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Oltre l’era del petrolio. Sarà la volta buona?

petrolio

Il petrolio è stato uno dei protagonisti degli ultimi mesi. Un vero e proprio terremoto si è abbattuto sulle quotazioni del greggio, precipitate da oltre 100 a meno di 60 dollari al barile. I mercati finanziari ne stanno risentendo, ma per l’economia reale, espressione vaga con cui si è soliti indicare la vita di noi comuni mortali, è una boccata d’ossigeno.

Le ragioni del crollo sono tutte di mercato secondo alcuni: si è continuato ad aumentare la produzione, soprattutto americana, mentre dall’inizio della crisi economica mondiale si è chiesto meno petrolio del previsto. A livello mondiale il 2014 si è chiuso a 92,4 milioni di barili al giorno, 200 mila in meno di quanto atteso (stime IEA). In Italia, negli ultimi dieci anni la flessione dei consumi petroliferi è stata addirittura del 36% (fonte UP). Una boccata d’ossigeno non solo per l’economia reale, ma anche per i nostri cieli.

L’altra faccia della medaglia sono i rischi geopolitici: un prezzo troppo basso potrebbe spostare gli equilibri economici mondiali. Secondo altri analisti del settore il prezzo del petrolio è sceso a causa dell’intenzione dell’Arabia Saudita, condivisa con gli alleati americani, di colpire le economie della Russia e dell’Iran.

Vale sempre la pena ricordare che il petrolio è un’arma formidabile per mutare o condizionare le vicende e gli assetti globali. Nessuno può negare, infatti, che la storia mondiale del petrolio è tristemente segnata, oltre che dai danni all’ambiente e alla salute, da guerre, colpi di stato, corruzione e assassinii.

E qui veniamo all’altro motivo per cui durante questo 2014 si è parlato molto di petrolio. Lo scorso settembre il New York Times ha dato una clamorosa notizia: i Rockefeller, la dinastia che ha fatto la sua fortuna con le fonti fossili, stanno ritirando le partecipazioni azionarie dalle centrali e dalle miniere a carbone e dalle sabbie bituminose per incrementare gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili.

La giornalista e attivista Naomi Klein ha spiegato in un brillante articolo pubblicato da The Guardian che l’iniziativa dei Rockefeller non è isolata: le aziende che producono combustibili fossili stanno diventando nocive non solo per l’atmosfera, ma anche per il mondo delle relazioni pubbliche. Ne sono una riprova le decisioni recenti di Lego, che ha annunciato di non voler rinnovare la collaborazione con Shell Oil, un contratto di co-branding in vigore da molto tempo in virtù del quale i bimbi di tutto il pianeta hanno fatto il pieno alle loro macchinine di plastica in stazioni di servizio Shell giocattolo, o delle Università di Glasgow e di Stanford in California, che hanno comunicato la volontà di disinvestire dal settore carbonifero.

Piccoli o grandi per ora sono solo segnali. Intanto, associazioni e attivisti in tutto il mondo stanno aumentando le pressioni su aziende e organizzazioni affinché interrompano i rapporti con il settore dei combustibili fossili. Si tratta di un’autentica rivoluzione economica, sociale e culturale tesa a convincere un numero crescente di attori di un semplice fatto: i profitti dell’industria oil sono stati accumulati inquinando consapevolmente i nostri cieli e pertanto dovrebbero essere considerati a loro volta tossici. Se si accetta l’idea che quei guadagni sono moralmente illegittimi, tutti, dalle istituzioni pubbliche agli enti privati, dovrebbero di conseguenza prenderne le distanze.

Come ha rilevato la stessa Klein, molti osservatori sono scettici. Queste azioni non potranno danneggiare sul serio le società petrolifere o carbonifere, anche perché altri investitori saranno pronti a rilevare le azioni e la maggior parte di noi continuerà ad acquistare combustibili fossili finché le nostre economie non offriranno opzioni accessibili sul fronte delle rinnovabili.

Queste critiche, seppure fondate, ignorano le potenzialità di simili campagne. Da quando l’Unione Europea ha posto un freno allo strapotere delle multinazionali del tabacco, vietando la pubblicità e la sponsorizzazione diretta, si è verificata un’inversione di tendenza culturale che, seppure non ancora del tutto compiuta, ha favorito la conoscenza dei danni provocati dal fumo. Certo, grazie alle leggi anti-fumo le vendite delle sigarette sono in crisi in Occidente, ma intanto l’industria del tabacco sta conquistando milioni di nuovi clienti nel sud del mondo.

Da qualche parte, però, si deve pur cominciare a ripulire il mondo.

Fonte http://www.rivistanatura.com

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E se la smettessimo di volere di più?

consumi

La crescita economica è stata il solo e unico faro che ha guidato per decenni i Paesi del capitalismo avanzato, l’obiettivo da perseguire con ogni mezzo. Ma il prezzo che si è dovuto pagare è stato altissimo. Ecosistemi distrutti, paesaggi devastati, aree urbane isterilite. Per non parlare dei costi umani. Da un lato del pianeta sono emerse nuove forme di schiavismo, dall’altro lato si sono consolidati modi di vita alienanti.

