La libera concorrenza è un principio cardine dello sviluppo economico del mondo occidentale e negli ultimi decenni anche di molte altre aree del pianeta. Sì, le disuguaglianze esisteranno, diceva la teoria, ma i ‘vincitori’ potranno sempre risarcire i ‘perdenti’ e il libero commercio sarà una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, però, si sta rivelando sempre più sbagliata… (continua)
Tag Archives: disoccupazione
Gli avvoltoi che speculano e si arricchiscono sulle nostre rovine
Non se ne può più. Letteralmente. Non passa giorno, ma che dico giorno, non passano ore, minuti senza che ci venga propinata l’ennesima indagine sulla crisi e la rovina delle famiglie italiane. L’immagine che emerge è sempre più sconfortante: crolla il potere d’acquisto, peggiorano le condizioni del ceto medio e cresce il numero delle persone in chiara difficoltà economica. La triste litania ci viene somministrata con quotidiano strazio da giornali e Tv. I conduttori dei Tg fanno a gara per chi strilla di più sui titoli di testa: “Sale al 35% il tasso di disoccupazione giovanile!”, “Chiudono mille aziende al giorno!”, “Si ammazzano gli imprenditori!” e “Stramazzano i consumi”.
Complici di questo balletto di cifre sono gli Istituti di ricerca, Istat in testa, i Centri Studi di Confindustria e delle Camere di Commercio e a seguire quelli delle innumerevoli quanto inutili Associazioni di categoria. C’è un esercito di predoni per cui la crisi è un business. Poggiano il culo sulle loro comode poltrone, leggono qualche dato, interpellano un paio di esperti, fanno condurre sondaggi a un plotone di disperati sottopagati e alla fine, compiaciuti, diramano il loro comunicato. Che tutti inconsapevolmente diffondono dalle righe dei propri quotidiani o dalle telecamere delle proprie Tv, sempre e naturalmente col culo poggiato su comode poltrone. Mai nessuno di loro si domanda quale possa essere la reazione di chi sta dall’altra parte, cioè dei lavoratori che temono di perdere il posto, dei disoccupati, degli imprenditori prossimi al fallimento, delle famiglie costrette non a un risparmio virtuoso, ma a mendicare fra gli avanzi di un mercato rionale. No, non se lo domandano, statene certi. E non gliene potrebbe fregare di meno. Oh sì, parlano di povertà. Anzi, siamo proprio un Paese fortunato, sempre più povero, ma ricco di paladini dei poveri. Perché parlare di povertà è diventato il nuovo esercizio di oratoria dei nostri opinionisti e dei nostri conduttori televisivi. La Tv spazzatura ama mandare in onda scene di anziani ripresi mentre rovistano fra la spazzatura. È un cerchio che si chiude. Ma i nostri filantropi a gettone non sanno nulla di povertà, lo trattano come un qualsiasi altro argomento. Potrebbe trattarsi di guerre, stragi o calamità naturali, invece è solo povertà. Tanto loro restano inesorabilmente attratti dai rapporti di forza e dal peso del denaro.
Diciamoci la verità: chi vive in questa terra di mezzo che si allarga senza pietà, dove si trovano persone non ancora classificabili come povere, ma che versano innegabilmente in uno stato di insicurezza e di instabilità crescente, non ha proprio voglia di sentirsi raccontare ogni giorno storie di giovani precari e cinquantenni espulsi dal mondo del lavoro. Chi ha paura del futuro, chi cammina su una fune, in equilibrio incerto, con il timore di cadere proprio là, dove vivono i poveri, ricava dalla vita quotidiana lo stato di difficoltà crescente, e non ha proprio bisogno di conoscere i dati delle ultime indagini della Cgia di Mestre o della Camera di Commercio di Monza e Brianza, tanto per citare un paio di “attivisti” del terrore.
