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Oltre l’era del petrolio. Sarà la volta buona?

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Il petrolio è stato uno dei protagonisti degli ultimi mesi. Un vero e proprio terremoto si è abbattuto sulle quotazioni del greggio, precipitate da oltre 100 a meno di 60 dollari al barile. I mercati finanziari ne stanno risentendo, ma per l’economia reale, espressione vaga con cui si è soliti indicare la vita di noi comuni mortali, è una boccata d’ossigeno.

Le ragioni del crollo sono tutte di mercato secondo alcuni: si è continuato ad aumentare la produzione, soprattutto americana, mentre dall’inizio della crisi economica mondiale si è chiesto meno petrolio del previsto. A livello mondiale il 2014 si è chiuso a 92,4 milioni di barili al giorno, 200 mila in meno di quanto atteso (stime IEA). In Italia, negli ultimi dieci anni la flessione dei consumi petroliferi è stata addirittura del 36% (fonte UP). Una boccata d’ossigeno non solo per l’economia reale, ma anche per i nostri cieli.

L’altra faccia della medaglia sono i rischi geopolitici: un prezzo troppo basso potrebbe spostare gli equilibri economici mondiali. Secondo altri analisti del settore il prezzo del petrolio è sceso a causa dell’intenzione dell’Arabia Saudita, condivisa con gli alleati americani, di colpire le economie della Russia e dell’Iran.

Vale sempre la pena ricordare che il petrolio è un’arma formidabile per mutare o condizionare le vicende e gli assetti globali. Nessuno può negare, infatti, che la storia mondiale del petrolio è tristemente segnata, oltre che dai danni all’ambiente e alla salute, da guerre, colpi di stato, corruzione e assassinii.

E qui veniamo all’altro motivo per cui durante questo 2014 si è parlato molto di petrolio. Lo scorso settembre il New York Times ha dato una clamorosa notizia: i Rockefeller, la dinastia che ha fatto la sua fortuna con le fonti fossili, stanno ritirando le partecipazioni azionarie dalle centrali e dalle miniere a carbone e dalle sabbie bituminose per incrementare gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili.

La giornalista e attivista Naomi Klein ha spiegato in un brillante articolo pubblicato da The Guardian che l’iniziativa dei Rockefeller non è isolata: le aziende che producono combustibili fossili stanno diventando nocive non solo per l’atmosfera, ma anche per il mondo delle relazioni pubbliche. Ne sono una riprova le decisioni recenti di Lego, che ha annunciato di non voler rinnovare la collaborazione con Shell Oil, un contratto di co-branding in vigore da molto tempo in virtù del quale i bimbi di tutto il pianeta hanno fatto il pieno alle loro macchinine di plastica in stazioni di servizio Shell giocattolo, o delle Università di Glasgow e di Stanford in California, che hanno comunicato la volontà di disinvestire dal settore carbonifero.

Piccoli o grandi per ora sono solo segnali. Intanto, associazioni e attivisti in tutto il mondo stanno aumentando le pressioni su aziende e organizzazioni affinché interrompano i rapporti con il settore dei combustibili fossili. Si tratta di un’autentica rivoluzione economica, sociale e culturale tesa a convincere un numero crescente di attori di un semplice fatto: i profitti dell’industria oil sono stati accumulati inquinando consapevolmente i nostri cieli e pertanto dovrebbero essere considerati a loro volta tossici. Se si accetta l’idea che quei guadagni sono moralmente illegittimi, tutti, dalle istituzioni pubbliche agli enti privati, dovrebbero di conseguenza prenderne le distanze.

Come ha rilevato la stessa Klein, molti osservatori sono scettici. Queste azioni non potranno danneggiare sul serio le società petrolifere o carbonifere, anche perché altri investitori saranno pronti a rilevare le azioni e la maggior parte di noi continuerà ad acquistare combustibili fossili finché le nostre economie non offriranno opzioni accessibili sul fronte delle rinnovabili.

Queste critiche, seppure fondate, ignorano le potenzialità di simili campagne. Da quando l’Unione Europea ha posto un freno allo strapotere delle multinazionali del tabacco, vietando la pubblicità e la sponsorizzazione diretta, si è verificata un’inversione di tendenza culturale che, seppure non ancora del tutto compiuta, ha favorito la conoscenza dei danni provocati dal fumo. Certo, grazie alle leggi anti-fumo le vendite delle sigarette sono in crisi in Occidente, ma intanto l’industria del tabacco sta conquistando milioni di nuovi clienti nel sud del mondo.

Da qualche parte, però, si deve pur cominciare a ripulire il mondo.

