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L’Italia crolla e gli asini ragliano

italia franaSembrerebbe quasi una maledizione divina, se non fosse che invece di divino in tutta questa storia c’è ben poco. Quella dell’Italia che frana e si sgretola è una tragedia tutta umana. Terribilmente umana. Non è altro che l’epilogo di una sciagura cominciata decenni fa con sindaci incompetenti e collusi, proprietari terrieri famelici, palazzinari aguzzini. Ovunque ci fosse un pezzetto di suolo da sfruttare in questo disgraziato Paese ci si sono buttati tutti, ma proprio tutti. Troppo facile fare oggi i moralisti. Ora paiono tutti consapevoli del fatto che si è costruito troppo e male. Spuntano ovunque facce di politici, commentatori, opinionisti e professionisti che denunciano lo scempio. Eppure tutti loro appartengono a schieramenti che hanno sostenuto e continuano a sostenere la speculazione, oppure lavorano per editori pubblici e privati che fino a ieri hanno ignorato le voci di chi, pochi, pochissimi, denunciavano i soprusi e i rischi, o ancora firmano progetti assassini.
Questa è l’Italia, la solita Italia. Dove sono scomparsi i fascisti dopo la caduta del regime, i forlaniani e i craxiani dopo tangentopoli, e ora, dulcis in fundo, i lottizzatori, i cementificatori, i devastatori di litorali e foreste, centri urbani e monumenti.
Non illudiamoci. Quelle che sentiamo e leggiamo in questi giorni sono solo parole vuote. Sono solo ragli d’asino che, come tali, non salgono in cielo. Mentre ci tocca ascoltare un ministro Udc che denuncia i condoni edilizi (!) e sopportare editoriali di gente che non ha mai letto una sola riga di Antonio Cederna, Renato Bazzoni o Giorgio Bassani e ora firma tutta tronfia pezzi colmi di retorica nella convinzione di avere scritto cose originali; mentre assistiamo esterrefatti a propagande governative che parlano di #italiasicura, fuori c’è una banda di malfattori, agguerriti come al solito, che saccheggiano città e campagne. Potenti gruppi finanziari stanno investendo decine, centinaia di milioni di euro in grandi opere che non servono a nessuno e in lottizzazioni gigantesche (venghino a Milano, siori, venghino!): il nostro capitalismo corrotto e arrettrato fonda ancora le sue fortune sul saccheggio del territorio. Siamo fermi al culto della doppia, anzi ormai terza e quarta carreggiata, delle “villette otto locali doppi servissi”.
L’Italia è un paese a termine. Un’espressione geografica dal paesaggio provvisorio, dove tutto si regge su un avverbio: questo tratto di campagna non è ancora edificato, quel centro storico è ancora abbastanza integro, questa collina non è ancora lottizzata. Tutto è precario, tranne una certezza, anzi due. Il peggio deve ancora venire. E gli asini continueranno a ragliare.

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L’agonia di Pompei

Scavi di Pompei

Domenica 22 giugno, cinquecento turisti si sono trovati sbarrati gli scavi di Pompei: “Chiusi per assemblea sindacale” avvisava un cartello. Era già accaduto qualche giorno prima, ed erano stati migliaia gli aspiranti visitatori provenienti da tutto il mondo a essere lasciati in attesa sotto il sole campano.

Pompei, che a lungo è stata la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà, è diventato il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco (continua…)

L’agonia di Pompei.

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Come galline senza testa

Dl Irpef: Padoan al Colle per ulteriori chiarimentiLa lotta all’evasione sarà una delle “priorità” del semestre europeo a guida italiana. Così ha cantato oggi la gallina Padoan. C’è davvero da domandarsi cosa passa per la testa del ministro dell’Economia quando rilascia simili dichiarazioni. Riassumiamo per i disattenti. Secondo i più recenti dati disponibili, l’Italia è maglia nera assoluta nell’Unione Europea per evasione fiscale. Oltre un anno fa il presidente della Corte dei Conti, citando dati Ocse nel corso di un’audizione alla commissione Finanze del Senato, parlò di un’Italia che “si colloca ai primissimi posti della graduatoria internazionale”, alle spalle solo di Turchia e Messico. Uno studio realizzato dall’autorevole organizzazione Tax Reserach di Londra sulla base del Pil 2009 indicava che in Italia il sommerso equivale al 27% dell’intero Prodotto interno lordo nazionale; in Germania si ferma al 16%, in Francia al 15%, nel Regno Unito al 12,5%. Ora, quale può essere la credibilità di un uomo politico nostrano che va dicendo in giro che la lotta all’evasione sarà una delle “priorità” del semestre europeo a guida italiana? La stessa di un tedesco che dichiara di voler diffondere in Europa la cultura gastronomica. Anzi, meno ancora, visto che la Germania ci ha superati perfino nel cibo stellato: nell’edizione 2014 della celebre Guida Michelin i ristoranti tedeschi con tre stelle sono saliti a 11, contro gli 8 italiani.

