Ormai non passa giorno senza che editorialisti ed esperti di comunicazione digitale puntino il dito contro l’uso distorto di Internet compiuto da Beppe Grillo. L’accusa rivolta al leader del M5S è quella di consentire che il proprio blog e la propria pagina Facebook si riempiano di commenti diffamatori nei confronti di politici e giornalisti. Per provare in modo inconfutabile la compiacenza dell’ex comico (‘ex comico’ è un’espressione che non manca mai negli articoli dei detrattori) verso i toni populisti e fascistoidi (anche ‘toni populisti e fascistoidi’ è un’espressione molto in voga) alcuni si dilettano perfino a riportare nei propri articoli o nei propri post parte dei commenti lasciati dai lettori del blog di Grillo e non rimossi dallo stesso. Così tutti possono sapere, per esempio, che quando Grillo ha accusato Maria Novella Oppo, giornalista dell’Unità, di diffamare in modo costante e pubblicamente il M5S, i suoi seguaci e simpatizzanti hanno vergato in calce al post commenti di questo genere: “Che racchia. Pure raccomandata e sostenuta dai soldi pubblici” oppure “Vecchia baldraccona da strada” o ancora “È più bella che intelligente” e poi via con una sequenza impronunciabile di “Va a f…” e “Figlia di…”.
Ora vi domando: c’è qualcosa di più assoluto e immortale dell’eterno conflitto tra le anime pure e nobili, le anime ‘idiote’ dunque, per dirla con Dostoevsky, e le anime prosaiche, volgari e violente? Commenti come quelli appena riportati possiamo sentirli ogni giorno per strada. Perché la natura umana è fatta anche di questo, piaccia o no. Ovunque, nei peggiori bar di periferia come nei cosiddetti salotti buoni, si annidano persone sguaiate che sanno esprimersi solo in modo rozzo, formulare pareri grossolani e sentenziare scurrilità. Sono donne e uomini in carne e ossa. Esistevano prima che Grillo aprisse il suo blog e seguiteranno ad esistere e a spargere le loro lordure altrove anche qualora il blog di Grillo venisse chiuso o almeno censurato, come qualcuno auspica.
Margaret Thatcher nel 1987 definì l’African National Congress di Nelson Mandela una “tipica organizzazione terrorista”. E nei giorni scorsi, dopo la scomparsa del leader sudafricano, i suoi nemici si sono scatenati su Internet ricordando alcuni episodi sanguinari che ebbero come protagonisti sostenitori di MK, il braccio armato dell’African National Congress.
La nostra società è ipocrita. Si è assuefatta alla violenza fine a se stessa, quella narrata in forma compulsiva dai film e dai videogiochi, ma non sa accettare e riconoscere l’esistenza di una violenza che potremmo definire “nobile”, una violenza motivata dal senso di giustizia, o perlomeno tendente al giusto. Senza la quale quasi in ogni angolo del pianeta regnerebbero ancora dittature e soprusi di ogni genere. A questo rifiuto della violenza “positiva”, che talvolta può essere anche solo verbale, si unisce poi il cliché del politicamente corretto, che è la palude dentro la quale si vuole annegare ogni istanza di riscatto e di equità.
L’agire in modo pavido o, peggio ancora, calcolato di tante anime belle che scrivono sui quotidiani considerati vestali della libertà o che alimentano i propri blog di luoghi comuni con la speranza di essere notati dalla ‘grande’ editoria è ignobile almeno quanto lo sono gli insulti lasciati nei luoghi dalla rete Internet percorsi da Grillo.