Da tempo, però, una fetta di mondo ha messo in discussione alcuni idoli dei nostri tempi, a cominciare dal mito della crescita e dalla fede nel Pil… (continua) E se la smettessimo di volere di più?.

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L’ economia con effetto a cascata è una leggenda

La libera concorrenza è un principio cardine dello sviluppo economico del mondo occidentale e negli ultimi decenni anche di molte altre aree del pianeta. Sì, le disuguaglianze esisteranno, diceva la teoria, ma i ‘vincitori’ potranno sempre risarcire i ‘perdenti’ e il libero commercio sarà una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, però, si sta rivelando sempre più sbagliata… (continua)

L’ economia con effetto a cascata è una leggenda.

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Non è un paese per imprenditori

Ambiente: Squinzi a Letta, irrealistica riduzione 40% CO2

Gran Bretagna, Germania, Francia e altri 8 Paesi (tra questi l’Italia) stanno spingendo affinché il prossimo 22 gennaio in sede europea sia approvato un ulteriore inasprimento delle politiche anti-inquinamento: in sostanza si tratterebbe di alzare dal 20 al 40% il taglio delle emissioni di CO2 entro il 2030. I massimi rappresentanti degli imprenditori italiani sono insorti. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Enrico Letta, per chiedere di rivedere la posizione italiana. Interpellato al riguardo, Squinzi ha dichiarato con il ‘consueto ottimismo’ che un simile provvedimento «sarà catastrofico per la competitività del sistema manifatturiero italiano». Il Sole 24 Ore, che è il giornale di Confindustria, ha sostenuto la tesi del presidente degli imprenditori. In un breve articolo apparso sulla versione digitale di ieri è stato spiegato che “se l’arcigna Europa del rigore si agghinda con la camicia di forza dell’ambientalismo velleitario, per i Paesi in cerca di una via di fuga dalla recessione, come è l’Italia, non può che esserci prima paralisi, poi declino”. Quindi il suggerimento: “prima di firmare appelli autolesionisti con compagni di strada che nulla hanno da perdere (perché magari puntano sui servizi e non sulla produzione) meglio pensarci”. Quali sarebbero i compagni di squadra che puntano sui servizi e non sulla produzione? La Germania, per esempio!?!
Squinzi approfitta anche di questa situazione per chiedere il solito ‘aiutino’. Secondo il presidente di Confindustria, infatti, quello che serve è un sostegno alle imprese: «Auspichiamo che le decisioni che saranno assunte in sede europea in merito diano un segnale di sostegno alla competitività dell’industria e non penalizzino il sistema produttivo italiano». Francamente ne abbiamo le palle piene di queste aziende che chiedono e arraffano aiuti per poi mettere sotto scacco i lavoratori e i cittadini. Come non se ne può già più di sentire parlare di una ripresa alle porte, forse già in atto, ma di un’occupazione che non tornerà a crescere, almeno a breve. La posizione di una gran parte degli imprenditori italiani è efficacemente sintetizzata da una nota battuta di Ricucci. Tolti alcuni casi eccezionali, ne cito uno per tutti, Leonardo Del Vecchio, il nostro capitalismo nazionale da sempre è rappresentato  da nanismo congenito delle imprese, incapacità di diventare globali, intreccio con la politica. I percorsi biografici da veri industriali scarseggiano in Italia, esattamente come gli imprenditori disposti a rischiare in proprio. Si cerca piuttosto il potere, un ruolo di comando, visibilità e influenza politica. Sempre con i soldi degli altri. Le grandi famiglie capitaliste italiane sono sempre state così. Dall’avvocato in giù. Non hanno mai tirato fuori una lira di tasca propria per le aziende. 
Dal principio della crisi Confindustria ha scaricato tutte le colpe e le responsabilità sulla politica. Che quest’ultima sia colpevole è un fatto certo. Ma è altrettanto certo che le imprese hanno altrettanti scheletri negli armadi. L’elenco di aziende che hanno ricevuto aiuti e poi hanno delocalizzato sarebbe assai lungo. Eppure Squinzi si presenta in ogni occasione col cappello in mano, dichiarando a pie’ sospinto che le aziende sono «vicinissime alla fine». Dopo la spesa pubblica e la concorrenza sleale, il nuovo ostacolo si materializza nella lotta all’inquinamento. Che le imprese italiane, chi l’avrebbe mai detto?, non possono sostenere. E pensare che l’Italia dal 1990 ha ridotto le emissioni di gas serra del 6%, la Germania del 25%. Eppure l’economia in crisi è la nostra, non la loro. Insomma anche la green economy da noi resta una svolta sacrosanta solo nelle parole dei convegni. Naturalmente pagati con i soldi degli altri.

