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I crediti poco chiari dell’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini

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Con queste parole Greenpeace, Legambiente e WWF commentavano nel 2011 la nomina di Corrado Clini alla guida del Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio e del mare del Governo Monti, sì, quello che doveva salvare l’Italia, proprio quello.

“Al dottor Clini vanno le nostre congratulazioni per il prestigioso incarico che gli è stato conferito. Ci aspettiamo che il suo impegno nel gabinetto Monti possa segnare una svolta positiva e un cambio di direzione nelle politiche italiane sull’ambiente (…) Ci auguriamo che il nuovo ministro possa segnare una sostanziale discontinuità, per riuscire finalmente a battere gli interessi degli inquinatori, nell’interesse generale del Paese. Ci aspettiamo che da profondo conoscitore della macchina ministeriale, Clini possa restituire anche il ruolo e il profilo da protagonista che il Ministero dell’Ambiente ha perso negli ultimi anni e rilanciarlo come dicastero strategico per uscire dalla crisi economica, dando un vigoroso impulso alla green economy e affrontando seriamente il dissesto  idrogeologico”.

Alla luce delle notizie riportate oggi dal Corriere della Sera, «Appalti fasulli da 200 milioni. Così Clini si intascava il 10%» quelle parole suonano davvero strane. L’ex ministro, già coinvolto nell’indagine avviata a Ferrara, culminata con il suo arresto a giugno, arresti domiciliairi revocati un mese e mezzo dopo, ha attraversato quasi tutti gli episodi controversi e i tanti disastri ambientali in Italia, essendo stato direttore generale del Ministero dell’ambiente dal 1992 al 2011, carica a cui è tornato nel 2013, una volta cessata l’esperienza di ministro. Si è occupato, tra l’altro, della vicenda Acna di Cengio, dell’Enichem di Manfredonia e dell’Ilva di Taranto, tutti casi di cui c’è ben poco per andare fieri. Era anche già stato sfiorato dalle cronache giudiziarie tra il 1996 e il 1997, quando fu indagato dalla procura di Verbania per l’inquinamento prodotto da un impianto di incenerimento di rifiuti della società svizzera Thermoselect. Clini, difeso dall’avvocato Carlo Taormina, chiese ed ottenne di trasferire il processo al Tribunale di Roma. Dopodiché la sua posizione fu completamente archiviata. Si è occupato professionalmente di biocarburanti e di rifiuti. Riguardo a questi ultimi, i rifiuti appunto, è stato al centro pure di una vicenda oscura, all’epoca denunciata dai missionari comboniani e dal Corriere della Sera. Nel 2007, una società italiana, la Eurafrica, aveva proposto la redazione di un progetto per il risanamento della discarica di Dandora (a soli 8 chilometri dal centro di Nairobi, la più grande di tutta l’Africa orientale) pagato 700mila euro dal ministero dell’ambiente italiano. Secondo una denuncia presentata da padre Alex Zanotelli, un prete che a Nairobi ha speso una vita a fianco delle popolazioni più povere, quella società e quell’operazione presentavano moltissimi dubbi. Corrado Clini, che personalmente promosse il progetto come direttore del dicastero, rispose alle accuse dei comboniani con toni sprezzanti, scrivendo, dopo il blocco dell’intervento, una lettera a Paolo Mieli, allora direttore del Corriere, che si chiudeva così: “Forse disturbiamo “the lords of pauperty”, i cosiddetti benefattori di professione, che vivono sulla miseria dei disperati?”.
Ora, le indagini di queste settimane faranno il loro corso. Ma una domanda sorge spontanea: quali erano secondo le associazioni ambientaliste i crediti di Clini, tali da far loro sperare che avrebbe potuto restituire quel “ruolo e il profilo da protagonista che il Ministero dell’Ambiente ha perso negli ultimi anni e rilanciarlo come dicastero strategico per uscire dalla crisi economica”? Avete una risposta, anche di seconda mano?

