1984 e ancora oggi ricordo con amarezza il viaggio fra le rovine malinconiche. Già allora si percepiva il senso di desolazione e noncuranza a cui era pericolosamente esposta l’intera area. La precarietà si intuiva di fronte alle deboli transenne che avrebbero dovuto indicare il divieto di accesso ad alcuni ambienti a rischio di crollo, oppure quando si palesavano i danni piccoli e grandi provocati dagli atteggiamenti irresponsabili di un turismo stolto e dalla totale mancanza di controlli e vigilanza. Ricordo bene gli sguardi increduli dei visitatori stranieri di fronte a tanto deperimento, lo sdegno evidente per i cumuli di rifiuti abbandonati qua e là, lo stupore compassionevole per i cani randagi che si aggiravano fra le macerie. 
Dopo lo sciopero dei giorni scorsi, la conseguente chiusura e le file di turisti furiosi, la stampa nazionale è tornata a occuparsi di Pompei. Non lo faceva con tanta “passione” dai giorni dei tragici crolli del 2010, quelli che portarono al linciaggio dell’allora ministro dei Beni Culturali Bondi. Ora, il soggetto è indifendibile. Tuttavia occorre avere il coraggio di dire che il crollo della Domus dei Gladiatori, vicenda che per l’appunto trascinò il senatore e coordinatore nazionale del Pdl nella bufera, ha dato il via a una triste e vergognosa farsa. Bondi fu responsabile di non essersi opposto ai tagli alla Cultura voluti e praticati dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ma affermare che il deperimento di Pompei sia una delle tante responsabilità dei Governi Berlusconi è una tesi originale, per non dire peggio. In molti nel 2010 sfilarono davanti alle telecamere con i volti carichi di sdegno, ma tanti di loro stavano in Parlamento e frequentavano le stanze della politica e del potere da un’infinità di anni. Anni durante i quali il degrado di Pompei è avanzato nella più assoluta noncuranza dell’intera classe politica. Un Paese civile, davvero preoccupato per le proprie sorti e non avvelenato dall’odio e pervaso dal malvezzo dell’immoralità, anziché trovare il solito capro espiatorio si sarebbe  interrogato piuttosto su quale manutenzione ordinaria e straordinaria fosse stata attuata a Pompei negli ultimi sessant’anni e quale vigilanza il Ministero avesse esercitato sugli scavi e più in generale sull’immenso patrimonio storico e artistico nazionale. Ma di tutto questo non è mai importato nulla a nessuno. L’agonia dei nostri tesori artistici e paesaggistici non ha tolto il sonno ai ministri e ai parlamentari che si sono succeduti nei decenni promettendo ogni volta rapidi interventi; né ai giornalisti che hanno “offerto” ai lettori esercizi di retorica e libri pubblicati da editori collusi col malcostume e il malgoverno; né tanto meno a gran parte degli italiani, sempre pronti a indignarsi ma sempre lontani da ogni responsabilità. 
Pompei ha continuato a sgretolarsi anche negli ultimi tre anni, ma sui giornali ne avete sentito parlare molto meno perché non c’era una figura goffa come Bondi da dare in pasto alla furia a gettone del popolo. Adesso per qualche giorno invece se ne parlerà ancora: ascolteremo l’allarme e le promesse di un ministro a termine, leggeremo corrosivi editoriali, ci toccherà perfino udire Pietro Salini, amministratore delegato di Impregilo e di Salini in fase di fusione, che denuncia di voler donare venti milioni di euro per il rilancio di Pompei, ma di non riuscire a farlo per colpa della burocrazia. Passatemi la divagazione: Impregilo è un’azienda italiana corresponsabile con alcuni governi sudamericani e africani di aver devastato interi habitat naturali e scacciato popolazioni indigene per erigere ciclopiche dighe e altri grandi opere, e forse il governo italiano dovrebbe domandarsi se è il caso di accettare soldi che grondano ingiustizia sociale e distruzione.
Tornando a Pompei, rassegnamoci. Non cambierà nulla. Tra qualche giorno non ne sentiremo più parlare. Fino a un nuovo scandalo o al prossimo crollo, che potrebbe essere l’ultimo. Chi ha visitato gli scavi ne conosce la provvisorietà ineluttabile. Una provvisorietà che non si manifesta solo nel senso di abbandono, ma che si tocca con mano nella prospettiva nord, dalla quale incombe sornione la mole del Vesuvio. Un sinistro presagio che ricorda un passato tragico e un destino di desolazione.