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Giornalisti attovagliati
Sono un giornalista, iscritto all’albo dal 1987. Ora sono indeciso. Non so se sentirmi più infuriato per gli attacchi alla stampa di Beppe Grillo o per la difesa della categoria compiuta oggi da Enrico Letta. Perché pariamoci chiaro, senza girarci tanto intorno. Grillo usa toni che spesso è difficile condividere, ma occorrerebbe anche smetterla una volte per tutte di fare le anime candide e sdegnarsi per qualche parolaccia o sobbalzare per il fastidio che spesso procura la verità. È vero o non è vero che in Italia c’è un esercito di giornalisti attovagliato con il potere? È vero o non è vero che i giornalisti dei grandi quotidiani, quelli in mano all’editoria della finanza e della grande industria ma che non disdegna i finanziamenti pubblici, costituiscono a loro volta una casta di privilegiati? È vero o non è vero che se lavori per decenni in un giornale che sopravvive soltanto grazie ai contribuenti dovresti avere perlomeno la prudenza, se non la buona educazione di non prendere per il naso i lettori sproloquiando sugli sperperi di questo disgraziato Paese? E, infine, qualcuno potrebbe spiegarmi per quale ragione un giornalista ha diritto di additare un politico e un cittadino non può fare la stessa cosa con un giornalista?
Noi siamo così
A volte mi domando come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto una monarchia debole e acerba, una dittatura ventennale e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza quarant’anni di strapotere democristiano. Senza i governi forchettoni e i governi balneari. Senza i governi monocolore, il pentapartito, l’apertura a sinistra e il compromesso storico. Senza la concertazione, senza la crisi della Balena bianca, senza le stragi, senza la P2, senza gli anni ruggenti dei socialisti, le ambiguità dei comunisti, le velleità dei riformisti. Senza dorotei, morotei, fanfaniani e andreottiani. Senza miglioristi, berlingueriani, ingraiani e cossuttiani. Senza il Vaticano. Senza la democrazia bloccata. Senza il C.A.F. (dall’acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani). Senza Gladio. Senza la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Senza le leghe. Senza la Seconda Repubblica che si è rivelata peggio della prima.
Già, la Seconda Repubblica. Me la ricordo ancora la scritta che ha campeggiato per lungo tempo sul cavalcavia di Piazzale Kennedy a Milano: ‘W Di Pietro’. Era il ’92, l’intera classe politica italiana stava per essere spazzata via dalle inchieste giudiziarie che come in un risiko si abbattevano l’una sull’altra. Che poi, intera no. La furia dei giudici alla fine ha risparmiato l’allora Pci-Pds (sì è vero, fu rasa al suolo la federazione pidiessina milanese, ma l’inchiesta nazionale si fermò alle soglie di Botteghe Oscure) mentre buona parte dei democristiani e socialisti sopravvissuti e le frattaglie dell’ex pentapartito sono migrate verso Forza Italia. Ma allora, nel ’92, alcuni italiani scrivevano ‘W Di Pietro’, in Piazzale Kennedy. E tu guarda come a volta sono proprio i dettagli a svelarti il prosieguo delle storie. John Fitzgerald Kennedy è ricordato per frasi come: «Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese». Tonino Di Pietro per altre del tipo: «Non sono un politico e non penso di entrare in politica. Ma potete voi escludere la possibilità di vestirvi domani da donna?». In ogni caso, la parabola politica dell’ex Pm di Mani Pulite è andata come tutti sappiamo e Tangentopoli non è stata affatto una rivoluzione. Fra qualche tempo qualcuno probabilmente si domanderà come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto vent’anni di berlusconismo e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza lo strapotere delle banche e della finanza. Senza i ricatti della sinistra arcobaleno e dell’Udc, senza lo sciagurato ciclo del bipolarismo confuso. Senza Previti e Dell’Utri. Senza Mastella, Giovanardi, Follini e Casini. Senza gli ex fascisti e i post fascisti. Senza i governi Dini, Prodi e D’Alema che hanno svenduto le aziende di Stato alla solita oligarchia economico-finanziaria. Senza il partito-giornale e le Tv-partito, senza gli scandali Cirio e Parmalat, le scalate bancarie del 2005, l’Opa di Unipol su Bnl. Senza l’onerosissimo salvataggio di Alitalia, senza Telecom data in pasto prima a Colaninno poi a Tronchetti Provera. Senza i governi tecnici e i governi delle larghe intese. Senza il manto quirinalizio su ogni tentativo di riforma.