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Segnali di ripresa

Alcuni indicatori economici sembrerebbero suggerire l’inizio di una tiepida ripresa anche per l’Italia. Gli esperti non sono ancora del tutto concordi al riguardo, ma proprio in questi giorni giunge un segnale incontrovertibile. Si tratta della nuova pubblicità del mensile automobilistico alVolante. Ebbene sì, i giornali su carta esistono ancora e nonostante la violenta recessione è sopravvissuto perfino il mercato dell’automobile. Ma a confermare il ritorno a vecchie e rassicurati abitudini è soprattutto il gadget che il numero della rivista in edicola questo mese offre ai suoi lettori: il leggendario Arbre Magique, autentica icona pop dei rampanti e faraonici anni Ottanta. Rispolverate gli stereo 8 di Fausto Papetti, stiamo uscendo dal tunnel.

arbre magique

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Fanfaronate estive sulla pelle arsa dei poveri italiani

Sentirete il premier Letta sproloquiare di ripresa alle porte, ma intanto il Pil continua a contrarsi. Sono di oggi i dati relativi al secondo trimestre del 2013, che registrano l’ottavo calo consecutivo.
Sentirete il ministro Bray fantasticare sul rilancio dei nostri beni culturali e paesaggistici; l’altro ieri ha dichiarato «Renderemo Sibari un bene d’eccellenza». Ma intanto in Liguria, solo per fare uno dei tanti esempi possibili, e sottolineo in Liguria, (non dunque nella martoriata, disgraziata e irreparabilmente persa Calabria) la celeberrima «Via dell’Amore», lo storico sentiero a picco sul mare che collega Riomaggiore e Manarola, nel Parco delle Cinque Terre, un luogo che quasi in ogni angolo del globo sarebbe trattato con la massima cura e attenzione possibili, resta chiusa dopo la frana che 12 mesi fa travolse e ferì 4 turiste australiane.
Questo non è l’unico Governo possibile, checché ne dicano i governanti stessi e i tromboni del Corriere della Sera, servili portavoce degli interessi finanziari e industriali favoriti da Letta&Co.
Questo è un governo, come del resto il precedente, e il precedente ancora, e il precedente ancora, che spegnerà le ultime, deboli speranze. L’Italia è un Paese aggrappato all’orlo del baratro con la punta delle dita. E su quelle dita danzano baldanzosi i nostri ministri. Mossi dai loro burattinai.

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Dialogo con un amico svizzero

– Ciao, Damien, come va?
– Bene, bene, grazie.
– E Valery?
– Sta bene anche lei.
– E il piccolo?
– Oh, è bellissimo.
– Quanto pesava alla nascita?
– 4 chili e mezzo, un vero Ercolino.
– Wow, 4 chili e mezzo! Complimenti. Vi fermate un po’ in Italia?
– Solo un paio di settimane, poi io ricomincio a lavorare. Da noi le scuole riaprono ad agosto.
– E Valery invece si godrà un po’ più di ferie…
– Bah, non tanto. A ottobre ricomincia a lavorare anche lei.
– A ottobre? Ma la licenza di maternità?
– In Svizzera dura solo 4 mesi, dalla data della nascita.
– Solo 4 mesi?!? Davvero così poco?
– Eh sì. Sai è anche per questo che la nostra economia va ancora bene.

Già.

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Ah, la crisi!

Ormai giustifichiamo tutto con la crisi. Ogni fallimento, ogni scelta sbagliata, ogni errore trovano un alibi nella crisi. Abituati a specchiarci in questa Italia ripiegata su stessa, ci siamo convinti che tutto il mondo sta andando a rotoli come noi. Ebbene, le cose non sono affatto così. Solo qualche giorno fa ho visto in Tv l’ennesimo servizio che cercava di spiegare le origini di questa recessione. Ancora una volta sono passate le immagini degli impiegati della Lehman Brothers che lasciavano i loro uffici con le scatole di cartone in mano. Già, la Lehman Brothers, ricordate? Tutto è partito da lì, almeno così ci raccontano da anni. Lo scandalo dei sub-prime (che qua in Italia non sapevamo neppure cosa fossero) e il fallimento di una grande banca americana. Da noi, invece, non è fallita nessuna banca, affermano con orgoglio certi italiani. Vero, ma siamo sicuri che tenere sempre insieme tutto, il marcio con il fresco, sia un bene? Esaminiamo qualche dato. Dopo che è scoppiata la crisi americana (ufficialmente il 9 ottobre 2007) la Borsa di Wall Street ha ripiegato, poi lentamente è tornata a salire. In queste ultime settimane i principali indici statunitensi, S&P500 e Dow Jones, hanno toccato valutazioni mai raggiunte in tutta la loro lunga storia. Invece il nostro Ftse Mib (l’indice dei titoli principali quotati a Piazza Affari) ha perso quasi il 60% dall’ottobre 2007. Chiaro? No? Proviamo a spiegarla così. Un americano che nel 2007 ha investito 1000 dollari nella Borsa di NY oggi se ne ritrova sicuramente di più, mentre un italiano che sempre nel 2007 ha investito 1000 euro nella Borsa di Milano oggi se ne ritrova circa 400. E i sub-prime? E Lehman Brothers? Quelle restano storie per giornalisti italiani che non hanno voglia di aggiornarsi e riciclano all’infinito le stesse notizie. 