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La grande bellezza insegna: per vincere basta esportare la nostro decadenza

La grande bellezza

A ben pensarci non c’è alcun motivo, come italiani, di esaltarci per il successo ottenuto all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, dal film diretto da Sorrentino, La grande bellezza. Lascio a chi è più competente i giudizi sull’opera cinematografica. Non m’interessa in questa sede dibattere se è un lavoro presuntuoso o meno e se è vero che il regista si compiace un po’ troppo per le tantissime citazioni letterarie di cui è imbevuto il film. Vorrei concentrarmi solo sulla storia raccontata.
La grande bellezza rimanda al tempo perduto, sprecato, quello che non può più tornare. C’è l’amore finito del protagonista, sperimentato nell’età più dolce della sua vita. L’amore a vent’anni, vissuto intensamente, ma che improvvisamente si è spezzato e non è stato mai più ritrovato. E c’è il fascino sfarzoso e unico di Roma, capace di provocare una vertigine nell’osservatore. Ma questo fascino apparente immortale deve fare i conti con le brutture dell’Italia odierna.
È in questo passaggio che La grande bellezza diventa spietata e mostra come l’italianità degli ultimi decenni si alimenta solo del proprio passato, perché è incapace di produrre qualcosa di originale, figuriamoci di rivoluzionario. Roma e con essa gran parte del Paese vivono sulle vestigia di un passato del quale noi non abbiamo alcun merito. Tutta questa bellezza l’abbiamo ereditata. E tutto ciò che abbiamo saputo fare è stato di attribuire a noi stessi una grandezza che non ci appartiene. Non ce la meritiamo, perché non abbiamo fatto nulla per proseguire lo straordinario processo creativo, anzi lo stiamo divorando. Forse per questo siamo così arroganti e maleducati, soprattutto all’estero, perché viviamo di una luce riflessa che ormai si sta spegnendo. Presuntuosi senza alcuna ragione.
Il film di Sorrentino parla di questo, non illudiamoci. Anche se a tratti può apparire indulgente con le specifiche di oggi, in realtà racconta un’italianità mediocre, lontana dal suo antico prestigio, approfittatrice, prepotente e volgare. E da fuori gli stranieri ci vedono proprio così. Con quel misto di deferenza per il nostro passato e dileggio per il nostro presente. Come quando si guarda un ragazzino rimbambito, ma figlio di un grande imprenditore, e lo si rispetta perché suo padre è stato un genio. L’immagine che si ha di noi è quella delle nostre piazze, i nostri monumenti, i nostri siti archeologici, la nostra cucina tradizionale, tutte cose per le quali nel presente non abbiamo alcun merito.
L’Italia raccontata dal film di Sorrentino è rassicurante, soprattutto per chi ci guarda con spirito di colonizzazione. È il Paese della decadenza presuntuosa e dell’imbroglio, delle mazzette e dei nobili decaduti, dove non è quasi più possibile distinguere il vero dal falso. Ma è anche il luogo che ancora custodisce la «grande bellezza» di chiese e palazzi, di fronte alla quale ogni turista dell’altro mondo si emoziona e dimentica le nefandezze.
Ecco perché il plauso americano intorno al film di Sorrentino non ci deve esaltare.