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Expo 2015: di briccone in briccone si avvicina la kermesse

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Ci risiamo. Expo 2015 torna a far parlare di sé per appalti truccati e corruzione. L’ultimo furbetto finito sotto la lente dei pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio è Antonio Acerbo, 65 anni, direttore Construction del Padiglione Italia e commissario delegato di Expo 2015 in relazione al progetto “Vie d’acqua”, ora indagato per corruzione e turbativa d’asta. Acerbo è stato direttore generale del Comune di Milano con la giunta Moratti. L’indagine in cui è rimasto coinvolto è una tranche dell’inchiesta che lo scorso maggio ha portato agli arresti, tra gli altri, di Gianstefano Frigerio, Luigi Grillo e Primo Greganti. Inchiesta riguardante una serie di irregolarità negli appalti di Expo e della sanità lombarda e che avrebbe accertato la presenza della cosiddetta ”cupola degli appalti”. Insomma, Expo 2015 si rivela sempre più per quello che è: una ghiotta occasione per manigoldi di ogni specie. Eppure proprio in questi giorni su Tv, radio e giornali è partita la grancassa per la vendita dei biglietti d’ingresso alla kermesse. Conduttori televisivi e radiofonici in brodo di giuggiole, pronti a magnificare il “grande” evento. Gli scandali? Echissenefega!!! L’Italia deve ripartire! D’altronde anche il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi ha detto che le indagini devono fare il loro corso (bontà sua), ma i lavori non si possono fermare. Dunque, arrivederci al prossimo briccone.

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Il fascino discreto della corruzione

Se Flaubert potesse aggiornare il suo Dizionario dei luoghi comuni, molto probabilmente aggiungerebbe “Corruzione: indignarsi contro”. I commenti rilasciati dalla gran parte dei politici in seguito alla scoperta da parte della Procura di Milano di una cupola che controlla gli appalti di Expo Milano 2015 sono pieni di doppiezza e fariseismo. “L’unica cosa da non fare è cancellare Expo. Sarebbe la più grande sconfitta per la democrazia, sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto”, le dichiarazioni del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, chiamato dal premier Matteo Renzi a seguire i lavori dell’Expo, riassumono il pensiero dei vai Lupi, Alfano, Maroni, Pisapia e tutta l’allegra combriccola di expoentusiasti. E così al grido di ‘Expo deve andare avanti’ rimetteremo la testa sotto la sabbia, almeno finché una nuova bufera giudiziaria non ci costringerà a rialzarla.
Non è davvero un caso se tra i dannati della V Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno Dante pone i corrotti (colpevoli di aver usato le loro cariche pubbliche per arricchirsi attraverso la compravendita di provvedimenti, permessi, privilegi) vicino agli ipocriti.
L’Italia è come l’alveare immaginato da Bernard Mandeville nella sua Favola delle api: prospera e si sviluppa grazie alla corruzione. Tutti lo sanno, compreso quelli che si indignano. I politici che rimproverano gli altri farebbero bene a guardare in casa propria. Forse esaminando la propria coscienza si vergognerebbero di protestare per ciò di cui sono anch’essi più o meno colpevoli. L’inclinazione a corrompere e a lasciarsi corrompere appartiene alla natura umana. Ma in molti di quelli che giungono al potere vi è addirittura qualcosa di grossolano e volgare: quasi stupiti di essere arrivati lì, pensano solo ad approfittare dell’improvvisa manna loro offerta. Di questi saccheggiatori che terrorizzano, corrompono e tesorizzano non ci libereremo mai. Non illudiamoci, siamo noi.

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La vita di un giusto. Ambrogio Mauri, l’imprenditore “ucciso” dai corrotti