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Il nostro sottosegreario per i Beni Culturali e la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Varati a parte

Leggo che l’imprenditrice italiana Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, ilaria borletti buitoninel ruolo di sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali del Governo Letta, sarà impegnata nei prossimi giorni in numerose inaugurazioni: da un’importante mostra a Orvieto al 56esimo Festival dei Due Mondi a Spoleto. Il pensiero quasi spontaneamente corre alla Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, azionista della Megaditta Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica che ne Il secondo tragico Fantozzi, in una scena contessa_serbelloni_mazzanti_viendalmareche per me è fra le più belle della saga fantozziana e della storia del cinema comico italiano, è madrina del varo della turbonave aziendale. Anche se, a onor del vero, Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni si è dichiarata contraria al passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia: «Una follia quei mostri nel canale, ma servono dati ufficiali» avrebbe detto il sottosegretario. Bontà sua.

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Renato Bazzoni, l’uomo che amava l’Italia

RenatoBazzoni - Fondo Ambiente Italiano

È davvero curiosa l’Italia. Tutti noi siamo sempre disposti a giurare con il dovuto orgoglio che il nostro è il Paese più bello del mondo. Per la sua natura, il clima, il paesaggio e per l’immenso patrimonio artistico. In effetti è senza dubbio un luogo traboccante di bellezza. Tuttavia se gran parte delle sue ricchezze non sono ancora state distrutte da scelte urbanistiche dissennate, avidità speculative e sciatta incuria si deve principalmente a poche persone che si sono battute da sole, in modo infaticabile, contro lobby potentissime. Uno di questi è stato Renato Bazzoni, che fu tra i fondatori del Fai – Fondo Ambiente Italiano. Il suo nome dovrebbe figurare in un ipotetico pantheon dei padri della “bella Italia”, a fianco di Giorgio Bassani, Elena Croce, Antonio Cederna e pochi altri. La storia delle loro vite ha coinciso con mezzo secolo di appelli e battaglie in nome della cultura e in difesa di un paesaggio aggredito da lottizzazioni, abusivismi e condoni. Appelli che, alla luce di quanto si presenta oggi ai nostri occhi, sono in gran parte caduti nel vuoto. Eppure Renato Bazzoni si distinse dagli altri pochi nomi impegnati in questa solitaria battaglia di civiltà, e proverò a spiegarvi perché.
Nel 1967 ideò la mostra “Italia da Salvare”, promossa da Italia Nostra, che fu tra le prime impietose testimonianze di beni e paesaggi culturali unici distrutti o fortemente minacciati. Ne curò sei edizioni in Italia, tre in Europa, diciannove negli Stati Uniti. Il momento sembrava propizio per scuotere le coscienze e mobilitare le iniziative. Bazzoni sognava di suscitare l’indignazione del mondo intero di fronte alla distruzione del Bel Paese, ma purtroppo si accorse di non riuscire ad ottenere neppure quella degli amministratori italiani. Così, anni dopo, cambiò strategia. Se lo Stato non aveva orecchie per ascoltare la rabbia di quanti avvertivano un “paese a termine”, tanto valeva sostituirsi alla sua ignavia. Nel 1975, con Giulia Maria Mozzoni Crespi, l’allora soprintendente di Brera Franco Russoli e l’avvocato Alberto Predieri, fondò il Fai – Fondo Ambiente Italiano. Fu questa la sua straordinaria, lungimirante intuizione. Non erano più sufficienti l’azione di denuncia, la protesta e l’indignazione. Con spirito pragmatico Bazzoni mise la cultura accanto alla disponibilità economica, sperando che in qualche modo avvenisse un’impollinazione incrociata, con un nuovo movimento per frutto.
Monastero_di_TorbaIl seme attecchì. Quando nel 1975 mostrò il piccolo e commovente Monastero di Torba, all’epoca destinato a scomparire, a Giulia Maria Mozzoni Crespi, che l’anno prima aveva ceduto la proprietà del Corriere della Sera ad Angelo Rizzoli, s’innescò la scintilla fondatrice. L’imprenditrice mise a disposizione la somma necessaria per acquistare il complesso monumentale e l’avventura ebbe inizio. Da quel momento la Fondazione cominciò ad acquisire abbazie, castelli, ville, boschi e tratti di costa, sottraendoli alla speculazione e all’abbandono, recuperandoli e aprendoli al pubblico.
A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta ho lavorato con Renato Bazzoni. L’ho accompagnato in giro per l’Italia a spargere i semi della speranza. Erano momenti pionieristici, pochi ancora conoscevano il Fai. Intellettuali e imprenditori illuminati organizzavano nelle proprie città cene e conferenze offrendo a Bazzoni la possibilità di illustrare il suo progetto. Alcune delle donazioni ricevute dal sodalizio negli anni successivi si devono a quegli incontri. Bazzoni aveva moltissimo da raccontare e quando parlava produceva un magnifico fragore. Era convincente. La gente lo adorava.
La prima volta che visitai con lui Torba (che tra l’altro è un luogo adatto per trascorrere la vostra Pasquetta), volgendo lo sguardo alla torre costruita con materiale ricavato dalla demolizione di complessi cimiteriali di epoca romana mi disse: “Non è meravigliosa la fine tessitura della pietra di fiume?”. Certo, è meravigliosa. Ma quasi certamente non me ne sarei accorto se non mi avesse avvicinato a tanta bellezza con il suo entusiasmo. Ancora oggi, ogni volto che poso lo sguardo su uno scorcio di paesaggio, un’opera d’arte o un monumento ringrazio Renato Bazzoni per avermi insegnato a osservare.
Se qualcuno mi domandasse di indicare l’italiano dei nostri tempi che più di ogni altro si è adoperato per le nostre bellezze non esiterei a indicare il suo nome. Due giorni fa Renato Bazzoni avrebbe compiuto 91 anni. È volato ai Campi Elisi troppo presto, prima ancora di vedere la sua creatura decollare in modo definitivo verso il successo e la popolarità. Oggi, l’abside della chiesetta del Monastero di Torba custodisce le sue spoglie. Diciassette anni fa, pochi giorni prima di accasciarsi per strada mentre raggiungeva il suo ufficio, era stato insignito della medaglia d’oro di Europa Nostra per la causa cui si era interamente dedicato. Come un combattente. Il riconoscimento assegnatogli da una federazione pan-europea che ospita al suo interno 250 Organizzazioni non governative attive in 50 Stati, fu il segno evidente di come la sua attività e la sua persona avessero travalicato i confini. Eppure sul suolo patrio, in questo Paese dalla memoria corta, la sua figura è poco conosciuta.