Un’ultima considerazione, ma prima una premessa. Avviso i gentili lettori che questo argomento potrebbe non essere di loro gradimento perché già trattato a sufficienza. Chi non fosse interessato a sentire una questione trita e ritrita è pregato pertanto di chiudere il post. E abbia anche le mie scuse per avergli fatto leggere le righe precedenti. Dunque dicevo, un’ultima considerazione. In tutte le situazioni di crisi, anche le peggiori e le più atroci come i conflitti sanguinari, c’è chi si arricchisce. Si tratta di un semplice, quanto odioso dato storico. In questo momento si scende, scende, scende. Ma non dimentichiamoci che mentre noi altri poveracci diventiamo proprio pezzenti, c’è chi può permettersi di attendere, attendere e attendere ancora. Attendere cosa? Be’ che i prezzi delle cose accumulate con fatica durante la nostra vita (per esempio la casa in cui si vive) diventino irrisori, così che possano portarceli via per un pugno di mosche. Erano ricchi e a fine crisi lo saranno molto di più.
Abbiate rispetto almeno della povertà
Gad Lerner parla di povertà. Fabio Fazio parla di povertà. Barbara D’Urso parla di povertà. Perfino Corrado Passera e Daniela Santanché parlano di povertà. Siamo un Paese fortunato, sempre più povero, ma ricco di paladini dei poveri. Parlare di povertà è diventato il nuovo esercizio di oratoria dei nostri politici e dei nostri conduttori televisivi. La Tv spazzatura ama mandare in onda scene di anziani ripresi mentre rovistano fra la spazzatura. È un cerchio che si chiude.
Ma gli uomini e le donne del potere, i “grandi” delle nostre banche, della nostra politica, dei nostri mercati, della nostra cultura e del nostro intrattenimento, solitamente attratti dai rapporti di forza, dal braccio di ferro e dal peso del denaro, cosa ne sanno di povertà? Vallo a capire.
Eppure blaterano, finti contriti ma entusiasti. Blaterano come si blatera di tutto ciò che risulta misterioso, esotico, nuovo. I messaggi contro la povertà (che già di per sé è un’espressione stupida perché nessuno è a favore della povertà) arrivano più convinti e torrenziali proprio dagli ambienti radicalmente più chic. Parlano di un fenomeno che è a loro del tutto estraneo. E difatti mostrano puntualmente di non comprenderlo. Perché la povertà oggi non è più solo una condizione economica oggettivamente misurabile. È anche un senso di insicurezza. È quel camminare su una fune, in equilibrio precario, con il timore di cadere proprio là, dove vivono i poveri.
I confini tra chi è sopra o sotto certe soglie, tra chi è incluso e chi è escluso dalla povertà sono sempre più sfumati. C’è un’ampia zona grigia dove allignano precarietà e inadeguatezza a un sistema dominato dalla competitività. E in questa terra di mezzo, che si allarga senza pietà, si trovano persone non ancora classificabili come povere, ma che versano innegabilmente in uno stato di insicurezza crescente. Comprende pensionati, famiglie riformatesi a seguito di separazioni, giovani precari, quarantenni e cinquantenni espulsi dal mondo del lavoro. La povertà odierna è un concetto delicato e molto sfaccettato che accomuna chi ha paura del futuro e avverte un senso di instabilità.
I nostri filantropi a gettone invece hanno una visione ottocentesca del fenomeno, sul modello dama di carità. Sono rimasti ai pranzi celebrati al “tavolo dei poveri” che uniscono i benestanti ai diseredati, ma solo per pochi istanti. Il banchetto con i poveri, tornato tanto di moda, ha un sapore davvero antico e tetro. È un modo ridicolo e patetico di affrontare la povertà. L’immagine del magnanime personaggio pubblico che siede a tavola al fianco dei poveri è intrisa di ipocrisia e falsità. Serve solo a lavare la coscienza macchiata da privilegi inauditi.
La crisi è finita
Sissignori, avete letto bene: la crisi è finita. La nuova realtà è questa. È ingannevole inseguire ancora la chimera della crescita. Occorre prendere atto con realismo e umiltà che siamo entrati nella post growth economy, cioè in un’economia del dopo crescita, e che in Italia non ci saranno più incrementi esponenziali permanenti dei consumi e del Pil. Chi ce lo fa credere, ci inganna sapendo di mentire. Tenta solamente di tenerci soggiogati, di promuovere la fabbrica dell’uomo indebitato, di spremerci fino all’ultimo centesimo.