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Monica Zapelli, nota al pubblico come sceneggiatrice del film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, e di alcune popolari fiction televisive come Maria Montessori: una vita per i bambini, Enrico Mattei – L’uomo che guardava al futuro e Il caso Enzo Tortora – Dove eravamo rimasti?, ha ricostruito la storia di Ambrogio Mauri, l’imprenditore della Brianza che nel 1997 si tolse la vita come gesto estremo di protesta contro il sistema delle tangenti che soffoca chi lavora onestamente.
S’intitola Un uomo onesto ed è un libro molto bello. E molto doloroso. Perché dolorosa è la vicenda di Ambrogio Mauri: un uomo normale, dotato di ingegno, che chiedeva solo di vivere in un paese in cui la pubblica amministrazione si liberasse dalla corruzione e di concorrere in un mercato in cui potesse vincere il migliore.
Mauri era persona perbene, un uomo d’altri tempi hanno scritto alcuni, quasi a sottolineare che questo non è più un luogo per onesti. A 66 anni, dopo aver visto andare in fumo i valori che gli avevano insegnato e in cui lui aveva creduto, si è ucciso. Un caso limite, perché non tutti gli imprenditori onesti si suicidano per disperazione. Però è l’estrema conseguenza di un fenomeno vastissimo, che il giornalista Massimo Fini chiama degli “omicidi bianchi della partitocrazia”. “Omicidi bianchi perché non si vedono – scrive Fini. – Si tratta delle vite spente, nelle loro speranze, nelle loro aspirazioni, nelle loro legittime ambizioni, da un sistema che respinge ai margini estremi chi rifiuta di affiliarsi, di sottomettersi, di rinunciare alla propria dignità”.
In tal senso c’è un tragico filo rosso che lega la storia di Peppino Impastato, l’ideatore di Radio out che denunciò i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini e fu ammazzato da Badalamenti, a quella dell’imprenditore brianzolo. C’è continuità fra Cinisi a Desio: anche Ambrogio Mauri è stato ammazzato dal metodo mafioso che ha dilagato in Italia.
Qui di seguito la mia chiacchierata con l’autrice di Un uomo onesto.

Cosa l’ha spinta a riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda di Ambrogio Mauri?
Credo che la vicenda umana e professionale di Ambrogio Mauri sia l’espressione di un’Italia migliore, e oggi più che mai questa parte del paese merita di essere conosciuta e ricordata. La sua è una storia passata sempre sotto traccia, perché Mauri non è mai stato un uomo del sistema, nemmeno come industriale. Mi affascinano queste figure destinate all’isolamento dal loro rigore e dalla loro intransigenza. Ad ogni modo è giusto ricordare che, seppure in maniera intermittente, la sua storia è stata tramandata grazie all’impegno di giornalisti come Giancarlo Santalmassi, Massimo Fini, Milena Gabanelli, Marco Travaglio e altri.
Dopo il ’92 Mauri si era illuso che molto sarebbe cambiato e invece è tornato tutto come prima. O peggio di prima?
Per quanto amara, la sua è una bellissima storia di Tangentopoli. Ci restituisce una fotografia di quegli anni scattata, non dagli inquirenti, ma dai cittadini. Ambrogio Mauri era tornato a credere nella giustizia grazie a Mani Pulite. Si era illuso che le indagini e i processi contro la corruzione potessero ripulire l’Italia. Invece, dopo Tangentopoli è scattata la vendetta nei suoi confronti. E c’è stata una selezione darwiniana dei corruttori, sono sopravvissuti i più abili.
Lei che idea si è fatta, era un ingenuo?
Non era un ingenuo. Era un uomo normale, innamorato del suo lavoro e incapace di rinunciare ai suoi principi. Apparteneva ad una generazione che si è trovata a ricostruire l’Italia in un momento di grandi difficoltà e di precarietà e questo richiedeva una tempra eccezionale. In fondo desiderava soltanto fare il suo dovere. Ambrogio Mauri ha tenuto accesa per tutta la vita l’intransigenza della giovinezza, è ciò accade alle persone migliori.
Per spiegare il rigore di Mauri lei ricorda anche una sua partecipazione a Milano, Italia la fortunata trasmissione condotta da Gad Lerner che andava in onda dalla Sala dell’Umanitaria…
Si trattava della trasmissione che in quel momento raccontava meglio di qualsiasi altra il cambiamento in atto nel paese. Ma Mauri era sempre se stesso, in ogni occasione, non aveva quel grado di ruffianeria necessario per sopravvivere in Tv. Non era certamente un uomo di pubbliche relazioni e per dirla con un linguaggio un po’ tecnico quella sera era fuori format. La puntata era dedicata alla crisi economica, non al tema delle tangenti. Lerner intendeva parlare dell’industria italiana travolta dai nuovi equilibri economici che allora scaturivano dall’ingresso sui mercati internazionali dei Paesi dell’Est Europa.
E invece Mauri…
E invece Mauri portava il discorso su altri temi. Lui non aveva il problema della crisi, ma della trasparenza. Ma soprattutto lui non era un ospite televisivo, non aveva nulla dell’accondiscendenza di chi si sente sotto i riflettori. E quella sera probabilmente non scattò una filo di simpatia umana con il conduttore. Anche in questo episodio si legge la sua figura di eretico incapace di compromessi.
Secondo lei quanto ha concorso la corruzione nel determinare l’attuale crisi economica italiana?
Ha concorso in modo drammatico. Al di là degli studi che indicano in termini finanziari quanto pesa la corruzione sul nostro sistema economico e produttivo, c’è stato un impoverimento del nostro livello competitivo. Se un’impresa vince pagando sottobanco non ha vantaggio ad investire nella ricerca e nell’innovazione. Però il discorso non riguarda soltanto le aziende, coinvolge tutti noi. C’è un bagaglio di rinunce e di compromessi che investe la vita di molti italiani. Basti pensare alla bassa qualità dei servizi che riceviamo dallo Stato, nonostante il peso della nostra pressione fiscale, o alla difficoltà di vincere un concorso pubblico affidandosi solo alla propria bravura.
In apertura del suo libro ha riportato una frase di Leopoldo Pirelli: “Se una decina di grandi aziende avessero insieme denunciato la corruzione che era diventata sistema, nessuno avrebbe potuto impedircelo e schiacciarci, tutti insieme eravamo forti a sufficienza per cacciare quel malcostume”.
È la triste verità. Cesare Romiti venne condannato per falso in bilancio e finanziamento illecito dei partiti pochi giorni prima che Mauri si suicidasse. Quella condanna in seguito fu confermata in Appello e in Cassazione. Solo successivamente, nel 2002, in seguito alla depenalizzazione del falso in bilancio, la Corte di Appello di Torino revocherà la sentenza dichiarando che il fatto non costituisce più reato. Si dice che la corruzione costa agli italiani sessanta miliardi di euro l’anno, ma al danno economico vanno sommate le conseguenze quotidiane della selezione in negativo delle imprese prodotta dalla corruzione stessa.
Non ci sono più speranze?
Abbiamo l’obbligo di continuare a sperare e di riprenderci il nostro domani. Solo così Ambrogio Muri avrà vissuto per qualcosa, perché nessuno più debba morire come lui. Ho scelto di associare alla vicenda di questo imprenditore brianzolo una storia sintetica dell’Italia proprio per ricordare ai più giovani le vicende che hanno investito il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Non è mai stata mia intenzione fare un libro pessimista. Ho voluto scrivere un libro capace di muovere una rabbia che fa agire. L’Italia del malaffare fa sistema perché ha il collante del denaro. L’Italia degli onesti deve imparare a fare sistema tirando fuori il meglio da se stessa. La crisi che stiamo attraversando deve servire almeno a questo: a fare emergere una classe migliore.