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Crollano i consumi. Ma non lasciatevi ingannare

Crollo dei consumi nel 2012 (-2,8%), la caduta peggiore dal 1997. Lo ha rivelato l’Istat e si è subito messa in moto la litania dei quotidiani. Premesso che l’affidabilità di queste indagini è assai dubbia, a marzo dopo l’ennesimo dato sui consumi in picchiata si era detto che si era tornati ai livelli del 2004, resta ferma la necessità di interpretare il fenomeno e soprattutto il paragone con il passato. Cosa significa essere tornati al 2004 o aver registrato il peggior dato dal 1997? Qual era la situazione dei consumi delle famiglie italiane in quegli anni? Provo a esercitare il compito che la gran parte dei giornalisti economici, sebbene profumatamente remunerati, non svolgono. La gran parte si limita a riprendere i dati e perfino i commenti rilasciati dai vari istituti di ricerca. Il risultato è quello che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi sfogliando i giornali: un lungo belato, uguale per tutti. Vi propongo un passaggio contenuto in una lezione di Mario Draghi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia, tenuta nel 2007 all’Università di Torino. «La spesa pro capite per consumi è oggi più che raddoppiata rispetto al 1970. La sua crescita si è però fermata negli ultimi sei anni, dopo essere stata pari in media all’1,7 per cento nel corso degli anni Novanta. Dal 1990 la dinamica dei consumi è stata comunque assai più sostenuta di quella del reddito disponibile, il cui valore pro capite è rimasto sostanzialmente stazionario per tutto il periodo». Poche parole che spiegano molte cose. Innanzitutto che, tolta una breve parentesi fra il 1992 e il 1993, i consumi erano cresciuti ininterrottamente per 30 anni, per poi assestarsi negli ultimi 5 o 6. Questo aumento dei consumi peraltro è avvenuto pur in presenza di un reddito stazionario negli anni Novanta. E allora occorre porsi qualche domanda: non siamo stati scriteriati prima? Era così necessario spingere i consumi in assenza di un’adeguata crescita della ricchezza individuale? Spingere il credito al consumo fino ai livelli pre-crisi non è stato fortemente irresponsabile? Gran parte della stampa, indistintamente dal Corriere della Sera a Repubblica, passando per Il Giornale, La Stampa, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Avvenire e Libero, si limita a lanciare allarmi e seminare il panico. Eppure basterebbe poco, forse soltanto un po’ di voglia di studiare, per analizzare in modo più approfondito i dati che vengono somministrati con generosità. Se rinunciamo a fare questo, non comprenderemo mai cos’è accaduto e men che meno dove stiamo andando. È la sacralità della merce e del suo consumo ad essere entrata in crisi, più ancora della nostra economia. Il cosiddetto consumo emotivo coinvolge una fascia di popolazione che si assottiglia di giorno in giorno. Se la nostra economia produttiva continuerà a proporre modelli di consumo indotti e si affiderà alla vecchia logica dello status symbol quasi certamente la regressione proseguirà. Gli anni ’80 hanno legittimato socialmente l’edonismo. La nostra vecchia cultura contadina improntata a valori come dovere, misura e sacrificio è stata soppiantata da una forma di individualismo narcisistico dominata dal desiderio di soddisfare ogni forma di piacere attraverso i consumi. L’edonismo per la verità non è un prodotto di quegli anni, perché già nel passato è stato al centro delle riflessioni di importanti scuole filosofiche; la differenza è che nel decennio dell’effimero è diventata una pratica, un obiettivo di massa, non più una suggestione filosofica di carattere selettivo o elitario. Nel nuovo edonismo il conseguimento del piacere si è trasformato in una delle motivazioni più addotte per giustificare gli acquisti. Per fortuna però l’homo ludens, quello che confonde i desideri con i bisogni, si sta rivelando una specie più debole dell’homo sapiens e per un semplice principio darwiniano sembra destinato a scomparire. In quali tempi non si sa, tuttavia una fascia sempre più ampia di popolazione si sta interrogando sul bisogno irrazionale di consumare. Molti di noi hanno cominciato a comprendere che affannarsi per soddisfare futili desideri è totalmente privo di senso e che l’arrembante corsa ai consumi non serve ad accrescere la nostra felicità. Tuttalpiù serve ad alimentare un sistema al cui interno solo pochi traggono benefici esagerati. Per queste ragioni l’esercito di consumatori edonisti privi di qualsiasi facoltà raziocinante si sta riducendo. Ora non vorrei peccare di ottimismo: vedo ancora in giro parecchia umanità che s’illude di affrancarsi dalla condizione di miseria intellettuale in cui versa indossando scarpe e occhiali griffati oppure guidando un’automobile che il più delle volte assorbe gran parte delle disponibilità economiche. E soprattutto vedo muoversi con aria minacciosa una pletora di economisti, politici e opinionisti che invoca la crescita. Tutto risponde a un disegno preciso, quello di farci ripiombare nel ruolo di stolidi consumatori perennemente indebitati. Ora spetta a noi resistere. Se lasciarci ricondurre nell’ovile, che è rappresentato da luoghi infernali dove tutto è studiato per indurci a soddisfare il desiderio di acquistare. Oppure non tornare nel branco. Se scegliamo questa seconda strada, il crollo dei consumi, perlomeno dei consumi generati dalla ‘fabbrica dell’uomo indebitato’, ci spaventerà assai meno di quanto vorrebbero loro.