Senza “er batman”, Belsito e Lusi. Ecco, fermiamoci qui, a questi nomi. Sono l’espressione più compiuta della gens che è prosperata nei pascoli della Seconda Repubblica. Razza predona, arraffona, spregiudicata e ingorda. Sono passati più di vent’anni da quel 1992, e ci siamo accorti che sono trascorsi in un lungo bunga-bunga al cui richiamo in pochi si sono sottratti. Il dolce fardello dei soldi ha avvinto tutti: leader agili nel cambio di maglia e identità, sigle fantasma, una girandola di correnti e di fondazioni. Credevamo di avere visto il volto più brutto della politica e invece il peggio doveva ancora arrivare. L’ex tesoriere della Dc Severino Citaristi, scomparso nel 2006, all’epoca di Tangentopoli fu raggiunto da 74 avvisi di garanzia, un record per cui divenne il simbolo dell’inchiesta. Ha poi ammesso di avere ricevuto le tangenti, ma ha sempre negato qualsiasi interesse personale («non ho mai preso una lira per me», «non ho mai corrotto nessuno» ripeteva) e ha sempre sottolineato che «tutti le prendevano». Altri tempi. Perfino le ruberie erano più nobili, e non si tratta solo di nostalgia del passato.
«C’era la delegazione di Craxi in visita in Cina, erano a cena, mangiavano. A un certo punto Martelli ha chiesto a Craxi: Senti, ma davvero qui sono un miliardo, tutti socialisti? Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Beppe Grillo, allora era un comico e faceva solo ridere, chiuse con questa battuta nello studio di Fantastico 7 la sua carriera alla Rai. Era il 15 dicembre 1986. Per la risposta si è dovuto attendere più di un quarto di secolo.
Beppe Grillo, la Terza Guerra Mondiale e la Rivoluzione del dopo-scuola
Matteo Renzi nell’intervista rilasciata a Il Foglio sostiene che alle prossime elezioni il Movimento 5 Stelle scomparirà e il Pd tornerà a conquistare gli elettori prestati a Beppe Grillo. Quest’ultimo è di parere opposto. A margine di un incontro elettorale a Ragusa, il leader del M5S ha ammesso qualche errore nella comunicazione, ma ha ribadito un concetto forte: «stiamo facendo una rivoluzione». Poi con il solito linguaggio ruvido e colorito ha anche spiegato che in corso «c’è la Terza guerra mondiale, ma non la fanno con i carri armati, la fanno con le banche, la finanza e la politica». Si è dimenticato i giornali, o forse ha ritenuto che fosse superfluo citarli visto che la gran parte, quasi tutti, sono sotto lo scacco di banche, finanza e politica. In ogni caso questa frase, che è stata commentata da alcuni come la solita maldestra boutade grillesca, contiene un fondo di verità. La potenza di fuoco che quotidianamente viene messa in campo da quotidiani e periodici e dal loro codazzo di opinionisti, editorialisti, trombettieri e tromboni delle larghe intese contro Grillo e il M5S ha pochi precedenti. Ne ho parlato qui qualche giorno fa. Non passa giorno senza che tutta l’editoria nostrana di finanza e di banca, ma anche di calcestruzzo e di cliniche, tenti di convincere l’opinione pubblica che Beppe Grillo è quanto di peggio e terribile abbiamo oggi in Italia. D’accordo, gli eletti del M5S hanno prestato il fianco e anche qualcosa di più. Alcuni di loro si sono resi ridicoli agli occhi degli italiani, specialmente di quelli che li hanno votati. Vito Crimi che dorme in Aula (fosse stato il primo!), Roberta Lombardi che straparla, l’incresciosa vicenda