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È importante capire se Emilio Riva, patron dell’Ilva, è un imprenditore coraggioso o un avvelenatore. Anche se non servirà a guarire i tumori

Per caso mi è capitato tra le mani un libro di Stefano Lorenzetto, intitolato Hic sunt leones, edito da Marsilio. Il saggio del giornalista veronese che lavora per «Il Giornale», Panorama» e «Monsieur» racconta le gesta di venticinque veneti notevoli. Il Palladio? Giorgione? Marco Polo? Non esageriamo, nella lista ci sono persone note e meno note, scienziati, medici, imprenditori, giudici e altri ancora. Nell’introduzione Lorenzetto parla dei suoi maestri di giornalismo, Walter Pertegato, Cesare Marchi e Sergio Saviane, e dell’editore e patron del Pollo Arena, Antonio Grigolini. Nelle pagine dedicate a quest’ultimo mi sono balzate agli occhi alcune righe. Eccole: Un’altra volta svegliò di soprassalto la signora Bruna, dolcissima e paziente consorte che gli aveva dato cinque figli, la costrinse a indossare la pelliccia sopra il pigiama e la trascinò fino alla stabilimento tipografico di San Martino Buon Albergo affinché assistesse alla magia delle prime copie dell’Arena che uscivano fresche di stampa dalla nuova rotativa. Forse quest’ultimo è soltanto uno dei tanti racconti mitologici che venivano inventati sul conto del ruspante editore, però ha il pregio di essere speculare a quello fattomi dall’ottantaseienne Emilio Riva, il ragiunatt milanese che da robivecchi è diventato il re europeo dell’acciaio e il 27 di ogni mese continua a ritirare lo stipendio come un impiegato qualsiasi: «Andavo alla Scala con mia moglie e all’una di notte, tornando a casa, ci fermavamo a Caronno Pertusella. Mi levavo la giacca dello smoking e controllavo le colate. L’acciaio liquido ti soggioga. Vedi questo forno che si capovolge ed escono 330 tonnellate di liquido a 1.650 gradi. Sembra acqua rossa. Ti brucia un po’ il viso, ma ti prende. A volte ci porto anche i banchieri a vedere le colate. Ci lasciano il cuore».  Ebbene sì, non vi state sbagliando. Questo sentimentalone dal cuore d’acciaio è proprio lui, quell’Emilio Riva patron dell’Ilva che secondo la ricostruzione fatta da L’Espresso avvelenava i tarantini, pagava giornalisti e sindacalisti perché stessero buoni, puniva gli operai con i reparti-confino e accumulava miliardi nei paradisi fiscali. Le accuse mosse nei suoi confronti, e che hanno travolto il gruppo dirigente dell’Ilva, sono pesantissime:  avvelenamento colposo, truffa aggravata e infedeltà patrimoniale. I disastri provocati a Taranto da questa fabbrica sono noti da tempo, giorni fa li ho ricordati in un post. Ora, passino i toni un po’ agiografici dai quali è difficile sottrarsi in ogni lavoro biografico, ma questo omaggio a un industriale coinvolto in una vicenda giudiziaria ancora tutta da chiarire pare un poco azzardato. Alla luce dei fatti il vero eroe è «l’impiegato qualsiasi» che forse, se alcuni grandi imprenditori glielo consentiranno, anche alla fine di questo mese passerà a ritirare lo stipendio.

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Ilva di Taranto: era già tutto previsto

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Permessi illeciti per ottenere l’autorizzazione ambientale con la quale l’Ilva ha potuto continuare a produrre e inquinare. Queste le accuse che hanno portato a una nuova pioggia di manette a Taranto nell’ambito dell’inchiesta “ambiente svenduto”. Tra gli arrestati anche il presidente della Provincia Gianni Florido, alla guida dell’amministrazione dal 2004. “Che Ilva continui a inquinare e ammazzare legalmente per via di una legge voluta da Clini e Monti è cosa nota a tutti” scrive oggi Il Fatto Quotidiano in un articolo che vi invito a leggere per approfondire gli ultimi sviluppi. In effetti, una volta ottenuta l’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), Ilva ha potuto continuare a produrre nelle stesse condizioni che avevano portato al sequestro degli impianti.
Ma non è solo di quest’ultimo episodio che vorrei parlarvi. Quanto è accaduto all’Ilva di Taranto in questi ultimi mesi è il risultato di una politica dissennata e compromessa che affonda le sue radici molto in profondità. Sarebbe disperato il tentativo di trovare un unico responsabile per i tanti disastri che si sono consumati in questo angolo di Italia. Corrado Clini, che durante l’ultima campagna elettorale ha avuto addirittura l’impudenza di presentare una sua Agenda Verde, ha certamente la sua parte di responsabilità essendo stato per vent’anni direttore generale del Ministero dell’Ambiente e avendo dunque affiancato la sua carriera alle più drammatiche e controverse vicende ambientali di questo Paese, Ilva compresa. Gli amministratori e i dirigenti politici locali hanno concorso da parte loro alla triste vicenda di un’azienda prima privata, poi pubblica e infine di nuovo privata, ma sempre avvelenata da nepotismi, inefficienze, tangenti, inquinamento e usura degli impianti.
Nella vicenda dell’Ilva si specchia la povertà di pensiero nazionale e la scarsa visione della politica nostrana. Un buon governo avrebbe dovuto pianificare da decenni (l’Ilva è entrata in crisi, con l’intero settore dell’acciaio, negli anni Ottanta, mentre gli allarmi per l’ambiente e la salute pubblica risalgono addirittura a due decenni prima) strategie di lungo termine prevedendo la chiusura di attività altamente inquinanti e incentivando la nascita di altrettante attività in linea con le nuove esigenze economiche, sociali e ambientali. Invece una politica malata di clientelismo e immoralità, distante anni luce dagli interessi della gente, ha scelto di tenere in piedi soluzioni senza sviluppo, perdendo altre opportunità. Adesso possiamo continuare a discutere se è giusto che la difesa del posto di lavoro venga prima della salute, della qualità della vita e dell’ambiente. Forse, perfino del buon senso. Ma la triste, sconsolante verità è che era già stato tutto previsto, fin dal principio. Il 10 aprile 1965, giorno dell’inaugurazione ufficiale del Centro siderurgico Iri “Salvino Sernesi” di Taranto, diventato Ilva dopo la privatizzazione, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat parlò di un “grande stabilimento industriale” e di uno Stato che “ha seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla”. Qualche anno dopo Antonio Cederna, il più arguto fustigatore delle malefatte perpetrate nei confronti dell’ambiente italiano, pubblicò due articoli sul Corriere della Sera (per inciso, oggi lo stesso quotidiano dedica poco spazio agli ultimi fatti e anche questo è un evidente segno del declino nazionale). Nel primo articolo scrisse: “l’Italsider tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso sociale”. L’articolo successivo fu intitolato: “Taranto strangolata dal boom”. Ecco un passaggio: “un’impresa a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento”. Si riferiva al quartiere Tamburi tornato al centro delle cronache nei mesi passati per l’alta incidenza di tumori. Di ieri, invece, la notizia delle manovre illecite attivate per ottenere l’autorizzazione della discarica realizzata in una cava all’interno dello stabilimento e dove vengono smaltiti i rifiuti industriali e le polveri prodotte dagli impianti ritenuti la fonte dell’inquinamento killer individuato con l’indagine per disastro ambientale.
Vergogna, vergogna, vergogna.