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Il Belpaese consumato dal consumismo

Nel post pubblicato ieri ho cercato di sintetizzare le ragioni per cui la nostra economia non tornerà a crescere, perlomeno non nelle forme ossessive del passato. Forse un auspicio più che una previsione. Torno sul tema per rafforzare la tesi con due approfondimenti. Il primo giunge dalle pagine dei quotidiani di oggi, che offrono la consueta litania della mancata ripresa. L’esempio quotidiano è paradigmatico perché riguarda il mercato dell’automobile. Ve lo propongo nella versione del Corriere della Sera, visti i rapporti ‘familiari’ fra il quotidiano di via Solferino e il marchio automobilistico nazionale. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulle previsioni degli analisti (lo so, il termine ormai fa sorridere molti): niente ripresa fino al 2019. Nel 2009 si era vaticinata la ripresa entro il 2010, nel 2010 entro il 2011 e così via. Adesso hanno pensato bene di prendersi qualche anno in più di agio, così siamo già arrivati alle soglie del 2020. Ma tra sette anni molte più persone si saranno rese conto che un’auto usata con parsimonia e tenuta con cura ha un ciclo vitale lungo, quindi il processo di ‘demotorizzazione’ delle famiglie sarà più spinto e di conseguenza la capacità produttiva degli stabilimenti risulterà ancora più inadeguata per eccesso. Possiamo solo confidare che da qui al 2020 una parte consistente degli investimenti privati e dei sostegni pubblici sia destinata a nuove forme di economia, quali la custodia e il risanamento del territorio, la cultura, il turismo, in modo che la forza lavoro in uscita dai settori in crisi possa trovare nuove e più allettanti prospettive occupazionali altrove.
Il secondo approfondimento giunge invece da un video incluso in uno dei commenti (ringrazio l’autore) al mio post di ieri. Parla del nostro attuale sistema produttivo, di consumismo, inquinamento e multinazionali. La sua visualizzazione richiede un po’ di tempo ma, credetemi, ne vale la pena. Se non siete ancora del tutto convinti di essere finiti in una gigantesca trappola per topi, dopo aver seguito attentamente questo video aggiungerete perlomeno un tassello al vostro processo verso la consapevolezza.

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Perché la nostra economia non si riprenderà

Lo so, questo post parte con un titolo fastidioso. Se siete fra quelli che vogliono solo sentirsi raccontare che presto l’economia italiana tornerà a correre a gonfie vele, e che dunque torneremo tutti quanti, o quasi, a consumare come polli d’allevamento, be’ il suggerimento è di chiudere la pagina. Se invece vi annoverate fra quanti hanno deciso di sottrarsi alla tirannia del credito forzato e alla schiavitù della fabbrica dell’uomo indebitato, allora procedete pure.
È la sacralità della merce e del suo consumo ad essere entrata in crisi, più ancora della nostra economia. L’edonismo consumistico avviato con il boom di fine anni Cinquanta/primi anni Sessanta ha raggiunto il suo culmine negli anni Ottanta. Tale edonismo ha travolto e sostituito ogni altro valore del passato con l’unico principio perseguito e diffuso: il benessere. In realtà col trascorrere degli anni una fetta via via più ampia di popolazione si è resa conto che il termine benessere non svelava una sana prosperità,  ma  celava piuttosto un bisogno irrazionale di consumare. Difatti se da un lato la qualità della nostra vita progrediva grazie alla disponibilità di nuove tecnologie, dall’altro contemporaneamente regrediva a causa dell’assunzione di ritmi sempre meno naturali e dell’inquinamento dilagante dei luoghi in cui viviamo. Allora, seppure con lentezza, hanno cominciato a diffondersi comportamenti più equilibrati, attenti all’impatto ambientale e sociale dei nostri consumi. Poi, fra il 2007 e il 2008 è arrivata la crisi, prima finanziaria, poi produttiva, ora sociale. Una massa gigantesca di persone hanno cominciato a frenare i propri consumi: alcuni lo hanno fatto per necessità, altri per timore, altri ancora per contagio. A questo punto è entrata in gioco la variabile impazzita, il cosiddetto cigno nero, cioè l’elemento imprevedibile che muta gli scenari. Fra la massa di persone che hanno cominciato a ridurre i consumi è cresciuto gradualmente il numero di coloro che si sono interrogati sui propri comportamenti pregressi. In parole povere molti hanno cominciato a comprendere che quell’affannarsi per soddisfare futili desideri era totalmente privo di senso. O, ancor meglio, che quell’arrembante corsa ai consumi non serviva ad accrescere la propria felicità, ma semmai ad alimentare un sistema al cui interno solo pochi traevano benefici esagerati. L’omologazione culturale che Pier Paolo Pasolini ha denunciato con quarant’anni di anticipo ha prodotto un esercito di consumatori edonisti privi di qualsiasi facoltà raziocinante. Per di più questa folle e disperata rincorsa al superfluo è stata accompagnata dallo squallore e dal degrado delle condizioni culturali di ampie fasce di cittadini, giovani e meno giovani che si sono illusi di potersi affrancare dalla loro condizione di miserabili indossando scarpe e occhiali griffati oppure guidando un’automobile che il più delle volte assorbiva gran parte delle loro disponibilità economiche.
Ora, quando il presidente di confindustria o il capo del governo, e con loro una pletora di economisti, opinionisti, editorialisti, invocano la crescita, non stanno pensando a null’altro che alla perpetuazione di quello stesso sistema da cui molti di voi si sono già allontanati o stanno tentando di sfuggire. Un sistema che vuole ricondurvi come un gregge nell’ovile, e l’ovile che vi attende è rappresentato da luoghi infernali dove non saprete resistere al desiderio di acquistare, quasi fosse il solo modo conosciuto per dimostrare di esserci. Luoghi dove perlopiù si vendono merci scadenti, perché l’economia dei consumi facili predilige prodotti di bassa fattura, che si logorino in fretta o si possano migliorare continuamente. La tradizione, il valore artigianale, la cura per il bello sono considerate soltanto perdite di tempo nella società opulenta della crescita “illimitata”.
Tutto risponde a un disegno preciso, quello di farci ripiombare nel ruolo di stolidi consumatori perennemente indebitati. Questa sì, sarebbe la fine di un’Italia già sufficientemente avvilita e degradata, in preda al vuoto dei valori e all’assoluto permissivismo. Ma gli appelli e le bieche manovre sostenute dai banchieri di destra e di sinistra non hanno fatto i conti con il crescente numero di italiani desiderosi di non tornare nel branco. Per questo, spero, la nostra economia non si riprenderà. Perlomeno non come vorrebbero ‘loro’.