della diaria hanno dato la stura a un valzer di editoriali e commenti che poi sono sfociati nelle invettive della Rete. Dunque sì, ha ragione Grillo, è in corso una guerra, magari non mondiale, ma civile, nel senso di interna. Piaccia o no, occorre riconoscere che Grillo ha toccato i gangli vitali di un sistema corrotto, marcio dall’interno. Le sue sparate, a volte rozze e indifendibili secondo i principi del ‘politicamente corretto’ (espressione che spesso serve a mascherare l’impossibilità di affermare la verità), hanno messo nel mirino, tanto per rimanere fedeli a un vocabolario guerresco, tutte le caste protette: non soltanto quella politica, nei cui confronti il disprezzo è ormai diffuso, ma anche la casta dell’informazione, della finanza, dei patti di sindacato, dei monopoli e via discorrendo. Insomma, da qualche tempo Grillo se ne esce dal suo camper e spara a zero contro il putridume e il ciarpame che avvolge questo Paese. Perciò fa paura a molti. Il suo linguaggio è impetuoso e irriverente, ma autentico e attuale. Dietro i suoi modi bellicosi in realtà è struggente e indifeso. Non cerca sponde, non cerca alleanze. Tira dritto, menando fendenti contro il Corriere delle banche, La Repubblica di De Benedetti, le Tv di Berlusconi, il Sole (ormai molto offuscato) di Confindustria. Spiazza per la lealtà e l’imprevedibilità dei suoi affondi. In questo ricorda a volte Pasolini, benché il paragone, lo so, farà rizzare i capelli a molti, e io per primo metto le mani avanti riconoscendo che si tratta di due vicende umane e due intelligenze profondamente differenti. Tuttavia c’è un tratto pasoliniano nella capacità di Grillo di scartare gli abbracci soffocanti, nel desiderio di non farsi etichettare e intrappolare. Grillo però ha una visione manichea del potere che Pasolini non amava. E in questo aspetto è racchiusa tutta la debolezza della sua proposta politica. Credere che gli onesti e le persone animate da una bontà disarmante e un’innocenza assoluta, simili a tanti dostoevskijani principi Myskin, si schierino solo dalla sua parte, mentre dall’altra siedono tutti gli impuri e i corrotti è una semplificazione inaccettabile. Le rivoluzioni richiedono enormi sacrifici e il più delle volte sfociano lo stesso in cocenti delusioni. C’è un evidente contrasto tra la constatazione di Grillo, «c’è la Terza guerra mondiale», e il metodo scelto per fronteggiarla, cioè portando volti apparentemente nuovi in Parlamento, molti dei quali però saranno già vecchi appena varcata la soglia del Palazzo. Perché a uno Stato, come a un uomo, è difficile insegnare la morale una volta che si è superata l’età dell’infanzia. Come diceva Sciascia, bisogna farlo nelle scuole elementari, dopo è già tardi.
In guardia popolo, chi segue Grillo avrà la testa mozzata
Punto primo: non ho votato M5S. Punto secondo: non voto da anni.
Ma più passano i giorni, le settimane, e più simpatia nutro per Beppe Grillo. Nonostante le gaffe dei deputati grillini e la spocchia dei capigruppo grillini. Nonostante indennità, diaria e rimborsi. Nonostante i dissidenti e i transfughi. L’Italia è un museo dei vizi, una scuola di depravazione, una sentina d’impurità, una nazione senza pudore né dignità, diceva Curzio Malaparte. E fino a prova contraria, i grillini sono italiani. Dunque incarnano qualità e i difetti di tutti gli italiani.