Fonte http://www.rivistanatura.com

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Parco Nazionale dello Stelvio: santuario della natura o merce di scambio?

Parco Nazionale StelvioIl Parco Nazionale dello Stelvio sta per essere smembrato in due parchi naturali provinciali e uno regionale. Attorno a questo progetto mercoledì scorso, a Roma, si è giocata una partita importante: la Commissione paritetica fra Stato e Regione Trentino-Alto Adige (detta dei Dodici) ha esaminato e dato il proprio via libera alla Norma di attuazione relativa alla “delega di funzioni amministrative statali concernenti il Parco Nazionale dello Stelvio”.

Pochi giorni prima, 13 associazioni ambientaliste avevano rivolto un appello alla Commissione affinché non approvasse tale proposta. “L’appello delle associazioni ambientaliste contro lo smembramento dello Stelvio è arrivato fuori tempo massimo” è stato il lapidario commento del senatore Svp Karl Zeller.
Da anni il suo partito rivendica una gestione autonoma dell’area protetta di propria competenza, svincolata dal Consorzio che oggi amministra il Parco Nazionale, costituito da ministero dell’Ambiente, Provincia di Bolzano, Provincia di Trento e Regione Lombardia. Questa rivendicazione dell’Svp ha trovato una sponda importante mesi fa, quando il parlamento italiano, approvando la legge di stabilità del 2014, ha incluso una norma secondo la quale le funzioni statali relative al Parco dello Stelvio possono essere trasferite alle due province autonome di Trento e Bolzano.

Ora che è stato acquisito anche il parere favorevole della Commissione dei dodici, per l’attuazione definitiva basterà il via libera del Consiglio dei ministri.
Lo smembramento del parco sarebbe, secondo molti, il risultato di un accordo elettorale tra Pd, Svp e il Patt, il Partito Autonomista Trentino Tirolese, raggiunto perché il governo ha bisogno anche dei voti dei parlamentari sudtirolesi. “Sembra incredibile che, mentre in tutta Europa e nel mondo intero si propende per la creazione di parchi transfrontalieri (ci sono magnifici esempi non soltanto in Europa ma anche in Africa e altri continenti), – ha commentato il naturalista italiano Franco Pedrotti – in Trentino-Alto Adige si voglia scindere un territorio per motivazioni localistiche e strumentali, che poco si coniugano con la pretesa di una maggiore tutela ambientale”.
Di parere opposto il sindaco di Bolzano Spagnolli, ex-direttore del parco in questione, secondo il quale le associazioni ambientaliste stanno facendo una difesa dello status quo; per l’attuale primo cittadino bisogna uscire dall’ipocrisia di chi si ostina a difendere lo Stelvio, perché così com’è, non tutela la natura.

Il prossimo anno il Parco Nazionale dello Stelvio compirà 80 anni. Arriverà a spegnere le candeline?

Fonte http://www.rivistanatura.com

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I crediti poco chiari dell’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini

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Con queste parole Greenpeace, Legambiente e WWF commentavano nel 2011 la nomina di Corrado Clini alla guida del Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio e del mare del Governo Monti, sì, quello che doveva salvare l’Italia, proprio quello.

“Al dottor Clini vanno le nostre congratulazioni per il prestigioso incarico che gli è stato conferito. Ci aspettiamo che il suo impegno nel gabinetto Monti possa segnare una svolta positiva e un cambio di direzione nelle politiche italiane sull’ambiente (…) Ci auguriamo che il nuovo ministro possa segnare una sostanziale discontinuità, per riuscire finalmente a battere gli interessi degli inquinatori, nell’interesse generale del Paese. Ci aspettiamo che da profondo conoscitore della macchina ministeriale, Clini possa restituire anche il ruolo e il profilo da protagonista che il Ministero dell’Ambiente ha perso negli ultimi anni e rilanciarlo come dicastero strategico per uscire dalla crisi economica, dando un vigoroso impulso alla green economy e affrontando seriamente il dissesto  idrogeologico”.