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Gli avvoltoi che speculano e si arricchiscono sulle nostre rovine

Povertà

Non se ne può più. Letteralmente. Non passa giorno, ma che dico giorno, non passano ore, minuti senza che ci venga propinata l’ennesima indagine sulla crisi e la rovina delle famiglie italiane. L’immagine che emerge è sempre più sconfortante: crolla il potere d’acquisto, peggiorano le condizioni del ceto medio e cresce il numero delle persone in chiara difficoltà economica. La triste litania ci viene somministrata con quotidiano strazio da giornali e Tv. I conduttori dei Tg fanno a gara per chi strilla di più sui titoli di testa: “Sale al 35% il tasso di disoccupazione giovanile!”, “Chiudono mille aziende al giorno!”, “Si ammazzano gli imprenditori!” e “Stramazzano i consumi”.
Complici di questo balletto di cifre sono gli Istituti di ricerca, Istat in testa, i Centri Studi di Confindustria e delle Camere di Commercio e a seguire quelli delle innumerevoli quanto inutili Associazioni di categoria. C’è un esercito di predoni per cui la crisi è un business. Poggiano il culo sulle loro comode poltrone, leggono qualche dato, interpellano un paio di esperti, fanno condurre sondaggi a un plotone di disperati sottopagati e alla fine, compiaciuti, diramano il loro comunicato. Che tutti inconsapevolmente diffondono dalle righe dei propri quotidiani o dalle telecamere delle proprie Tv, sempre e naturalmente col culo poggiato su comode poltrone. Mai nessuno di loro si domanda quale possa essere la reazione di chi sta dall’altra parte, cioè dei lavoratori che temono di perdere il posto, dei disoccupati, degli imprenditori prossimi al fallimento, delle famiglie costrette non a un risparmio virtuoso, ma a mendicare fra gli avanzi di un mercato rionale. No, non se lo domandano, statene certi. E non gliene potrebbe fregare di meno. Oh sì, parlano di povertà. Anzi, siamo proprio un Paese fortunato, sempre più povero, ma ricco di paladini dei poveri. Perché parlare di povertà è diventato il nuovo esercizio di oratoria dei nostri opinionisti e dei nostri conduttori televisivi. La Tv spazzatura ama mandare in onda scene di anziani ripresi mentre rovistano fra la spazzatura. È un cerchio che si chiude. Ma i nostri filantropi a gettone non sanno nulla di povertà, lo trattano come un qualsiasi altro argomento. Potrebbe trattarsi di guerre, stragi o calamità naturali, invece è solo povertà. Tanto loro restano inesorabilmente attratti dai rapporti di forza e dal peso del denaro.
Diciamoci la verità: chi vive in questa terra di mezzo che si allarga senza pietà, dove si trovano persone non ancora classificabili come povere, ma che versano innegabilmente in uno stato di insicurezza e di instabilità crescente, non ha proprio voglia di sentirsi raccontare ogni giorno storie di giovani precari e cinquantenni espulsi dal mondo del lavoro. Chi ha paura del futuro, chi cammina su una fune, in equilibrio incerto, con il timore di cadere proprio là, dove vivono i poveri, ricava dalla vita quotidiana lo stato di difficoltà crescente, e non ha proprio bisogno di conoscere i dati delle ultime indagini della Cgia di Mestre o della Camera di Commercio di Monza e Brianza, tanto per citare un paio di “attivisti” del terrore.
Un’ultima considerazione, ma prima una premessa. Avviso i gentili lettori che questo argomento potrebbe non essere di loro gradimento perché già trattato a sufficienza. Chi non fosse interessato a sentire una questione trita e ritrita è pregato pertanto di chiudere il post. E abbia anche le mie scuse per avergli fatto leggere le righe precedenti. Dunque dicevo, un’ultima considerazione. In tutte le situazioni di crisi, anche le peggiori e le più atroci come i conflitti sanguinari, c’è chi si arricchisce. Si tratta di un semplice, quanto odioso dato storico. In questo momento si scende, scende, scende. Ma non dimentichiamoci che mentre noi altri poveracci diventiamo proprio pezzenti, c’è chi può permettersi di attendere, attendere e attendere ancora. Attendere cosa? Be’ che i prezzi delle cose accumulate con fatica durante la nostra vita (per esempio la casa in cui si vive) diventino irrisori, così che possano portarceli via per un pugno di mosche. Erano ricchi e a fine crisi lo saranno molto di più.