Ma la potenza di fuoco che quotidianamente viene messa in campo dai giornaloni e dal loro codazzo di opinionisti, editorialisti, trombettieri e tromboni delle larghe intese suscita più di un sospetto anche in un idiota come me. Per tutti questi commentatori Beppe Grillo è un settario e un irresponsabile. Loro che, con i loro grandi gruppi editoriali, da anni ci vendono come riforme ineluttabili la perdita dei diritti e della dignità sociale; che hanno difeso a spada tratta il Fiscal Compact e l’Europa dei banchieri e dei burocrati; che hanno esaltato prima l’agenda Monti come la sola via e ora il governo Letta come un’opportunità unica; che blaterano di povertà come si blatera di tutto ciò che risulta misterioso, esotico, nuovo, ma un precario o un disoccupato non l’hanno mai visto dal vivo; loro oggi sono uniti dall’odio verso Beppe Grillo. Perché? Perché non passa giorno senza che il Corriere della Sera e tutta l’editoria di finanza e di banca, di calcestruzzo e di cliniche, entrino in trincea?
Non vi fa un po’ impressione questo attacco generale espresso con titoloni e corsivi? Non trovate singolare che il “fior fiore” del giornalismo italiano tenda a convincere l’opinione pubblica che Beppe Grillo è tutto ciò che di peggio e terribile abbiamo oggi in Italia? Insomma, non vi inquieta un po’ questa militarizzazione? Dov’è finito il famoso mastino del Quarto Potere quando si tratta di far vedere i sorci verdi agli imprenditori italiani che fanno realizzare i loro prodotti nei Paesi in via di sviluppo a lavoratori (uomini, donne e bambini) pagati pochi spiccioli in assenza dei più elementari diritti? Eh, non hanno tempo né spazio da dedicare a queste bazzecole presi come sono ad azzannare i polpacci di Beppe Grillo. Fiato alle trombe, inizia l’editoriale unico dei gazzettieri multipli contro il comico! E alla domanda – perché? – rispondo pasolinianamente: Io so. Ma non ho le prove.
Insomma più passano i giorni da quel 25 febbraio, più la stampa italiana, almeno tutta quella parte, ed è tanta, che agisce come uno yorkshire di compagnia a chiunque detenga il potere, mi chiarisce le idee. In guardia popolo, chi segue Grillo avrà la testa mozzata.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il Quirinale
La rosa dei nomi per il Quirinale è ricca: Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Romano Prodi, Franco Marini, Anna Finocchiaro, Luciano Violante. A questi si sono aggiunti gli outsider mandati in orbita dal M5S di Beppe Grillo: Stefano Rodotà e Milena Gabanelli. Chi la spunterà? Difficile dirlo. Di una cosa però possiamo già essere certi. Fatta l’eccezione della giornalista di Report, con uno qualsiasi degli altri nomi il Quirinale è destinato a rimanere anche per i prossimi sette anni quella macchina mangiasoldi che ormai tutti conosciamo. In nome della trasparenza delle amministrazioni pubbliche, di recente anche il Colle ha deciso, per la prima volta nella sua storia, di rendere pubblico il bilancio di previsione. Così si scopre che la presidenza della Repubblica prevede di chiudere in pareggio il rapporto tra entrate e uscite, per una somma totale pari a 352.606.518 euro. Dei quali 228.500.000 a carico dei contribuenti italiani! Il Quirinale, non si deve mai smettere di ricordarlo, costa molto di più e ha molti più dipendenti di Buckingham Palace, dell’Eliseo francese e della Presidenza tedesca. Nel 2000 aveva 1.859 addetti civili e militari contro i 923 dell’Eliseo, nonostante il presidente francese abbia molti più poteri del nostro. Col risultato che mentre il Quirinale costava 151 milioni di euro, l’Eliseo ne costava 86. Negli anni successivi il personale è aumentato ancora di più, almeno fino al 2007, quando si è arrivati a 224 milioni di spesa complessiva. (Fonte, I costi della politica in Italia dell’Istituto Bruno Leoni). Dal 2008 a oggi il personale è stato ridotto. Tuttavia negli ultimi tre anni, nonostante si sia parlato tanto di spending review e a dispetto delle note diffuse dal Quirinale con le quali venivano annunciati tagli della spesa, la quota di 228 milioni provenienti dai fondi dello stato non si è ridotta di un centesimo.