Lo so, la tesi è muscolosa, ma dobbiamo affrontare la realtà. Vogliamo ricordare quali sono state le cause della crisi economica iniziata nel 2008? Quella crisi trae origine dal debito accumulato negli anni precedenti dalle famiglie americane, un debito contratto per soddisfare consumi eccessivi. Gli americani, e come loro gran parte degli occidentali, italiani compresi, hanno abusato per lungo tempo dei prestiti ipotecari e delle carte di credito vivendo al di sopra delle proprie possibilità economiche reali. Hanno acquistato più beni di consumo, auto più veloci e case più grandi e lussuose di quanto si potessero permettere. Insomma la crisi affonda le proprie radici nella spinta estrema al consumismo. L’epilogo, come è noto, è stato che quella crisi americana ha contagiato il resto del mondo.
Le iniziative messe in campo dalla governance internazionale, e in particolare da quella italiana, hanno assunto la dimensione di un crack senza precedenti che fanno legittimamente dubitare della loro efficacia. La deregulation del mercato del lavoro non ha favorito l’occupazione, anzi l’esercito dei senza lavoro e dei precari è cresciuto in modo vertiginoso. E ormai è chiaro a molti che parole come competitività e rilancio dei consumi nascondono in realtà un segreto indicibile: la necessità di continuare a fare profitti con la scusa della crisi. Non crescita dunque, ma nuova truffa.
Quello a cui stiamo assistendo è un triste circo senza speranza che spera di ridare forza alla bulimia consumistica degli anni passati. Ma il tempo è scaduto. Un numero crescente di cittadini non vuole più vivere in una società che sforna persone sempre più sole e sempre più illuse di poter risolvere i propri problemi acquistando beni materiali. La gran parte di noi non è più interessata a vivere al di sopra delle proprie possibilità e soprattutto non vuole più essere schiava del mercato creditizio. La crisi è finita. La nuova società è questa.
Sogni e suicidi ai tempi della crisi
«I suicidi non sono aumentati, anzi i suicidi economici in Italia sono diminuiti, voi non ci crederete. All’estero è vietato dare notizie sui suicidi, perché una cosa certa è che procurano l’emulazione. Non applaudiamo al suicidio di stato, perché è così che si crea la sindrome e la gente si ammazza». Con queste parole, su Canale 5, si è espresso il giornalista di Libero e collaboratore de Il Foglio Filippo Facci. Non intendo prendere parte a questo balletto di cifre. Trovo fastidioso e cinico stare a discutere se i suicidi riconducibili a problemi economici siano aumentati o diminuiti. Riconosco, però, che stampa e Tv stanno trattando l’argomento con la consueta superficialità. Buttano in pasto all’opinione pubblica tragedie private con un solo obiettivo: vendere copie e fare audience. Nessuno è davvero interessato ad approfondire i singoli casi per accertare le cause dei ferali gesti.
Vorrei invece affrontare la spinosa questione da un’altra prospettiva. Un paio di settimane fa, il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, ha affermato: «Hanno tutta la mia solidarietà, ma gli imprenditori che si sono tolti la vita non sono degli eroi. Eroe è quello che si alza al mattino e continua a lottare». Zuccato si è spinto più in là: «Penso che quando c’è un suicidio, ci siano altri problemi prima della crisi. Lo ho constatato di persona. Un suicidio di alcuni giorni fa attribuito a problemi aziendali si è rivelato collegato ad alcune concause, quali depressione e problemi familiari dell’imprenditore. Sono argomenti che, su persone fragili, possono essere molto pesanti».
La domanda che mi pongo ogni volta che sento parlare di un imprenditore suicidatosi per i debiti contratti dalla sua azienda o di un lavoratore che si è tolto la vita per avere perso il lavoro è proprio questa: è davvero possibile che le difficoltà economiche e finanziarie, per quanto gravi, possano spingerci a farla finita? Certo, per un industriale non è facile assistere al fallimento della propria creatura, tanto più se si considera che il suo tracollo trascina nel baratro dell’incertezza i dipendenti e le loro famiglie. E altrettanto difficile è la situazione del lavoratore, magari padre o madre di famiglia, che fatica a sostenere economicamente i propri cari. Sono situazioni critiche, è evidente. Nessuno può permettersi di minimizzarle. Nessuno tranne i nostri governanti, che hanno ironizzato sui disastri del precariato e degli esodati.