Alla luce delle notizie riportate oggi dal Corriere della Sera, «Appalti fasulli da 200 milioni. Così Clini si intascava il 10%» quelle parole suonano davvero strane. L’ex ministro, già coinvolto nell’indagine avviata a Ferrara, culminata con il suo arresto a giugno, arresti domiciliairi revocati un mese e mezzo dopo, ha attraversato quasi tutti gli episodi controversi e i tanti disastri ambientali in Italia, essendo stato direttore generale del Ministero dell’ambiente dal 1992 al 2011, carica a cui è tornato nel 2013, una volta cessata l’esperienza di ministro. Si è occupato, tra l’altro, della vicenda Acna di Cengio, dell’Enichem di Manfredonia e dell’Ilva di Taranto, tutti casi di cui c’è ben poco per andare fieri. Era anche già stato sfiorato dalle cronache giudiziarie tra il 1996 e il 1997, quando fu indagato dalla procura di Verbania per l’inquinamento prodotto da un impianto di incenerimento di rifiuti della società svizzera Thermoselect. Clini, difeso dall’avvocato Carlo Taormina, chiese ed ottenne di trasferire il processo al Tribunale di Roma. Dopodiché la sua posizione fu completamente archiviata. Si è occupato professionalmente di biocarburanti e di rifiuti. Riguardo a questi ultimi, i rifiuti appunto, è stato al centro pure di una vicenda oscura, all’epoca denunciata dai missionari comboniani e dal Corriere della Sera. Nel 2007, una società italiana, la Eurafrica, aveva proposto la redazione di un progetto per il risanamento della discarica di Dandora (a soli 8 chilometri dal centro di Nairobi, la più grande di tutta l’Africa orientale) pagato 700mila euro dal ministero dell’ambiente italiano. Secondo una denuncia presentata da padre Alex Zanotelli, un prete che a Nairobi ha speso una vita a fianco delle popolazioni più povere, quella società e quell’operazione presentavano moltissimi dubbi. Corrado Clini, che personalmente promosse il progetto come direttore del dicastero, rispose alle accuse dei comboniani con toni sprezzanti, scrivendo, dopo il blocco dell’intervento, una lettera a Paolo Mieli, allora direttore del Corriere, che si chiudeva così: “Forse disturbiamo “the lords of pauperty”, i cosiddetti benefattori di professione, che vivono sulla miseria dei disperati?”.
Ora, le indagini di queste settimane faranno il loro corso. Ma una domanda sorge spontanea: quali erano secondo le associazioni ambientaliste i crediti di Clini, tali da far loro sperare che avrebbe potuto restituire quel “ruolo e il profilo da protagonista che il Ministero dell’Ambiente ha perso negli ultimi anni e rilanciarlo come dicastero strategico per uscire dalla crisi economica”? Avete una risposta, anche di seconda mano?

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Niente carbone a Porto Tolle. Niente carbone in Italia.

Genova, La Spezia, Marghera e Fusina (Venezia), Bastardo (Perugia), Torrevaldiga Nord (Civitavecchia), Sulcis (Carbonia Iglesias) e Brindisi Sud, tutte di proprietà Enel; Brescia e Monfalcone di A2A; Brindisi Nord di Edipower; Vado Ligure (Savona) di Tirreno Power; Fiume Santo (Sassari) di E.On.
Sono queste le 13 città italiane che ospitano una centrale a carbone.
Sono questi i nomi delle 5 società che le gestiscono.
Gli ex amministratori di Enel, Franco Tatò e Paolo Scaroni, sono stati condannati per disastro ambientale. Tirreno Power è sotto inchiesta per disastro ambientale e omicidio colposo. Il direttore della centrale E.On è indagato per inquinamento.
Il carbone è una fonte di energia sporca… Niente carbone a Porto Tolle. Niente carbone in Italia.

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Daniza, l’orsa che viveva nel paese sbagliato

L’orsa Daniza arrivò in Trentino il 18 maggio del 2000. Si trattava di una femmina di 4 anni prelevata insieme ad altri quattro orsi (Kirka, Masun, Jose e Irma) nella riserva slovena di Kocevje per rinforzare la popolazione italiana. – Foto: Archivio Giunta Provinciale di Trento

Parecchi anni fa, negli uffici romani del Wwf circolava questo aneddoto. Durante un ricevimento che seguiva una dotta conferenza, una signora ingioiellata si avvicinò a un celebre naturalista francese e gli chiese: “Ma in fondo, professore, a cosa serve una lince?”. Lui la osservò pensieroso e con calma rispose: “A niente, signora. Proprio come Mozart”.

Anche Daniza, in fondo, non serviva a nulla. (continua…) Daniza, l’orsa che viveva nel paese sbagliato.