Addio, Presidente Napolitano. Avanti il prossimo.
Ecologisti: estinti o risorti?
Nel 1986 il Wwf Internazionale scelse di festeggiare il 25° anniversario della sua fondazione ad Assisi. Per l’occasione quattro cortei si mossero da Cortona, Gubbio, Nocera Umbra e Spoleto in direzione della città di San Francesco. I pellegrini in Marcia per la Natura furono accolti uno a uno dal principe Filippo di Edinburgo, all’epoca presidente del sodalizio, la sera del 28 settembre. Tutti insieme furono poi ristorati nella “Selva” del Sacro Convento. Il giorno seguente, nella Basilica Superiore, si celebrò un’emozionante cerimonia interreligiosa: i rappresentanti di cinque delle maggiori religioni mondiali (buddisti, cristiani, ebrei, induisti, musulmani) si riunirono in uno storico incontro in favore della natura. Poiché in quegli anni lavoravo presso gli uffici milanesi del Wwf, ebbi la fortuna di partecipare ai festeggiamenti. Solo anni dopo, però, compresi di avere assistito a quello che sarebbe diventato il momento più alto dell’intero movimento ecologista in Italia. Erano gli anni rampanti dell’edonismo reganiano e di una generazione di giovani arrivisti e arroganti, tuttavia nel nostro Paese le associazioni ambientaliste riuscirono, almeno a tratti, a dettare l’agenda politica, costringendo l’opinione pubblica e la classe politica a confrontarsi con temi quali la perdita della biodiversità, la distruzione degli ecosistemi e i limiti delle risorse. Continua a leggere
Senza Parlamento. Si può fare?
Mesi fa era in voga una teoria detta Tecnocrazia. Lasciamoci governare da tecnici e i nostri problemi saranno presto risolti. Abbiamo visto tutti come è andata a finire. La mia si potrebbe chiamare teoria dell’Assenza, e si spinge un po’ più in là della proposta di Beppe Grillo di fare a meno di un Governo e lasciare lavorare il Parlamento. In sintesi l’idea è questa. Togliamo gli chef dalla Tv. Togliamo gli architetti dalle Commissioni edilizie. Togliamo gli editorialisti dai giornali. Togliamo le Province e le Prefetture. Togliamo le l’Authority. Togliamo i “mandarini” dagli apparati di Stato. Togliamo le cariche multiple a professori universitari, consiglieri e accademici vari. Togliamo i monopoli.
Quanto al Parlamento. Ci sono milioni di italiani che sarebbero lietissimi di non tornare a votare. Togliamo i parlamentari dal Parlamento e non ci saranno più elezioni. Ma allora, si chiederà qualcuno, come la mettiamo con la prossima legislatura? Guardate, ho già dato un’occhiata alla prossima legislatura, e forse è meglio se chiudiamo bottega subito.
Chi controlla chi?
I Grillini scoprono una delibera che autorizza l’assunzione senza concorso di oltre cento dipendenti. È stata Roberta Lombardi, capogruppo e portavoce del Movimento 5 stelle alla Camera, a denunciare il meccanismo introdotto da una delibera approvata lo scorso dicembre, grazie al quale un esercito di trombati alle recenti elezioni è pronto a rientrare nel Palazzo dalla finestra. Una pletora di personaggi, spesso di dubbio profilo, dal posto assicurato a spese dello Stato.
Intanto il Settimanale Chi pubblica le foto di Adriano Zaccagnini, deputato del M5S, “beccato” a cena alla buvette della Camera. Qualcuno dirà: si dovrà pur mangiare! Sì, ma non lì, perché dal blog di Beppe Grillo buvette e ristoranti di Camera e Senato sono sempre stati additati come privilegio della casta. Zaccagnini si è scusato dicendo di non sapere che in quel ristorante di lusso il deputato paga 15 euro e il resto del conto, si parla di 80-90 euro, è a carico dei contribuenti.