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Non è un paese per imprenditori

Ambiente: Squinzi a Letta, irrealistica riduzione 40% CO2

Gran Bretagna, Germania, Francia e altri 8 Paesi (tra questi l’Italia) stanno spingendo affinché il prossimo 22 gennaio in sede europea sia approvato un ulteriore inasprimento delle politiche anti-inquinamento: in sostanza si tratterebbe di alzare dal 20 al 40% il taglio delle emissioni di CO2 entro il 2030. I massimi rappresentanti degli imprenditori italiani sono insorti. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Enrico Letta, per chiedere di rivedere la posizione italiana. Interpellato al riguardo, Squinzi ha dichiarato con il ‘consueto ottimismo’ che un simile provvedimento «sarà catastrofico per la competitività del sistema manifatturiero italiano». Il Sole 24 Ore, che è il giornale di Confindustria, ha sostenuto la tesi del presidente degli imprenditori. In un breve articolo apparso sulla versione digitale di ieri è stato spiegato che “se l’arcigna Europa del rigore si agghinda con la camicia di forza dell’ambientalismo velleitario, per i Paesi in cerca di una via di fuga dalla recessione, come è l’Italia, non può che esserci prima paralisi, poi declino”. Quindi il suggerimento: “prima di firmare appelli autolesionisti con compagni di strada che nulla hanno da perdere (perché magari puntano sui servizi e non sulla produzione) meglio pensarci”. Quali sarebbero i compagni di squadra che puntano sui servizi e non sulla produzione? La Germania, per esempio!?!
Squinzi approfitta anche di questa situazione per chiedere il solito ‘aiutino’. Secondo il presidente di Confindustria, infatti, quello che serve è un sostegno alle imprese: «Auspichiamo che le decisioni che saranno assunte in sede europea in merito diano un segnale di sostegno alla competitività dell’industria e non penalizzino il sistema produttivo italiano». Francamente ne abbiamo le palle piene di queste aziende che chiedono e arraffano aiuti per poi mettere sotto scacco i lavoratori e i cittadini. Come non se ne può già più di sentire parlare di una ripresa alle porte, forse già in atto, ma di un’occupazione che non tornerà a crescere, almeno a breve. La posizione di una gran parte degli imprenditori italiani è efficacemente sintetizzata da una nota battuta di Ricucci. Tolti alcuni casi eccezionali, ne cito uno per tutti, Leonardo Del Vecchio, il nostro capitalismo nazionale da sempre è rappresentato  da nanismo congenito delle imprese, incapacità di diventare globali, intreccio con la politica. I percorsi biografici da veri industriali scarseggiano in Italia, esattamente come gli imprenditori disposti a rischiare in proprio. Si cerca piuttosto il potere, un ruolo di comando, visibilità e influenza politica. Sempre con i soldi degli altri. Le grandi famiglie capitaliste italiane sono sempre state così. Dall’avvocato in giù. Non hanno mai tirato fuori una lira di tasca propria per le aziende. 
Dal principio della crisi Confindustria ha scaricato tutte le colpe e le responsabilità sulla politica. Che quest’ultima sia colpevole è un fatto certo. Ma è altrettanto certo che le imprese hanno altrettanti scheletri negli armadi. L’elenco di aziende che hanno ricevuto aiuti e poi hanno delocalizzato sarebbe assai lungo. Eppure Squinzi si presenta in ogni occasione col cappello in mano, dichiarando a pie’ sospinto che le aziende sono «vicinissime alla fine». Dopo la spesa pubblica e la concorrenza sleale, il nuovo ostacolo si materializza nella lotta all’inquinamento. Che le imprese italiane, chi l’avrebbe mai detto?, non possono sostenere. E pensare che l’Italia dal 1990 ha ridotto le emissioni di gas serra del 6%, la Germania del 25%. Eppure l’economia in crisi è la nostra, non la loro. Insomma anche la green economy da noi resta una svolta sacrosanta solo nelle parole dei convegni. Naturalmente pagati con i soldi degli altri.

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Quindici anni di euro: disastro Italia

