Due anni fa buona parte della stampa nazionale, quella che vuole dettare l’agenda politica anziché raccontare i fatti, ha incoronato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come il liberatore, il leader capace di innescare quel riscatto che il capoluogo lombardo attende da tempo.
Oggi quella stessa stampa ha cominciato a processare il primo cittadino per l’inerzia fin qui dimostrata. Nei consigli di amministrazione di quei giornali siedono i rappresentanti di molti operatori interessati al sacco edilizio che si sta consumando sotto il cielo di Milano, milioni di metri cubi di altro cemento gettati in pasto alla più becera speculazione. Potrebbe dunque essere anche lecito pensare che, dopo essere passati dalla cassa, ora possono gettare il sindaco arancione alle ortiche. Come? – dirà qualcuno – tutte le lottizzazioni in corso sono state decise dai predecessori di Pisapia! Vero, anche se sarebbe più corretto affermare che dietro il sacco di Milano ci sono tali e tante complicità che per passarle al setaccio ci vorrebbe una specie di Tribunale dell’Aja. Ma a parte questo, vi pare possibile che un sindaco insediatosi con l’obiettivo di moralizzare la città non abbia speso, né lui, né i suoi assessori, compreso le assessore a cui molti hanno guardato con tanta speranza, una sola parola di denuncia nei confronti di tanta bruttezza? Pisapia e la sua giunta avrebbero dovuto piantare le tende in mezzo al cantiere di Porta Nuova-Garibaldi, fra il ferro e il cemento che si alza sopra le poche vecchie case sopravvissute all’assalto, soffocandole e martirizzandole. Avrebbero dovuto raccogliere intorno a loro lo sdegno e la protesta di chi sognava una città differente, non dico una metropoli romantica, ma nemmeno quell’infamia di asfalto e cemento che ha immaginato la Moratti (e le forze che l’hanno sostenuta) per Expo 2015. Invece, niente. L’infernale cantiere delle ex Varesine/Isola avanza, al pari di quelli di Fiera City, Santa Giulia e Porta Vittoria.
Il primo, quello che ospita il grattacielo di Unicredit e il nuovo Palazzo della Regione (orgoglio di Formigoni) e poi in mezzo una selva di palazzi di 20 e più piani, racconta in modo esemplare che Milano ormai è fottuta. Nessuno, con una qualche conoscenza architettonica e urbanistica, avrebbe mai potuto pensare che all’interno di quel dedalo di vie si potesse costruire tanto. Venite a fare una passeggiata se non mi credete: vi mancheranno l’ossigeno e la prospettiva. Se alzate gli occhi, lo sguardo sbatte sui vetri. E anche se guardate da lontano non avrete alcuna speranza di apprezzare le strutture o lo skyline. Perché Milano è piccola, stretta e congestionata.
Certo, a pensarci bene era davvero difficile immaginarsi Giuliano Pisapia accampato per protesta in mezzo alle gru in compagnia di Stefano Boeri (assessore alla cultura ‘licenziato’ tre mesi fa), architetto-politico interessato al progetto dato che i due grattacieli denominati «bosco verticale» all’Isola sono firmati dal suo studio. E ve lo sareste immaginato Bruno Tabacci (ex assessore al bilancio di Milano che ha lasciato l’incarico a gennaio per volare di nuovo in Parlamento), politico di lungo corso, già presidente della Regione Lombardia dal 1987 al 1989, uno dei punti di snodo tra i poteri economici e la politica di centro, ricevere una tazza di caffè fumante dai colleghi di giunta dopo aver trascorso la notte in tenda in mezzo all’orrido cantiere?
Siamo seri, se ancora è possibile. La ‘rivoluzione arancione’ di Pisapia è finita il giorno dopo che è stato eletto, anzi diciamo pure che non è mai cominciata. Spiace, ma lo dico in modo sincero non col ghigno di chi aveva già previsto tutto, spiace per quei giovani che ci hanno creduto davvero. Ma ora vi domando: pensavate davvero di poter cambiare una città come Milano in compagnia di architetti-politici e di gente come Bruno Tabacci, un democristiano uscito indenne da varie indagini, puro tra gli impuri?