Tutto questo non vi fa ricordare la rivoluzione fallita narrata ne La fattoria degli animali di George Orwell? «Gli animali da fuori guardavano il maiale e poi l’uomo, poi l’uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l’uno e chi l’altro».
L’esilarante teoria del meno peggio
Una larga fetta di italiani insospettabili si sta facendo imprigionare nella teoria del “meno peggio”. A questi si è aggiunto perfino Michele Serra che nella sua Amaca di ieri ha esortato i grillini a prendere atto dell’esistenza del meno peggio in politica. Grasso è meno peggio di Schifani, Pisapia della Moratti. La parabola di Serra sembra essere tornata al “turiamoci il naso e votiamo Dc” di Montanelli. Anzi, la situazione è ancora peggiore. Perché Serra e quelli che la pensano come lui si fermano ai nomi, alle foglie di fico per dirla con le parole di Grillo. Ma ciò che conta è quello che poi si fa ogni giorno in Parlamento: gli intrallazzi per far passare questa o quella legge, le assenze strategiche, le persone che si mettono nelle utility o nelle banche, gli sperperi tollerati, le opere pubbliche inutili ma ugualmente sostenute e via dicendo. E quando sommiamo tutto questo improvvisamente ci rendiamo conto che le differenze tra uno e l’altro si riducono. Eccome si riducono!
“Il meno peggio è figlio del peggio (…) Il meno peggio ci ha portato l’indulto, l’inciucio, i condannati in Parlamento, gli inceneritori, la Campania-Chernobyl, Mastella ministro della Giustizia, un debito pubblico di 1630 miliardi di euro, la crescita economica più bassa d’Europa, il precariato, l’informazione imbavagliata, una legge elettorale incostituzionale (…) Il peggio e il meno peggio sono come due fratelli siamesi. Inseparabili dalla nascita (…) Peggio o meno peggio, sempre peggio è”. Così ha lucidamente scritto nel 2008 nel suo blog un tale che di nome fa Beppe Grillo.
Il caimano rosso
È dal 2008 che onnipotenti opinionisti ci spiegano perché la sinistra in Italia ha perso e continuerà a perdere. Taluni rimpiangendo Bertinotti, Diliberto, Rizzo, Ferrero e Pecoraro Scanio, altri esprimendo soddisfazione per la loro esclusione dal Parlamento italiano. Mentre accadeva questo, Nichi Vendola procedeva speditamente a occupare il campo della sinistra. Nulla sembra scalfire l’irresistibile ascesa del presidente pugliese. Ha superato abilmente il dissenso con Bertinotti, la perdita di pezzi all’interno di Sel, le disavventure giudiziarie, l’inimicizia di D’Alema, il diktat di Casini che con lui non voleva allearsi e perfino la temibile concorrenza di Grillo. Vendola è un leader carismatico e indiscusso e il gruppo dirigente del suo partito è compatto attorno a lui. Vendola esercita la guida ricorrendo alla motivazione ideale e sentimentale e questo ne fa un capo imbattibile. Continua a leggere
Corsi e ricorsi
“Noi non eravamo nulla e non avevamo nulla. Siamo arrivati ai vertici dello Stato per cambiare le cose, armati solo delle nostre convinzioni, delle nostre forze. Abbiamo affrontato grandi fatiche e grandi sacrifici in nome di un ideale, con l’aspirazione di non subire più la storia, ma di divenirne artefici”. Sono pressoché certo che se domandassi a dieci persone da dove provengono queste parole, almeno la metà risponderebbe dal blog di Beppe Grillo o dal profilo Facebook di qualche esponete del M5S. E invece no. Sono prese dalla prefazione di Storia di un militante, un recente e-book (a breve pare anche in versione cartacea) di Roberto Castelli, nel quale l’ex ministro della Giustizia ripercorre i primi anni della Lega. Molto prima che l’ondata padana invadesse la Capitale, c’era già stata l’esperienza dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Due rovinosi precedenti per Grillo. La meteora di Giannini si disintegrò in pochissimo tempo, la parabola di Bossi si è spenta tra cerchi magici e compromissioni di vario genere. Ha dichiarato Castelli con quel suo solito ruvido linguaggio: “Roma, come tutte le grandi capitali, è un po’ puttana, ti prende, ti affascina. È accaduto a molti di noi, che si sono persi dietro a privilegi e poltrone”. Cos’è la vita se non la scoperta di ciò che siamo?