Qualcuno ha scritto: onesti si nasce, delinquenti si diventa. Impossibile trovare parole più adeguate per concludere questa chiacchierata.

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Sempre un passo avanti
Ambrogio Mauri, su uno dei suoi bus. L’imprenditore brianzolo introdusse soluzioni impensabili per la sua epoca. Fu il primo in Italia a proporre l’alluminio per le carrozzerie, un materiale che garantisce ai mezzi leggerezza e durata, con un abbattimento consistente dei costi di gestione. Agli inizi degli anni ’80, quando la tecnologia e l’elettronica erano lontanissime dalle conoscenze attuali, concepì il Bibus, una risposta geniale ai problemi dell’inquinamento urbano: il bus poteva funzionare a gasolio nei tratti extraurbani, ma una volta entrato in città era in grado di procedere a elettricità, senza alcun rilascio di anidride carbonica. Sempre negli anni Ottanta, Mauri progettò un nuovo autobus da diciotto metri, non più a quattro assi portanti, ma a tre. Un cambiamento che rese i mezzi più maneggevoli per chi guidava e più comodi per chi ci saliva, perché il motore poteva essere spostato dalla parte centrale a quella posteriore, consentendo di abbassare il pavimento e guadagnare spazio all’interno. Oggi i mezzi in circolazione sono tutti così, a tre assi. Come li aveva concepiti Mauri.