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E noi che siamo come cani, senza padroni

Giorni fa, D’Alema ha rispolverato il termine “padroni”; Renzi, invece, preferisce definire gli imprenditori “lavoratori”. Secondo molti osservatori questo scontro dialettico mette in luce la distanza ormai profonda fra le due anime del Pd. Balle!
Ci sono gli imprenditori, cioè quelli che creano lavoro, reinvestono gli utili in azienda e conducono la loro impresa senza calpestare i diritti degli altri. Ci sono perfino gli imprenditori illuminati, che danno vita a luoghi di lavoro all’avanguardia, dove è piacevole stare, luoghi che concorrono al benessere dell’intera comunità.
E ci sono i padroni, cioè quelli che se ne fregano della comunità e non creano ricchezza, se non per se stessi. Sono quelli che gli utili, anziché reinvestirli in azienda, li usano per speculare in borsa, che calpestano sistematicamente i diritti, spostando il lavoro duro dove non ci sono tutele e offrendo salari da fame; sono quelli che non competono attraverso la qualità del prodotto, ma grazie agli amici politici che finanziano e si ingraziano, e che non si fanno scrupoli a subappaltare alle imprese in mano alla criminalità organizzata.
Io della prima categoria non ne ho conosciuti molti, e voi?

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Non è un paese per imprenditori

Ambiente: Squinzi a Letta, irrealistica riduzione 40% CO2

Gran Bretagna, Germania, Francia e altri 8 Paesi (tra questi l’Italia) stanno spingendo affinché il prossimo 22 gennaio in sede europea sia approvato un ulteriore inasprimento delle politiche anti-inquinamento: in sostanza si tratterebbe di alzare dal 20 al 40% il taglio delle emissioni di CO2 entro il 2030. I massimi rappresentanti degli imprenditori italiani sono insorti. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Enrico Letta, per chiedere di rivedere la posizione italiana. Interpellato al riguardo, Squinzi ha dichiarato con il ‘consueto ottimismo’ che un simile provvedimento «sarà catastrofico per la competitività del sistema manifatturiero italiano». Il Sole 24 Ore, che è il giornale di Confindustria, ha sostenuto la tesi del presidente degli imprenditori. In un breve articolo apparso sulla versione digitale di ieri è stato spiegato che “se l’arcigna Europa del rigore si agghinda con la camicia di forza dell’ambientalismo velleitario, per i Paesi in cerca di una via di fuga dalla recessione, come è l’Italia, non può che esserci prima paralisi, poi declino”. Quindi il suggerimento: “prima di firmare appelli autolesionisti con compagni di strada che nulla hanno da perdere (perché magari puntano sui servizi e non sulla produzione) meglio pensarci”. Quali sarebbero i compagni di squadra che puntano sui servizi e non sulla produzione? La Germania, per esempio!?!
Squinzi approfitta anche di questa situazione per chiedere il solito ‘aiutino’. Secondo il presidente di Confindustria, infatti, quello che serve è un sostegno alle imprese: «Auspichiamo che le decisioni che saranno assunte in sede europea in merito diano un segnale di sostegno alla competitività dell’industria e non penalizzino il sistema produttivo italiano». Francamente ne abbiamo le palle piene di queste aziende che chiedono e arraffano aiuti per poi mettere sotto scacco i lavoratori e i cittadini. Come non se ne può già più di sentire parlare di una ripresa alle porte, forse già in atto, ma di un’occupazione che non tornerà a crescere, almeno a breve. La posizione di una gran parte degli imprenditori italiani è efficacemente sintetizzata da una nota battuta di Ricucci. Tolti alcuni casi eccezionali, ne cito uno per tutti, Leonardo Del Vecchio, il nostro capitalismo nazionale da sempre è rappresentato  da nanismo congenito delle imprese, incapacità di diventare globali, intreccio con la politica. I percorsi biografici da veri industriali scarseggiano in Italia, esattamente come gli imprenditori disposti a rischiare in proprio. Si cerca piuttosto il potere, un ruolo di comando, visibilità e influenza politica. Sempre con i soldi degli altri. Le grandi famiglie capitaliste italiane sono sempre state così. Dall’avvocato in giù. Non hanno mai tirato fuori una lira di tasca propria per le aziende. 
Dal principio della crisi Confindustria ha scaricato tutte le colpe e le responsabilità sulla politica. Che quest’ultima sia colpevole è un fatto certo. Ma è altrettanto certo che le imprese hanno altrettanti scheletri negli armadi. L’elenco di aziende che hanno ricevuto aiuti e poi hanno delocalizzato sarebbe assai lungo. Eppure Squinzi si presenta in ogni occasione col cappello in mano, dichiarando a pie’ sospinto che le aziende sono «vicinissime alla fine». Dopo la spesa pubblica e la concorrenza sleale, il nuovo ostacolo si materializza nella lotta all’inquinamento. Che le imprese italiane, chi l’avrebbe mai detto?, non possono sostenere. E pensare che l’Italia dal 1990 ha ridotto le emissioni di gas serra del 6%, la Germania del 25%. Eppure l’economia in crisi è la nostra, non la loro. Insomma anche la green economy da noi resta una svolta sacrosanta solo nelle parole dei convegni. Naturalmente pagati con i soldi degli altri.