Sono trascorsi 15 anni dall’entrata in vigore dell’Euro. Euro-entusiati ed euro-scettici in tutto questo periodo si sono fronteggiati a suon di previsioni. I primi, decisamente più numerosi fra le istituzioni e le forze politiche, non è dato di sapere fra l’opinione pubblica poiché in Italia, a differenza di quanto accaduto in altri Paesi, non si è ritenuto di raccogliere il parere del popolo, hanno sempre sostenuto che l’euro avrebbe portato in Italia tassi di interesse più bassi, minore debito pubblico, stabilità finanziaria e maggiore crescita. Carlo Azeglio Ciampi, forse il maggiore euro-entusiasta, incontrando gli imprenditori italiani al Quirinale disse loro: «Ricordate quanto si pagava più di interessi rispetto ai concorrenti europei? Prima dell’euro lo Stato italiano era considerato un debitore meno affidabile di altri Stati. Ora siamo credibili quanto gli altri».
Secondo gli euro-scettici, invece, l’eurozona è soltanto il tentativo dei tedeschi di crearsi un mercato protetto, usando  gli strumenti delle quote e dei divieti per uccidere le economie di tutti gli altri paesi.
I cittadini hanno sperato, sbuffato, imprecato. E prima ancora di capire chi aveva ragione si sono trovati immersi in una delle peggiori crisi economiche della storia recente.
Nei giorni scorsi The Economist  ha pubblicato un grafico che mostra le variazioni del reddito pro capite – la quantità di PIL (prodotto interno lordo) mediamente posseduta dai cittadini di un determinato Stato, in sostanza un indicatore usato per misurare il benessere della popolazione – dal debutto dell’euro sui mercati finanziari a oggi. Il grafico comprende alcuni paesi che fanno parte dell’eurozona, altri che non ne fanno parte ma che sono nell’Unione Europea, altri extra-europei. I dati sono del Fondo Monetario Internazionale. Il pil pro capite della Germania, nonostante la crisi economica e la recessione,  è salito del 20%, quello dell’Italia è calato del 3%. 
Questi sono dati, il resto sono solo parole.

grafico-The Economist

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L’Italia ostaggio di grotteschi ministri da repubblica delle banane

Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la cui credibilità è stata già fortemente minata dalla “imprudente” telefonata con la compagna di Salvatore Ligresti nel giorno del suo arresto, riferendo in Parlamento sul caso di Bartolomeo Gagliano, il serial killer di cui si sono perse le tracce dopo un permesso premio dal carcere di Marassi, ha affermato “Tutti erano a conoscenza del percorso di Gagliano”. E allora? Domandiamo a lei, signor ministro, e non ad altri, perché un pericoloso criminale ha ricevuto un permesso premio.
Il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge ha così commentato il calvario che stanno vivendo 26 famiglie italiane bloccate nella Repubblica Democratica del Congo dallo scorso 13 novembre: «Il Congo ha cambiato le regole, ci hanno negato anche le liste». E allora? Come mai i ministri di una delle maggiori potenze occidentali, Bonino e Kyenge, non riescono ad ottenere un timbro dalla Direction Générale de Migration del Congo per riportare a casa i propri connazionali?
Il ministro dei Beni culturali Massimo Bray è andato alla Tv di Stato, ospite da Fabio Fazio, e ha spiegato che la cultura in Italia è al disastro. E allora? Ma non dovrebbe essere lui a fare qualcosa?
Ma che razza di Paese siamo diventati? Come si permettono questi signori e queste signore di parlare come se fossero opinionisti anziché ministri. I problemi loro non li devono denunciare, ma risolvere. Lo stato comatoso della giustizia italiana, il tragico declino delle nostre relazioni internazionali e le pessimi condizioni in cui versano la gran parte dei beni culturali di quello che un tempo fu il Bel Paese oggi sono una loro responsabilità. Sono loro che devono porvi rimedio. Nel momento stesso in cui hanno accettato i loro incarichi conoscevano bene le difficoltà a cui sarebbero andati incontro. Oppure credevano di governare un Paese dove il sistema carcerario e giudiziario eccellono, le diplomazie sono rispettate e il patrimonio storico e artistico è al centro dell’attenzione? Rilasciare commenti e andare in TV a raccontare questo e quel disastro, quasi che la cosa non riguardasse loro, è meschino. E lasciar parlare questi ministri senza contestare loro menzogne e furbizie è da codardi.

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Expo Milano 2015 “Nutrire il Pianeta”. Ma il piatto forte è il cemento