Resta tuttavia un dubbio e cioè che all’origine della disperazione travolgente ci sia un rapporto deformato con la propria esistenza e con quella dei propri familiari e delle persone più vicine. Può un uomo sopravvivere al fallimento di un’azienda e alla fine di un rapporto di lavoro? Può. Anzi, deve. Nessuna crisi economica può giustificare la totale perdita di fiducia in noi stessi. Responsabilità e coraggio sono doti che oggi più che mai dobbiamo custodire con cura.
Ho conosciuto uomini e donne che hanno superato gravissime disgrazie uscendone trasformati e rinnovati. Fino al punto di raggiungere lo scopo più alto, quello a cui tutti aneliamo: dare un senso alla vita. E questo senso, perdonatemi la banalità, non può essere ridotto alla ricerca di successo e denaro. Assicurare per sé e i propri congiunti la tranquillità economica è un obiettivo condiviso, però il nostro vento nocchiero va cercato anche altrove. Soltanto se abbiamo già dentro di noi il vento che soffia sulla vela riusciremo a veleggiare anche quando c’è bonaccia.
Diceva Seneca: «Tu vorresti insegnarmi come conservare i miei beni e la mia condizione, ma io desidererei piuttosto imparare come potrei perderli ed essere ugualmente felice».
Intendiamoci, proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità condivisa. La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata che sia in grado di affrontare l’enorme sfida di assicurare un benessere duraturo. La vera prosperità consiste nella nostra capacità di crescere bene come esseri umani. Ripensare a un pianeta dove ci sia floridezza senza più bisogno di consumi sfrenati non è soltanto uno slogan carico di suggestioni anarco-hippie.
Occorre andare di slancio oltre l’uso di una metrica monetaria, perché a molti degli elementi che determinano il benessere e anche il progresso non è possibile assegnare in modo accurato un prezzo. Oggi ci serve un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate, nel quale sia possibile avere una serena prosperità. Il “buon vivere”, inteso come paradigma etico e morale, custodisce la ricetta alternativa. Ci esorta a ripensare le nostre relazioni con il mondo e a recuperare il dialogo, ci invita a riconoscere le diversità culturali e a riscoprire i piaceri autentici: un buon libro, una passeggiata all’aria aperta, una cena con gli amici, una gita fuori porta con le persone che amiamo, una giornata al museo dietro casa dove magari non abbiamo mai messo piede, la musica di Mozart o Gershwin, la voce della Callas nell’Andrea Chénier. Nulla di tutto questo è indispensabile per vivere. Però non dimentichiamoci di ciò che recita Prospero nella Tempesta: «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». E i sogni ci parlano della parte più profonda di noi stessi, delle aspirazioni più vere. Non chiudiamo i nostri sogni dentro il caveau di una banca. Perché è allora che, d’un tratto, la nostra vita può apparire inutile.
Consumo quindi sono?
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, è un uomo pratico, dallo spiccato accento lombardo che trasuda voglia di fare e gronda concretezza. Non ha nulla di quel temperamento aristocratico di certi imprenditori, per intenderci alla Montezemolo. Parla in modo pacato e chiaro. Ieri nello studio di Che tempo che fa ha detto cose perlopiù ragionevoli, anzi così assennate da non strappare applausi. Sollecitato da Fazio, ha parlato anche del Movimento 5 Stelle. “Alcuni punti del programma sono anche condivisibili, ma non sono assolutamente d’accordo con l’idea della decrescita felice” ha detto Squinzi. Poi il presidente di Confindustria ha ricordato che “solo l’impresa può creare ricchezza, valore sociale e occupazione”. Tutto vero, ma a una condizione: che i consumatori consumino. Altrimenti l’impresa in quanto tale produce debiti e disoccupazione. Squinzi ha recitato con onestà la sua parte, quella di un imprenditore a capo degli imprenditori. Tuttavia continuare a praticare come una sorta di fede il mito della crescita non porta lontano. Proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità. Al momento nessuno propone un nuovo modello compiuto, una ricetta chiavi in mano. Ma tutti, imprenditori compresi, devono concorrere alla nascita di un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate. Nel quale sia possibile avere un sereno benessere senza invocare la bulimia consumistica.