Sembrerebbe quasi una maledizione divina, se non fosse che invece di divino in tutta questa storia c’è ben poco. Quella dell’Italia che frana e si sgretola è una tragedia tutta umana. Terribilmente umana. Non è altro che l’epilogo di una sciagura cominciata decenni fa con sindaci incompetenti e collusi, proprietari terrieri famelici, palazzinari aguzzini. Ovunque ci fosse un pezzetto di suolo da sfruttare in questo disgraziato Paese ci si sono buttati tutti, ma proprio tutti. Troppo facile fare oggi i moralisti. Ora paiono tutti consapevoli del fatto che si è costruito troppo e male. Spuntano ovunque facce di politici, commentatori, opinionisti e professionisti che denunciano lo scempio. Eppure tutti loro appartengono a schieramenti che hanno sostenuto e continuano a sostenere la speculazione, oppure lavorano per editori pubblici e privati che fino a ieri hanno ignorato le voci di chi, pochi, pochissimi, denunciavano i soprusi e i rischi, o ancora firmano progetti assassini.
Questa è l’Italia, la solita Italia. Dove sono scomparsi i fascisti dopo la caduta del regime, i forlaniani e i craxiani dopo tangentopoli, e ora, dulcis in fundo, i lottizzatori, i cementificatori, i devastatori di litorali e foreste, centri urbani e monumenti.
Non illudiamoci. Quelle che sentiamo e leggiamo in questi giorni sono solo parole vuote. Sono solo ragli d’asino che, come tali, non salgono in cielo. Mentre ci tocca ascoltare un ministro Udc che denuncia i condoni edilizi (!) e sopportare editoriali di gente che non ha mai letto una sola riga di Antonio Cederna, Renato Bazzoni o Giorgio Bassani e ora firma tutta tronfia pezzi colmi di retorica nella convinzione di avere scritto cose originali; mentre assistiamo esterrefatti a propagande governative che parlano di #italiasicura, fuori c’è una banda di malfattori, agguerriti come al solito, che saccheggiano città e campagne. Potenti gruppi finanziari stanno investendo decine, centinaia di milioni di euro in grandi opere che non servono a nessuno e in lottizzazioni gigantesche (venghino a Milano, siori, venghino!): il nostro capitalismo corrotto e arrettrato fonda ancora le sue fortune sul saccheggio del territorio. Siamo fermi al culto della doppia, anzi ormai terza e quarta carreggiata, delle “villette otto locali doppi servissi”.
L’Italia è un paese a termine. Un’espressione geografica dal paesaggio provvisorio, dove tutto si regge su un avverbio: questo tratto di campagna non è ancora edificato, quel centro storico è ancora abbastanza integro, questa collina non è ancora lottizzata. Tutto è precario, tranne una certezza, anzi due. Il peggio deve ancora venire. E gli asini continueranno a ragliare.
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Guarire il territorio, ecco la priorità per l’Italia
Davanti ai rovinosi crolli e alle pianure alluvionate, fotografie di un’Italia colpita da un inverno particolarmente piovoso, vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quello di sempre. Politici che invocano la fatalità e il caso. Perché tutto è sempre e solo eccezionale: la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane, divinità ostili. E naturalmente sentiremo pronunciare le più solenni promesse: “Presto un piano contro il dissesto idrogeologico”, proclameranno pensosi ministri e sottosegretari.
Ma lo sappiamo bene, in Italia si parla di dissesto idrogeologico solo nei giorni successivi a frane o alluvioni. Dopodiché ce ne dimentichiamo, almeno fino a un nuovo disastro. Ogni anno siamo costretti a sopportare perdite di vite umane e costi elevati a causa di calamità che in molti casi potrebbero essere evitate, se solo si seguissero le più elementari regole di pianificazione e si facessero investimenti seri nella cosiddetta messa in sicurezza del territorio. Mentre milioni di italiani sono senza un lavoro, ampie parti del Paese crollano per mancanza di cure. C’è una sinistra affinità fra il fragile paesaggio italiano devastato dall’incuria e il tessuto sociale che si dissolve sotto i colpi impietosi di una crisi inarrestabile. Possiamo continuare a guardare alla disoccupazione e alla mancanza di prevenzione come a fatalità ineluttabili. Oppure possiamo agire. Oggi agire significa trasformare il dissesto idrogeologico in un’emergenza nazionale, cioè nella prima grande opera da realizzare per porre in sicurezza le zone più a rischio dello Stivale e creare nuova occupazione. Il 13% del territorio nazionale è in forte erosione e a rischio frane. Occorrerebbero circa 7 miliardi di euro per gli interventi più urgenti, 40 per la totale messa in sicurezza. Tanto, tantissimo soprattutto in un periodo di vacche magre. Ma secondo il “Rapporto sullo stato del territorio italiano” realizzato nel 2010 dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi, il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra a oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Dunque la scelta sembra essere fra l’inazione e la mancanza di pianificazione, destinata a far sprofondare l’Italia in tutti i sensi, o l’intervento per sanare le ferite territoriali e sociali. Forse migliaia di giovani, e non solo, sarebbero ben più orgogliosi di occuparsi del riassetto del paesaggio nazionale e della tutela dei beni ambientali piuttosto che zampettare da un call center all’altro. Ma i principali attori della scena politica italiana si sono sempre occupati di altro e sembrano intenzionati a farlo ancora. Fra i governi Berlusconi, quelli di centro sinistra e i governi Monti e Letta c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, lo zero assoluto. E allora nessuno si stupisca se l’Italia frana. Solo gli stupidi lo fanno.