Verranno a dirvi che Expo 2015 sarà un’occasione unica per rilanciare l’Italia.
E che sarà un’occasione unica per riprogettare Milano.
Verranno a dirvi che Expo 2015 sarà uno straordinario evento universale, che darà visibilità alla tradizione, alla creatività e all’innovazione nel settore dell’alimentazione.
Difatti lo slogan di Expo 2015 è “Nutrire il Pianeta”. Al centro dell’evento dovrebbe esserci il tema del diritto ad una alimentazione sana, sicura e sufficiente per tutto il mondo.
Verranno a dirvi tutto questo e molto altro ancora: che si è già ottenuto il record di adesioni, che è previsto il record di visitatori, che senza Expo 2015 saremmo destinati al declino. Esattamente come ci avevano detto che senza l’euro saremmo precipitati in una crisi drammatica…
Ogni volta che sentirete queste parole, naturalmente pronunciate con l’enfasi che si accorda a simili ‘ghiotte’ occasioni, vi invito a guardare immediatamente dopo le immagini riportate qui sotto. Documentano l’immenso cantiere aperto da mesi a Milano su un’area racchiusa tra la linea ferroviaria dell’alta velocità, il polo fieristico di Rho-Pero, il tratto urbano della A4, la statale del Sempione e il cimitero Maggiore. Qui sorgerà il sito espositivo, progettato secondo la mente fervida degli organizzatori come espressione del tema ‘Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita’. A una persona comune e raziocinante invece pare soltanto una spaventosa colata di cemento, che si aggiunge ai grattacieli del quartiere Porta Nuova-Garibaldi e ai palazzoni in costruzione o già costruiti nell’area della vecchia Fiera, a Santa Giulia e a Porta Vittoria. Sembra del tutto evidente che il piatto forte con cui si pensa di nutrire il Pianeta è a base di cemento, condito da asfalto e trivelle, il tutto sapientemente miscelato da ruspe.

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Sullo sfondo di queste ultime due foto si possono osservare il Monte Rosa  e altre cime delle Alpi innevate. Costituiscono un’elemento di naturalità che potrebbe disturbare. Ma non preoccupatevi. I Tre Moschettieri (che come ben sappiamo in realtà erano quattro) raffigurati nell’immagine sottostante si stanno diligentemente adoperando per risolvere anche questo problema. Soffieranno con forza il loro vento barbaro fin verso le pendici dei monti. E qualcosa magari accadrà.

letta-sala-maroni-pisapia- expoda sinistra Giuseppe Sala, Enrico Letta, Roberto Maroni, Giuliano Pisapia. 

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Stampa e Tv non vi sopporto più. Ma sarà vero?

Un tifoso che ha seguito in trasferta la squadra del cuore sarà pronto a giurarvi che allo stadio si sentivano solo i cori del settore ospiti. Non perché sia andata effettivamente così, ma piuttosto perché lui, immerso tra i compagni, sentiva solo le urla a sostegno della propria squadra. Lo stesso accade a chi magnifica senza senso critico il ruolo di Internet, ormai decisivo secondo alcuni nel determinare successi e sconfitte elettorali, imprenditoriali e di ogni altro genere. Insomma decisivi nel determinare le sorti di un Paese. Chi trascorre la giornata su blog e social network finisce per convincersi che tutte le idee interessanti debbano passare per forza soltanto da lì. La televisione probabilmente ha perso parte della sua capacità di creare opinione e indirizzare il consumatore, ma arrivare a sostenere che è finita denota scarsa capacità di osservare la realtà. Secondo i più recenti rapporti, la televisione resta saldamente il medium preferito dagli italiani, con percentuali bulgare di utilizzo del mezzo (oltre il 95% per cento). Seguono radio, quotidiani e siti web. I telegiornali sono ancora considerati fonti tra le più affidabili (!?), e nelle preferenze dei connazionali prima di Google viene addirittura il Televideo. Bastano questi pochi dati per comprendere che l’Italia è spaccata in due: giovani e istruiti da una parte, anziani e poco istruiti dall’altra. Fatte salve le dovute eccezioni. I primi navigano con facilità sul Web, usano almeno un social network (e lo considerano strumento di democrazia), e non leggono un giornale nemmeno della free press. Gli altri sono fermi a Bruno Vespa, Affari tuoi e Mediashopping con il suo circo di materassi, frullatori e panche per gli addominali. Idolatrare i nuovi media in quanto portatori in sé del “vento che cambia” rischia di generare gravi errori di prospettiva: siamo in Italia, gente. Non dimentichiamolo.