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Africa: è venuto il momento di restituire

africabimbo

Se si osserva il panorama economico globale, è facile rendersi conto che molti vecchi protagonisti sono stati spodestati dai nuovi: la Cina, prima di tutti, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa, la Corea del Sud. Alcuni di loro hanno già detto che l’epoca dei G8 è finita. Oggi si deve parlare almeno di G20. E in questo ipotetico governo delle potenze più industrializzate, Paesi come Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna non occupano più i primi posti.
Ma c’è anche una terra che sembra invece destinata a restare solo un grande forziere da depredare: l’Africa. Attraverso le sue immense ricchezze naturali, questo continente ha contribuito a finanziare due guerre mondiali e il progresso economico europeo. Al suo saccheggio permanente, grazie al quale l’Occidente si è impadronito di caucciù, oro, avorio, rame, bauxite, petrolio, uranio e forza lavoro a basso costo, ora si sono aggiunte le potenze asiatiche in ascesa, in particolare la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica dell’India che stanno facendo incetta di terreni fertili.
Certo, quella che si affaccia al 2013 è un Africa in profonda trasformazione, segnata dalla crescita del prodotto interno lordo di alcune sue Nazioni, ma anche dalle tante miserie mai risolte. Prima fra tutte la fame. Secondo il Rapporto elaborato dalla Fao, insieme all’Ifad (International Fund for Agricultural Development) e al Wfp (World Food Programme) nel 2012 sono stati 870 milioni i malnutriti cronici. A patire maggiormente sono proprio gli africani, dove gli affamati sono cresciuti da 175 milioni a 239 milioni. È migliorata invece di molto la situazione in Asia e passi avanti sono stati compiuti anche in America Latina. Sono terribili i dati riguardanti l’infanzia: ancora 2 milioni e mezzo di bimbi muoiono ogni anno e 100 milioni di loro sono gravemente sottopeso. Purtroppo la situazione non fa ben sperare: entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero spingere altri 24 milioni di bambini nel baratro della fame, quasi la metà di loro vivono nell’Africa sub-sahariana. (Fonte: Wfp).
Secondo una consolidata leggenda, gli antichi cartografi romani designavano le zone inesplorate dell’Africa con la dicitura: hic sunt leones. Oltre la Tripolitania, la Numidia e la Mauritania cominciava l’ignoto. Sono passati duemila anni, ma quelle terre restano ancora sconosciute a tanti di noi. Eppure, come spiega da tempo il missionario comboniano Giulio Albanese, “l’Africa è la cartina di tornasole delle contraddizioni del nostro povero mondo”. È un continente sconfinato, come del resto i suoi problemi: dalla mancanza d’infrastrutture al deficit di democrazia, passando per la corruzione, il debito estero e, non ultimo, lo sfruttamento delle risorse naturali. Padre Albanese insiste su un punto: per risolvere questi drammi occorre prima di tutto sconfiggere certe malefiche opinioni. Come quella, ad esempio, che l’Africa sia povera, mentre in realtà è soltanto impoverita.
Muore un continente, si sente ripetere da decenni. E invece è ancora lì, pur con tutte le sue disgrazie e le sue sofferenze. Alcuni regioni sono riuscite perfino a dare vita a un’economia informale che ha sorpreso gli economisti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. E in alcuni Stati è attiva una classe intellettuale che rivolge incessantemente un messaggio al mondo occidentale, non con i toni di una supplica ma piuttosto con la forza della testimonianza: il nostro mondo è un villaggio globale. Chissà se la vecchia Europa, ora che sente la propria supremazia minacciata dalla vigoria di nuovi Paesi, non saprà riscattarsi da secoli di arroganza e malefatte. In fondo se sinora si è vissuto sopra le proprie possibilità è anche grazie al fatto che si sono sfruttate le ricchezze degli altri. Adesso è venuto il momento di restituire. Crisi o non crisi.