La faccia buona della cattiva politica
Niente di nuovo dal Parlamento italiano. No, non mi riferisco alla bagarre che ha investito il Movimento 5 stelle, messo già alla prova da tradimenti, voglia di epurazioni e umane debolezze. Sto parlando invece dei nuovi presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso. Ma come? – direte voi – sono nomi nuovi, eccome! Sì, certo, se paragonati a Schifani o al duo Franceschini-Finocchiaro, indigesto a tutti, perfino agli iscritti al Pd, sono freschi novelli. Vecchio è il metodo. Vecchio è il ricorso alle bandiere da sventolare, alle icone da esibire quando non si hanno programmi. La paladina dei popoli in fuga e il procuratore nazionale antimafia sono diventati i presidenti delle due Camere nel Paese messo ripetutamente all’indice da Human Rights Watch per le accuse di xenofobia, discriminazioni e respingimenti, nel Paese divorato da ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra. La mappa della criminalità organizzata in Italia è in costante espansione e le recenti prove delle infiltrazioni nelle regioni del Nord lo confermano. Nella Piana di Gioia Tauro e in molte altre parti i migranti africani sono trattati come schiavi. Siamo davvero disposti a credere che tutto questo cambierà solo per avere udito tromboneggiare alla Camera e al Senato opinioni generosamente generiche e ingenuamente ideologiche? Siate buoni, se potete. Vogliamoci bene. E vogliamone soprattutto ai deboli, giacché ci siamo. Il Parlamento vestito di nuovo è caduto in un equivoco di sostanza: credere che sia sufficiente esporre qualche icona per opporsi ai problemacci della vita. Sarebbe il momento di ostentare intelligenza più che simboli. Invece continuiamo a illuderci che sia sufficiente citare Madre Teresa per sentirsi misericordiosi e Martin Luther King per apparire tolleranti e giusti. Di questo passo aspettiamoci un governo “poetico”.
Per i capelli che portiam
Ancora a proposito del professor Paolo Becchi che sul blog di Beppe Grillo ha citato Pasolini e del mio post di ieri nel quale invitavo a citare un po’ meno Pasolini e a leggerlo di più, ebbene a proposito di tutto questo con profonda e fiera incoerenza mi è venuta una gran voglia di citare Pier Paolo Pasolini. “Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda”.
Ciao rivoluzionari.
Giù le mani!
Con un post pubblicato ieri sul blog di Beppe Grillo, Paolo Becchi, il “filosofo” del Movimento 5 Stelle, ha tentato di appropriarsi dell’eredità intellettuale di Pier Paolo Pasolini citando il verso di una sua poesia: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo”. Il professor Becchi ha usato l’intellettuale Pasolini come una clave per dare in testa agli “intellettuali” de La Repubblica. E fin qui passi, anzi si può perfino condividere lo scopo. I problemi sono altri. Primo: il verso richiamato da Becchi andrebbe riportato interamente: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente”. Pasolini in quella poesia (Il Pci ai giovani!!) parla dei fatti di Valle Giulia, schierandosi dalla parte dei poliziotti, non dei manifestanti universitari. Secondo: come capita alle icone, Pasolini è strattonato spesso di qua e di là, citato a sproposito, evocato per comodità. Salvo poi essere gettato nel fuoco quando occorre liberarsene. Gli intellettuali di sinistra italiani, da Asor Rosa a Sanguineti, lo sanno bene. Forse sarebbe meglio citarlo un po’ meno e leggerlo di più.