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Telecom: le ragioni del sottosviluppo italiano

Perché parlare ancora di Telecom? Non è già stato detto tutto? Sì, la maledetta storia di Telecom è stata già analizzata più e più volte. E a parte qualche inguaribile sognatore e un po’ di farabutti, gli italiani hanno capito che nella storia di questa azienda si specchia l’inesorabile declino del Paese. Gli inguaribili sognatori, quelli che si sono emozionati nel vedere raddrizzare una nave maldestramente rovesciata in mare, continueranno a credere che un tempo Telecom è stata tra le grandi società di telefonia al mondo. Non è vero, è solo un luogo comune alimentato da certa stampa, ma poi in fondo poco importa. Ciò che conta è oggi, e oggi Telecom è un’azienda affossata dai debiti che fornisce un pessimo servizio. I farabutti probabilmente continueranno a contendersela finché avranno spolpato l’osso per intero, ed è rimasto ben poco perché chi è già passato da quelle parti era molto affamato. Serve a poco ricordare che alla greppia di Telecom hanno sostato alcuni dei più blasonati nomi dell’imprenditoria italiana, da Colaninno a Tronchetti Provera, e che dopo l’uscita di quest’ultimo si sono seduti a tavola anche i soliti, Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo, i cannibali nazionali.
Telecom è fra i principali responsabili dell’arretratezza di cui soffre oggi il nostro Paese. E il motivo è presto spiegato: l’azienda controlla la rete, ossia quell’infrastruttura che da anni alimenta l’innovazione e moltiplica lo sviluppo, più o meno come hanno fatto un tempo le ferrovie e poi le autostrade. La rete consente un utilizzo massiccio di Internet veloce. Ma la nostra rete non è all’altezza. Si dice che attualmente solo il 22% degli italiani dispone di un collegamento a banda larga (che peraltro è la meno veloce); probabilmente sono ancora meno, questo è la sensazione che si ricava girando per la penisola. Così, mentre gli altri volano, noi arranchiamo zoppicanti. Noi, noi tutti, giovani, famiglie, imprese. Secondo i più recenti dati diffusi dall’Internet Quarterly Report, l’Italia ha la peggiore velocità media di connessione via banda larga d’Europa. E l’Europa intera non eccelle, specialmente se paragonata a molti Paesi asiatici.
Eravamo un popolo di navigatori che scoprivano nuovi mondi. Eravamo.

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I fatti valgono più delle parole. All’estero

Nello stesso giorno in cui il Capo del Governo italiano, Enrico Letta, è a Londra per rassicurare la comunità finanziaria circa l’affidabilità dell’Italia, la stessa comunità è raggiunta da due notizie: l’arresto di tutta la famiglia Ligresti per le ipotesi di reato di falso in bilancio aggravato e di manipolazione di mercato, e la condanna di Marco Tronchetti Provera a 1 anno e 8 mesi per ricettazione. Non stiamo parlando di piccoli imprenditori, ma di esponenti di spicco del cosiddetto gotha della finanza nazionale, gente che determina il destino dell’Italia. Secondo voi i mercati cosa ascolteranno? La vuota retorica di un premier a termine o il tintinnio delle manette?

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Chi è causa del suo mal, pianga se stesso

Avete sentito parlare della lettera “L’Italia è morta, andatevene finché siete in tempo“, pubblicata il 2 luglio 2013 su Italians di Beppe Severgini? Una lettera dai contenuti bislacchi e ricca di luoghi comuni (nel puro Italians style), condita con qualche attacco ai vari Trota, Batman, Formigoni e Minetti (con questi non si sbaglia mai). Eppure ha fatto il botto: 34mila condivisioni su Facebook, oltre 1.800 su Twitter. Numeri da far impallidire tanti modesti e minuscoli blogger come il sottoscritto. Il giornale online Linkiesta ha pensato perfino di ospitare un’intervista all’autore della lettera dei record, Aldo Marchioni, consulente informatico di 55 anni, che nel corso della chiacchierata ha candidamente ammesso di aver votato per Monti alle ultime elezioni. Ma come? Il signor Marchioni si scaglia contro lo Stato vessatore, sostiene che l’Italia è un paese perduto, invita i giovani ad andarsene finché sono in tempo, e ha votato per un uomo che in un anno non ha saputo tagliare neppure un euro di spesa pubblica, ha generato il disastro umano e sociale degli esodati, ha aumentato le tasse su chi produce e ha creato uno Stato ancora più disuguale e ingiusto? E vabbè, signor Marchioni, a lei non è restato proprio altro che giocare a fare la rivoluzione con Beppe Severgnini! Come si dice: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

 