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Guarire il territorio, ecco la priorità per l’Italia

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Davanti ai rovinosi crolli e alle pianure alluvionate, fotografie di un’Italia colpita da un inverno particolarmente piovoso,  vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quello di sempre. Politici che invocano la fatalità e il caso. Perché tutto è sempre e solo eccezionale: la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane, divinità ostili. E naturalmente sentiremo pronunciare le più solenni promesse: “Presto un piano contro il dissesto idrogeologico”, proclameranno pensosi ministri e sottosegretari.
Ma lo sappiamo bene, in Italia si parla di dissesto idrogeologico solo nei giorni successivi a frane o alluvioni. Dopodiché ce ne dimentichiamo, almeno fino a un nuovo disastro. Ogni anno siamo costretti a sopportare perdite di vite umane e costi elevati a causa di calamità che in molti casi potrebbero essere evitate, se solo si seguissero le più elementari regole di pianificazione e si facessero investimenti seri nella cosiddetta messa in sicurezza del territorio. Mentre milioni di italiani sono senza un lavoro, ampie parti del Paese crollano per mancanza di cure. C’è una sinistra affinità fra il fragile paesaggio italiano devastato dall’incuria e il tessuto sociale che si dissolve sotto i colpi impietosi di una crisi inarrestabile. Possiamo continuare a guardare alla disoccupazione e alla mancanza di prevenzione come a fatalità ineluttabili. Oppure possiamo agire. Oggi agire significa trasformare il dissesto idrogeologico in un’emergenza nazionale, cioè nella prima grande opera da realizzare per porre in sicurezza le zone più a rischio dello Stivale e creare nuova occupazione. Il 13% del territorio nazionale è in forte erosione e a rischio frane. Occorrerebbero circa 7 miliardi di euro per gli interventi più urgenti, 40 per la totale messa in sicurezza. Tanto, tantissimo soprattutto in un periodo di vacche magre. Ma secondo il “Rapporto sullo stato del territorio italiano” realizzato nel 2010 dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi,  il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra a oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Dunque la scelta sembra essere fra l’inazione e la mancanza di pianificazione, destinata a far sprofondare l’Italia in tutti i sensi, o l’intervento per sanare le ferite territoriali e sociali. Forse migliaia di giovani, e non solo, sarebbero ben più orgogliosi di occuparsi del riassetto del paesaggio nazionale e della tutela dei beni ambientali piuttosto che zampettare da un call center all’altro. Ma i principali attori della scena politica italiana si sono sempre occupati di altro e sembrano intenzionati a farlo ancora. Fra i governi Berlusconi, quelli di centro sinistra e i governi Monti e Letta c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, lo zero assoluto. E allora nessuno si stupisca se l’Italia frana. Solo gli stupidi lo fanno.

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Ieri è stata la Giornata Mondiale dell’Ambiente, ma in pochi se ne sono accorti. Perché?

Se siete tra i pochi che se ne sono accorti, bravi. Perché diciamo la verità, che ieri fosse la Giornata Mondiale dell’Ambiente è sembrato interessare davvero a pochi. Giornali, tv e social network hanno preferito parlare di tutt’altro, perfino di riforma elettorale, semipresidenzialismo e premio di maggioranza. Come mai? Eppure l’emergenza ambientale è tutt’altro che finita. A livello globale i cambiamenti climatici offrono segnali inquietanti e la deforestazione del pianeta avanza nonostante le migliaia di appelli, mentre a casa nostra non si trova una soluzione per gestire i rifiuti in modo civile in buona parte del meridione, la perdita di suolo non si interrompe nonostante la crisi e l’industrializzazione barbarica dei decenni passati presenta il conto amaro (il caso dell’Ilva è emblematico, ma non è il solo). Tuttavia la Giornata Mondiale dell’Ambiente in Italia è passata inosservata. Avanzo due ragioni. La prima riguarda il significato dell’evento stesso. Partita anni fa con l’intenzione di sensibilizzare l’umanità di fronte ai pericoli che corre il nostro Pianeta, la Giornata Mondiale dell’Ambiente, al pari di altre manifestazioni simili, si è trasformata in una cerimonia dal sapore molto istituzionale che si declina in iniziative paludate e prive di fascino: qualche dato riciclato da precedenti indagini, un po’ di alberi piantati qua e là (magari poco distante intanto sorgono nuovi ecomostri con il beneplacito delle stesse amministrazioni che concedono il patrocinio alla nuova forestazione) e, immancabili, appelli alle buone abitudini. Poca roba per richiamare l’attenzione dei cittadini e ancora meno per ottenere l’attenzione dei media, in genere interessati a parlare di ecologia soltanto quando c’è un po’ di catastrofismo da sbattere, se non proprio in prima, almeno in terza pagina. E qui vengo alla seconda ragione: le responsabilità di buon parte degli ambientalisti (categoria generica alla quale mi arrogo il diritto di appartenere, non tanto per avere militato e lavorato prima al Wwf e poi al Fai, quanto per il fatto che da oltre venticinque anni seguo con attenzione la materia). So che susciterò la reazione indignata di molti, ma occorre riconoscere che l’ambientalismo è campato grazie ad annunci choc e previsioni apocalittiche sul futuro che non sempre si sono rivelate corrette, o perlomeno non sempre sono state sostenute da adeguate prove scientifiche. Io stesso a vent’anni, animato dalle migliori intenzioni, ho concorso a diffondere allarmi. Prima c’è stata la grande paura per le piogge acide, poi negli Novanta abbiamo temuto per lo strato di ozono e infine nei primi dieci anni del nuovo millennio si è diffuso il panico per il riscaldamento globale. Se mi concedete ancora un poco di attenzione, vorrei approfondire l’esempio delle piogge acide. Negli anni Ottanta, il timore che l’inquinamento prodotto da fabbriche e automobili si trasformasse in piogge capaci di distruggere boschi, laghi e monumenti dilagò fra l’opinione pubblica. Oggi si sa che i danni subiti in quegli anni dalle foreste in Germania, Polonia e Repubblica Ceca erano dovuti all’inquinamento locale e una maggiore acidità è stata registrata solo nell’1% dei laghi europei. Inoltre il monitoraggio delle condizioni delle foreste condotto per iniziativa dell’UE  indica che rispetto agli anni ‘70 le emissioni di sostanze solforate e azotate (causa delle piogge acide) sono state ridotte del 70-80%, determinando un sensibile miglioramento delle condizioni di tutti gli ecosistemi continentali. La vicenda insegna che è necessario ogni tanto fare il punto sulle notizie, verificare dopo anni cosa è realmente successo. Più che allinearsi con la schiera degli ottimisti o con quella dei catastrofisti (ce ne sono tantissimi dell’una e dell’altra categoria su ogni argomento) serve informarsi e ragionare con la propria testa, esercitandosi a capire, con molti dubbi. Dimostrando così che la gente sa mobilitarsi e partecipare anche se il mondo non sta andando incontro ad una distruzione imminente.  Da qualche tempo l’ambientalismo si ritrova con il fiato corto, fatica a tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica perché si era abituato a ottenerla alzando la voce e il livello delle preoccupazioni. Rappresentare ogni attività umana come devastante per la Terra serve a poco, anzi a nessuno, perché alla fine sfianca anche i più convinti.