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Sogni e suicidi ai tempi della crisi

«I suicidi non sono aumentati, anzi i suicidi economici in Italia sono diminuiti, voi non ci crederete. All’estero è vietato dare notizie sui suicidi, perché una cosa certa è che procurano l’emulazione. Non applaudiamo al suicidio di stato, perché è così che si crea la sindrome e la gente si ammazza». Con queste parole, su Canale 5, si è espresso il giornalista di Libero e collaboratore de Il Foglio Filippo Facci. Non intendo prendere parte a questo balletto di cifre. Trovo fastidioso e cinico stare a discutere se i suicidi riconducibili a problemi economici siano aumentati o diminuiti. Riconosco, però, che stampa e Tv stanno trattando l’argomento con la consueta superficialità. Buttano in pasto all’opinione pubblica tragedie private con un solo obiettivo: vendere copie e fare audience. Nessuno è davvero interessato ad approfondire i singoli casi per accertare le cause dei ferali gesti.
Vorrei invece affrontare la spinosa questione da un’altra prospettiva. Un paio di settimane fa, il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, ha affermato: «Hanno tutta la mia solidarietà, ma gli imprenditori che si sono tolti la vita non sono degli eroi. Eroe è quello che si alza al mattino e continua a lottare». Zuccato si è spinto più in là: «Penso che quando c’è un suicidio, ci siano altri problemi prima della crisi. Lo ho constatato di persona. Un suicidio di alcuni giorni fa attribuito a problemi aziendali si è rivelato collegato ad alcune concause, quali depressione e problemi familiari dell’imprenditore. Sono argomenti che, su persone fragili, possono essere molto pesanti».
La domanda che mi pongo ogni volta che sento parlare di un imprenditore suicidatosi per i debiti contratti dalla sua azienda o di un lavoratore che si è tolto la vita per avere perso il lavoro è proprio questa: è davvero possibile che le difficoltà economiche e finanziarie, per quanto gravi, possano spingerci a farla finita? Certo, per un industriale non è facile assistere al fallimento della propria creatura, tanto più se si considera che il suo tracollo trascina nel baratro dell’incertezza i dipendenti e le loro famiglie. E altrettanto difficile è la situazione del lavoratore, magari padre o madre di famiglia, che fatica a sostenere economicamente i propri cari. Sono situazioni critiche, è evidente. Nessuno può permettersi di minimizzarle. Nessuno tranne i nostri governanti, che hanno ironizzato sui disastri del precariato e degli esodati.
Resta tuttavia un dubbio e cioè che all’origine della disperazione travolgente ci sia un rapporto deformato con la propria esistenza e con quella dei propri familiari e delle persone più vicine. Può un uomo sopravvivere al fallimento di un’azienda e alla fine di un rapporto di lavoro? Può. Anzi, deve. Nessuna crisi economica può giustificare la totale perdita di fiducia in noi stessi. Responsabilità e coraggio sono doti che oggi più che mai dobbiamo custodire con cura.
Ho conosciuto uomini e donne che hanno superato gravissime disgrazie uscendone trasformati e rinnovati. Fino al punto di raggiungere lo scopo più alto, quello a cui tutti aneliamo: dare un senso alla vita. E questo senso, perdonatemi la banalità, non può essere ridotto alla ricerca di successo e denaro. Assicurare per sé e i propri congiunti la tranquillità economica è un obiettivo condiviso, però il nostro vento nocchiero va cercato anche altrove. Soltanto se abbiamo già dentro di noi il vento che soffia sulla vela riusciremo a veleggiare anche quando c’è bonaccia.
Diceva Seneca: «Tu vorresti insegnarmi come conservare i miei beni e la mia condizione, ma io desidererei piuttosto imparare come potrei perderli ed essere ugualmente felice».
Intendiamoci, proteggere l’occupazione e creare altri posti di lavoro è di assoluta importanza, ma al tempo stesso abbiamo anche urgente bisogno di un rinnovato senso di prosperità condivisa. La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata che sia in grado di affrontare l’enorme sfida di assicurare un benessere duraturo. La vera prosperità consiste nella nostra capacità di crescere bene come esseri umani. Ripensare a un pianeta dove ci sia floridezza senza più bisogno di consumi sfrenati non è soltanto uno slogan carico di suggestioni anarco-hippie.
Occorre andare di slancio oltre l’uso di una metrica monetaria, perché a molti degli elementi che determinano il benessere e anche il progresso non è possibile assegnare in modo accurato un prezzo. Oggi ci serve un’economia onesta, finalmente realistica, pensata per un pianeta dalle risorse limitate, nel quale sia possibile avere una serena prosperità. Il “buon vivere”, inteso come paradigma etico e morale, custodisce la ricetta alternativa. Ci esorta a ripensare le nostre relazioni con il mondo e a recuperare il dialogo, ci invita a riconoscere le diversità culturali e a riscoprire i piaceri autentici: un buon libro, una passeggiata all’aria aperta, una cena con gli amici, una gita fuori porta con le persone che amiamo, una giornata al museo dietro casa dove magari non abbiamo mai messo piede, la musica di Mozart o Gershwin, la voce della Callas nell’Andrea Chénier. Nulla di tutto questo è indispensabile per vivere. Però non dimentichiamoci di ciò che recita Prospero nella Tempesta: «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». E i sogni ci parlano della parte più profonda di noi stessi, delle aspirazioni più vere. Non chiudiamo i nostri sogni dentro il caveau di una banca. Perché è allora che, d’un tratto, la nostra vita può apparire inutile.