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Gli ultimi giorni di Pompei

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“Gli ultimi giorni di Pompei” è il titolo di numerosi film girati nella prima metà del Novecento, tutti tratti dal celebre e omonimo romanzo di Bulwer-Lytton. La messa in scena della storia d’amore fra Jone e Glauco e della forza distruttrice del Vesuvio, vero protagonista e regolatore delle passioni e delle tragedie umane, ha emozionato intere generazioni quando il cinematografo era ancora un luogo magico e fantastico. Quando la vita degli italiani era ancora un’avventura dove c’era posto per i sogni e la speranza in un futuro migliore.
Gli scavi di Pompei sono stati a lungo la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà. Ora invece sono il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco. Sbaglia però chi crede che l’abbandono del prezioso sito archeologico sia iniziato di recente. La prima volta che ho visitato gli scavi era il 1984 e ancora oggi ricordo con amarezza il viaggio fra le rovine malinconiche. Già allora si percepiva il senso di desolazione e noncuranza a cui era pericolosamente esposta l’intera area. La precarietà si intuiva di fronte alle deboli transenne che avrebbero dovuto indicare il divieto di accesso ad alcuni ambienti a rischio di crollo, oppure quando si palesavano i danni piccoli e grandi provocati dagli atteggiamenti irresponsabili di un turismo stolto e dalla totale mancanza di controlli e vigilanza. Ricordo bene gli sguardi increduli dei visitatori stranieri di fronte a tanto deperimento, lo sdegno evidente per i cumuli di rifiuti abbandonati qua e là, lo stupore compassionevole per i cani randagi che si aggiravano fra le macerie. 
Dopo lo sciopero dei giorni scorsi, la conseguente chiusura e le file di turisti furiosi, la stampa nazionale è tornata a occuparsi di Pompei. Non lo faceva con tanta “passione” dai giorni dei tragici crolli del 2010, quelli che portarono al linciaggio dell’allora ministro dei Beni Culturali Bondi. Ora, il soggetto è indifendibile. Tuttavia occorre avere il coraggio di dire che il crollo della Domus dei Gladiatori, vicenda che per l’appunto trascinò il senatore e coordinatore nazionale del Pdl nella bufera, ha dato il via a una triste e vergognosa farsa. Bondi fu responsabile di non essersi opposto ai tagli alla Cultura voluti e praticati dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ma affermare che il deperimento di Pompei sia una delle tante responsabilità dei Governi Berlusconi è una tesi originale, per non dire peggio. In molti nel 2010 sfilarono davanti alle telecamere con i volti carichi di sdegno, ma tanti di loro stavano in Parlamento e frequentavano le stanze della politica e del potere da un’infinità di anni. Anni durante i quali il degrado di Pompei è avanzato nella più assoluta noncuranza dell’intera classe politica. Un Paese civile, davvero preoccupato per le proprie sorti e non avvelenato dall’odio e pervaso dal malvezzo dell’immoralità, anziché trovare il solito capro espiatorio si sarebbe  interrogato piuttosto su quale manutenzione ordinaria e straordinaria fosse stata attuata a Pompei negli ultimi sessant’anni e quale vigilanza il Ministero avesse esercitato sugli scavi e più in generale sull’immenso patrimonio storico e artistico nazionale. Ma di tutto questo non è mai importato nulla a nessuno. L’agonia dei nostri tesori artistici e paesaggistici non ha tolto il sonno ai ministri e ai parlamentari che si sono succeduti nei decenni promettendo ogni volta rapidi interventi; né ai giornalisti che hanno “offerto” ai lettori esercizi di retorica e libri pubblicati da editori collusi col malcostume e il malgoverno; né tanto meno a gran parte degli italiani, sempre pronti a indignarsi ma sempre lontani da ogni responsabilità. 
Pompei ha continuato a sgretolarsi anche negli ultimi tre anni, ma sui giornali ne avete sentito parlare molto meno perché non c’era una figura goffa come Bondi da dare in pasto alla furia a gettone del popolo. Adesso per qualche giorno invece se ne parlerà ancora: ascolteremo l’allarme e le promesse di un ministro a termine, leggeremo corrosivi editoriali, ci toccherà perfino udire Pietro Salini, amministratore delegato di Impregilo e di Salini in fase di fusione, che denuncia di voler donare venti milioni di euro per il rilancio di Pompei, ma di non riuscire a farlo per colpa della burocrazia. Passatemi la divagazione: Impregilo è un’azienda italiana corresponsabile con alcuni governi sudamericani e africani di aver devastato interi habitat naturali e scacciato popolazioni indigene per erigere ciclopiche dighe e altri grandi opere, e forse il governo italiano dovrebbe domandarsi se è il caso di accettare soldi che grondano ingiustizia sociale e distruzione.
Tornando a Pompei, rassegnamoci. Non cambierà nulla. Tra qualche giorno non ne sentiremo più parlare. Fino a un nuovo scandalo o al prossimo crollo, che potrebbe essere l’ultimo. Chi ha visitato gli scavi ne conosce la provvisorietà ineluttabile. Una provvisorietà che non si manifesta solo nel senso di abbandono, ma che si tocca con mano nella prospettiva nord, dalla quale incombe sornione la mole del Vesuvio. Un sinistro presagio che ricorda un passato tragico e un destino di desolazione.

