A ben pensarci non c’è alcun motivo, come italiani, di esaltarci per il successo ottenuto all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, dal film diretto da Sorrentino, La grande bellezza. Lascio a chi è più competente i giudizi sull’opera cinematografica. Non m’interessa in questa sede dibattere se è un lavoro presuntuoso o meno e se è vero che il regista si compiace un po’ troppo per le tantissime citazioni letterarie di cui è imbevuto il film. Vorrei concentrarmi solo sulla storia raccontata.
La grande bellezza rimanda al tempo perduto, sprecato, quello che non può più tornare. C’è l’amore finito del protagonista, sperimentato nell’età più dolce della sua vita. L’amore a vent’anni, vissuto intensamente, ma che improvvisamente si è spezzato e non è stato mai più ritrovato. E c’è il fascino sfarzoso e unico di Roma, capace di provocare una vertigine nell’osservatore. Ma questo fascino apparente immortale deve fare i conti con le brutture dell’Italia odierna.
È in questo passaggio che La grande bellezza diventa spietata e mostra come l’italianità degli ultimi decenni si alimenta solo del proprio passato, perché è incapace di produrre qualcosa di originale, figuriamoci di rivoluzionario. Roma e con essa gran parte del Paese vivono sulle vestigia di un passato del quale noi non abbiamo alcun merito. Tutta questa bellezza l’abbiamo ereditata. E tutto ciò che abbiamo saputo fare è stato di attribuire a noi stessi una grandezza che non ci appartiene. Non ce la meritiamo, perché non abbiamo fatto nulla per proseguire lo straordinario processo creativo, anzi lo stiamo divorando. Forse per questo siamo così arroganti e maleducati, soprattutto all’estero, perché viviamo di una luce riflessa che ormai si sta spegnendo. Presuntuosi senza alcuna ragione.
Il film di Sorrentino parla di questo, non illudiamoci. Anche se a tratti può apparire indulgente con le specifiche di oggi, in realtà racconta un’italianità mediocre, lontana dal suo antico prestigio, approfittatrice, prepotente e volgare. E da fuori gli stranieri ci vedono proprio così. Con quel misto di deferenza per il nostro passato e dileggio per il nostro presente. Come quando si guarda un ragazzino rimbambito, ma figlio di un grande imprenditore, e lo si rispetta perché suo padre è stato un genio. L’immagine che si ha di noi è quella delle nostre piazze, i nostri monumenti, i nostri siti archeologici, la nostra cucina tradizionale, tutte cose per le quali nel presente non abbiamo alcun merito.
L’Italia raccontata dal film di Sorrentino è rassicurante, soprattutto per chi ci guarda con spirito di colonizzazione. È il Paese della decadenza presuntuosa e dell’imbroglio, delle mazzette e dei nobili decaduti, dove non è quasi più possibile distinguere il vero dal falso. Ma è anche il luogo che ancora custodisce la «grande bellezza» di chiese e palazzi, di fronte alla quale ogni turista dell’altro mondo si emoziona e dimentica le nefandezze.
Ecco perché il plauso americano intorno al film di Sorrentino non ci deve esaltare.
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A chiacchiere siamo bravi noi italiani
Mai come di questi tempi tutti denunciano il fango morale e politico in cui ci troviamo a sguazzare. Ovunque c’è aria di sdegno: al bar, in ufficio, in palestra, dal barbiere. Siamo tutti terribilmente schifati da questa Italia e dalle sue pessime abitudini. Che naturalmente non ci appartengono. A chiacchiere siamo tutti civili come scandinavi, organizzati come tedeschi e misurati come svizzeri. A chiacchiere il nostro rispetto per la cosa pubblica è perlomeno simile a quello di un francese o di un inglese. A chiacchiere siamo proprio tanto bravi noi italiani.
La verità è tristemente un’altra, guardiamoci attorno. Oppure, ancora meglio, proviamo un giorno a uscire di casa con il proposito di rispettare le regole, dalla prima all’ultima. Ci renderemo presto conto di essere sopraffatti da un esercito di maleducati e arroganti. Quanti di noi si ricordano di dare la precedenza ai pedoni? Si mettono ordinatamente in fila? Rinunciano a parlare al cellulare in auto? Prima di salire su un mezzo pubblico attendono che gli altri siano scesi? Rispettano il silenzio imposto da certe occasioni o certi luoghi? L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma non serve. L’orrore trascina orrore e la maleducazione incoraggia la maleducazione. Non continuiamo a domandarci chi è quella folla indecente che ci irrita con la propria tracotanza. Siamo noi. Ammettiamolo.
La decadenza dell’Italia, che spazia dalle feste mondane e cafone ai salotti “bene” agghindati da circoli culturali d’elite, è stata sapientemente descritta nel film La grande bellezza. Ora però non intendo innescare un dibattito su chi è maleducato. Anche perché qualcuno potrebbe sostenere che per rilasciare la patente di screanzato occorre avere maturato esperienze sul tema. Però dentro di me, in fondo, molto in fondo, coltivo un piccolo sogno. Che tutti noi italiani, me compreso, includessimo il proponimento di essere più educati. Che è ben differente dal vacuo desiderio espresso ogni giorno di vivere in un Paese migliore. Alziamo l’obiettivo. Proviamo a cercare dentro noi stessi risorse insospettabili. O vogliamo sempre e solo cavarcela? Certo è difficile essere corretti, educati e consapevoli quando si vive in una realtà dove vince (ma siamo sicuri?) il più furbo e il più arrogante. Ciascuno di noi si sente una formica impotente e ha paura che se rinuncerà a essere a sua volta scaltro e prepotente sarà schiacciato. Ma è proprio qui il problema. Finché non riconosceremo che le nostre azioni possono concorrere a cambiare la realtà, non usciremo dalla buca in cui siamo finiti. Non ci sono altre vie d’uscita. Finché continueremo a consolarci facendo finta di credere che i politici sono tutti ladri, gli imprenditori evasori e i ricchi arroganti, mentre noi siamo solo dei poveri cristi, vittime nostro malgrado del sistema, questo resterà un Paese per guappi.