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Ecologisti: estinti o risorti?

Nel 1986 il Wwf Internazionale scelse di festeggiare il 25° anniversario della sua fondazione ad Assisi. Per l’occasione quattro cortei si mossero da Cortona, Gubbio, Nocera Umbra e Spoleto in direzione della città di San Francesco. I pellegrini in Marcia per la Natura furono accolti uno a uno dal principe Filippo di Edinburgo, all’epoca presidente del sodalizio, la sera del 28 settembre. Tutti insieme furono poi ristorati nella “Selva” del Sacro Convento. assisiIl giorno seguente, nella Basilica Superiore, si celebrò un’emozionante cerimonia interreligiosa: i rappresentanti di cinque delle maggiori religioni mondiali (buddisti, cristiani, ebrei, induisti, musulmani) si riunirono in uno storico incontro in favore della natura. Poiché in quegli anni lavoravo presso gli uffici milanesi del Wwf, ebbi la fortuna di partecipare ai festeggiamenti. Solo anni dopo, però, compresi di avere assistito a quello che sarebbe diventato il momento più alto dell’intero movimento ecologista in Italia. Erano gli anni rampanti dell’edonismo reganiano e di una generazione di giovani arrivisti e arroganti, tuttavia nel nostro Paese le associazioni ambientaliste riuscirono, almeno a tratti, a dettare l’agenda politica, costringendo l’opinione pubblica e la classe politica a confrontarsi con temi quali la perdita della biodiversità, la distruzione degli ecosistemi e i limiti delle risorse. Continua a leggere

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L’Italia barbara: più cemento per tutti

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Se il compianto Francesco Rosi potesse girare un remake del film Le mani sulla città, sposterebbe il set da Napoli a Milano. Nella prima inquadratura, dall’alto, ci sarebbero i grattacieli in costruzione nel quartiere Porta Nuova-Garibaldi. Poi sorvolando la grigia città, la camera riprenderebbe l’area della vecchia Fiera, Santa Giulia, Porta Vittoria. Il sacco di Milano, quello che ha trasformato l’Expo del 2015 (dedicato all’alimentazione!) in una colossale operazione immobiliare, si consuma nel silenzio assoluto. Eppure i milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari, dei finanziatori.
Il consumo di suolo è la più grande emergenza ambientale italiana, dalla quale discendono gli altri disastri: impoverimento della biodiversità, perdita irreversibile di suolo fertile, alterazioni del ciclo idrogeologico, mutamenti microclimatici. Continua a leggere