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Perché non amiamo l’Italia?

crollo del muro perimetrale della domus del Moralista

Chissà se i delegati del Touring Club Italiano e del Wwf avranno spiegato a Bersani la portata di ciò che ha fatto l’altro ieri Barack Obama. Il presidente Usa ha proclamato cinque nuovi monumenti nazionali: sono il Charles Young Buffalo Soldiers in Ohio, che preserva la casa del primo colonnello afroamericano, il First State in Delaware, che racconta la storia del primo Stato americano a ratificare la Costituzione, l’Harriet Tubman Underground Railroad in Maryland, che celebra la vita di un conduttore di treni e attivista per i diritti degli afroamericani, il canyon del Rio Grande del Norte in New Mexico e l’arcipelago San Juan Islands nello Stato di Washington.  “Questi siti onorano gli eroi pionieri, i paesaggi spettacolari e la ricca storia che hanno plasmato il nostro Paese straordinario. La loro nomina a monumenti nazionali fa in modo che possano continuare a ispirare e essere goduti dalle future generazioni di americani” ha affermato il presidente durante la cerimonia di proclamazione. Nel suo primo mandato Obama aveva già “promosso” altri quattro siti. La legge che permette la nomina di monumenti storici, l’Antiquities Act, fu istituita nel 1906 dal presidente Theodore Roosevelt.
Secondo uno studio della National Parks and Conservation Association, ogni dollaro investito nei parchi nazionali genera almeno quattro dollari di indotto. Negli Stati Uniti le attività ricreative all’aperto creano un giro d’affari annuo di 646 miliardi di dollari, dando lavoro a più di sei milioni di persone.
Ci rendiamo conto di cosa si potrebbe fare in Italia? Ce lo sentiamo ripetere in continuazione: siamo il Paese che conserva la più alta percentuale di beni culturali al mondo. Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è sconfortante. C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici e paesaggistici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare. Ma se non sappiamo neppure quanti sono! Non esiste oggi una catalogazione dei nostri beni, specialmente dei reperti archeologici. E per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute. Molte delle quali restano chiuse nei magazzini. Serve sollevare ancora una volta lo scandalo della gestione di Pompei? In nessun altro luogo al mondo un’area archeologica tanto importante sarebbe abbandonata all’incuria e al degrado in modo così riprovevole. Da noi si aspetta il prossimo crollo prima di tornare ad occuparcene.
I nostri politici da anni ripetono al pari di scimmiette ammaestrate: “la cultura deve agire come volano reale per la crescita”. Ma la verità è un’altra: in Italia la cultura e la natura non sono viste come occasioni di sviluppo. Ci si strappa le vesti contro il vandalismo e contro i musei che non possono competere con quelli delle altre nazioni. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe. I fondi per i beni artistici e culturali sono allo 0,19% della spesa pubblica. Eppure qui si parla di crescita. Quella vera!