Milano non è cambiata, anzi sprofonda. Per carità, ora non si possono addossare tutte le colpe a Giuliano Pisapia. Sarebbe stato davvero un uomo dei miracoli se fosse riuscito a invertire la rotta. Perché, diciamoci la verità, il declino di Milano è in atto da anni, decenni ormai. Sembra quasi una barzelletta, ma gli ultimi sindaci che hanno governato con una prospettiva sono stati quelli socialisti. Lasciamo perdere il sindaco-cognato Paolo Pillitteri, però occorre tornare per esempio a Carlo Tognoli per trovare l’ultimo primo cittadino che ha operato con una visione acuta del rapporto centro-periferie e che in queste ultime ha portato strutture e progetti. Poi c’è stato il vuoto, è cominciata l’era dei diminutivi: Formentini e Albertini. Nei riguardi del primo mi pare uno spreco spendere parole, il secondo sarà ricordato per aver sfilato in mutande. E questo in realtà è un errore, perché l’imprenditore prestato alla politica, come si definì lui stesso, ma che dalla politica non si è mai più allontanato, ha avviato la maggior parte dei progetti di riqualificazione della città, dalla Vecchia Fiera alla zona Porta Nuova-Varesine. Progetti che sono stati implementati da Letizia Moratti; lei poi ha anche messo il fiocco sul pacco regalo per gli immobiliaristi e i costruttori (tutti naturalmente privati) che possiedono i terreni sui quali Milano ospiterà l’Expo e su cui all’indomani del 2015, con una nuova colata di cemento, nascerà una cittadella da 400mila metri quadrati e circa 15mila abitanti.
Intanto, dicevo, Milano sprofonda. E non occorre essere architetti e urbanisti per coglierlo, anzi forse aiuta non esserlo. Milano è vittima dell’incuria e dell’abbandono. L’arredo urbano è indegno, la progettazione e la manutenzione del verde, salvo rarissime eccezioni, sono vergognose. Non soltanto nelle periferie, anche in centro. Milano è asfittica, ripiegata su se stessa. Triste. Chi di voi è stato in giro per l’Europa sa come si crea il sentimento di una città e come si ottiene l’equilibrio tra palazzi, strade, luce, verde e persone, quell’equilibrio che passa sotto il nome di respiro metropolitano. Per anni mi sono vergognato di scrivere queste cose, perché mi pareva di accodarmi a quel fenomeno un po’ facilone e grezzo chiamato esterofilia. Ma basta entrare in un museo, passeggiare in un parco, salire su un mezzo pubblico, sedersi ai tavolini di un caffè per rendersi conto che altrove la qualità della vita è migliore. Fare l’elenco delle città europee risorte dopo un periodo più o meno lungo di decadenza è un esercizio fin troppo semplice. Così come raccontare dei tanti quartieri periferici perduti e malfamati reinventati grazie a un’accorta regia tra mano pubblica e mano privata.
Concludo raccontandovi un episodio. Qualche settimana fa, dopo aver trascorso il pomeriggio al Parco delle Cave, un’area verde
situata alla periferia occidentale di Milano ben progettata e curata con amore, una di quelle poche eccezioni di cui parlavo, ho scelto di fare due passi nel popolare quartiere di Baggio, lambito dal nuovo parco. Nel nucleo storico ancora oggi si vedono scorci del vecchio borgo e si possono ammirare alcune ville in stile Liberty. L’emblema resta però la chiesa di Sant’Apollinare, con il meraviglioso campanile romanico risalente all’anno Mille. Quel giorno all’interno della chiesa si esibivano al piano un gruppo di ragazze e ragazzi diretti dalla pianista e concertista russa Tatiana Larionova. Lei stessa, al termine del saggio, ha regalato agli astanti una breve, quanto intensa esibizione con il marito Davide Cabassi, uno dei migliori pianisti italiani della sua generazione. All’uscita dalla chiesa, una sciabolata di sole illuminava ancora i vecchi edifici di Baggio. Ho pensato che in qualsiasi altro luogo d’Europa, attorno a una chiesa così antica e fascinosa e ai resti di vetusti palazzi e cascine sarebbe sorto un quartiere animato da piccole botteghe, caffè e locande. A Milano no.
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