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Sogni e suicidi ai tempi della crisi

«I suicidi non sono aumentati, anzi i suicidi economici in Italia sono diminuiti, voi non ci crederete. All’estero è vietato dare notizie sui suicidi, perché una cosa certa è che procurano l’emulazione. Non applaudiamo al suicidio di stato, perché è così che si crea la sindrome e la gente si ammazza». Con queste parole, su Canale 5, si è espresso il giornalista di Libero e collaboratore de Il Foglio Filippo Facci. Non intendo prendere parte a questo balletto di cifre. Trovo fastidioso e cinico stare a discutere se i suicidi riconducibili a problemi economici siano aumentati o diminuiti. Riconosco, però, che stampa e Tv stanno trattando l’argomento con la consueta superficialità. Buttano in pasto all’opinione pubblica tragedie private con un solo obiettivo: vendere copie e fare audience. Nessuno è davvero interessato ad approfondire i singoli casi per accertare le cause dei ferali gesti.
Vorrei invece affrontare la spinosa questione da un’altra prospettiva. Un paio di settimane fa, il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, ha affermato: «Hanno tutta la mia solidarietà, ma gli imprenditori che si sono tolti la vita non sono degli eroi. Eroe è quello che si alza al mattino e continua a lottare». Zuccato si è spinto più in là: «Penso che quando c’è un suicidio, ci siano altri problemi prima della crisi. Lo ho constatato di persona. Un suicidio di alcuni giorni fa attribuito a problemi aziendali si è rivelato collegato ad alcune concause, quali depressione e problemi familiari dell’imprenditore. Sono argomenti che, su persone fragili, possono essere molto pesanti».
La domanda che mi pongo ogni volta che sento parlare di un imprenditore suicidatosi per i debiti contratti dalla sua azienda o di un lavoratore che si è tolto la vita per avere perso il lavoro è proprio questa: è davvero possibile che le difficoltà economiche e finanziarie, per quanto gravi, possano spingerci a farla finita? Certo, per un industriale non è facile assistere al fallimento della propria creatura, tanto più se si considera che il suo tracollo trascina nel baratro dell’incertezza i dipendenti e le loro famiglie. E altrettanto difficile è la situazione del lavoratore, magari padre o madre di famiglia, che fatica a sostenere economicamente i propri cari. Sono situazioni critiche, è evidente. Nessuno può permettersi di minimizzarle. Nessuno tranne i nostri governanti, che hanno ironizzato sui disastri del precariato e degli esodati.
Resta tuttavia un dubbio e cioè che all’origine della disperazione travolgente ci sia un rapporto deformato con la propria esistenza e con quella dei propri familiari e delle persone più vicine. Può un uomo sopravvivere al fallimento di un’azienda e alla fine di un rapporto di lavoro? Può. Anzi, deve. Nessuna crisi economica può giustificare la totale perdita di fiducia in noi stessi. Responsabilità e coraggio sono doti che oggi più che mai dobbiamo custodire con cura.
Ho conosciuto uomini e donne che hanno superato gravissime disgrazie uscendone trasformati e rinnovati. Fino al punto di raggiungere lo scopo più alto, quello a cui tutti aneliamo: dare un senso alla vita. E questo senso, perdonatemi la banalità, non può essere ridotto alla ricerca di successo e denaro. Assicurare per sé e i propri congiunti la tranquillità economica è un obiettivo condiviso, però il nostro vento nocchiero va cercato anche altrove. Soltanto se abbiamo già dentro di noi il vento che soffia sulla vela riusciremo a veleggiare anche quando c’è bonaccia.
Diceva Seneca: «Tu vorresti insegnarmi come conservare i miei beni e la mia condizione, ma io desidererei piuttosto imparare come potrei perderli ed essere ugualmente felice».
Intendiamoci, proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità condivisa. La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata che sia in grado di affrontare l’enorme sfida di assicurare un benessere duraturo. La vera prosperità consiste nella nostra capacità di crescere bene come esseri umani. Ripensare a un pianeta dove ci sia floridezza senza più bisogno di consumi sfrenati non è soltanto uno slogan carico di suggestioni anarco-hippie.
Occorre andare di slancio oltre l’uso di una metrica monetaria, perché a molti degli elementi che determinano il benessere e anche il progresso non è possibile assegnare in modo accurato un prezzo. Oggi ci serve un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate, nel quale sia possibile avere una serena prosperità. Il “buon vivere”, inteso come paradigma etico e morale, custodisce la ricetta alternativa. Ci esorta a ripensare le nostre relazioni con il mondo e a recuperare il dialogo, ci invita a riconoscere le diversità culturali e a riscoprire i piaceri autentici: un buon libro, una passeggiata all’aria aperta, una cena con gli amici, una gita fuori porta con le persone che amiamo, una giornata al museo dietro casa dove magari non abbiamo mai messo piede, la musica di Mozart o Gershwin, la voce della Callas nell’Andrea Chénier. Nulla di tutto questo è indispensabile per vivere. Però non dimentichiamoci di ciò che recita Prospero nella Tempesta: «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». E i sogni ci parlano della parte più profonda di noi stessi, delle aspirazioni più vere. Non chiudiamo i nostri sogni dentro il caveau di una banca. Perché è allora che, d’un tratto, la nostra vita può apparire inutile.