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L’Italia è un Paese per comici

Alla mitizzazione di Rosario Crocetta, presidente della Regione Sicilia, hanno concorso in molti. Fra questi anche Maurizio Crozza, che in una puntata di ‘Crozza nel Paese delle Meraviglie” aveva elogiato il lavoro del Governo siciliano. Crozza mi è simpatico, e ai miei occhi lo è diventato ancora di più dopo l’imbarazzante incidente occorsogli sul palco durante l’ultimo Festival di Sanremo. Ma un comico trova la sua dimensione nel dileggio, non nell’adulazione. Secondo me la scelta di lodare il lavoro di Crocetta era stata suggerita a Crozza più dalla necessità televisiva di trovare l’antagonista buono al perfido Formigoni (sapiente la parodia dell’ex governatore della Regione Lombardia) che da altre ragioni. Certo si era esposto, e anche molto: ‘Crocetta chiude le società non produttive, taglia i rami secchi, riduce gli stipendi… la Sicilia con Crocetta è diventata all’avanguardia’.
La stella di Crocetta però ha smesso presto di brillare, succede spesso in Italia. Ci sono stati il caso Battiato, la promessa non mantenuta di trasferire i dirigenti responsabili di aver fatto perdere alla Sicilia i fondi strutturali dell’Europa, la vicenda irrisolta dei 23 mila precari degli enti locali, che salgono a circa 100 mila considerando pure i forestali, i 196 milioni di euro spesi per gli stipendi dei dipendenti dell’assessorato regionale ai Beni culturali contro i 490 mila erogati per le attività di conservazione, e altre bagatelle. Anche la riduzione dello stipendio dello stesso presidente suona come una farsa, considerato che sì, se l’è ridotto a 81 mila euro, ma l’ex sindaco di Gela (dove tra l’altro l’Eni è tornata a inquinare pesantemente il mare) somma all’indennità di presidente quella di parlamentare regionale, all’incirca 230 mila euro, arrivando ad una cifra complessiva di 313 mila euro all’anno. Mica bruscolini, no?
Insomma alla fine anche quella di Crocetta si sta rivelando molto simile alla vecchia politica degli annunci, che in Italia ha una lunghissima e solida tradizione. La Sicilia resta una terra meravigliosa per via del prezioso patrimonio artistico, l’antica e nobile storia, la fierezza degli abitanti e la bellezza dolce e aspra del paesaggio. Però la Regione è in default, la sanità è da quarto mondo, i rifiuti assediano i centri urbani, l’istruzione è ai livelli più bassi della Nazione,  la disoccupazione e la povertà dilagano. Per questo, caro Crozza, migliaia di persone ogni anno trascorrono piacevoli vacanze sulle spiagge di Taormina, San Vito Lo Capo e Cefalù, visitano la Valle dei Templi e percorrono le strade del barocco siciliano, ammirano i mosaici di Piazza Armerina e i siti archeologici di Segesta e Selinunte, ma alla fine tornano a trascorrere la loro quotidianità nel grigio e a volte un po’ monotono paesaggio lombardo. Dove, nonostante le ruberie degli anni Ottanta e Novanta, gli scandali e le tangenti, le infiltrazioni mafiose, lo strapotere formigoniano e ciellino, lo smog e tutto il resto che non elenco, si va avanti. Sprechi dei politici siciliani, lombardi, romani e di Bruxelles permettendo.

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Chi è il maestro del lupo cattivo?

lupo cattivo

Conoscete la teoria della scala mobile? Vi trovate all’estero, in aeroporto o in metropolitana. Una o più persone, magari vocianti, anziché stare in fila a destra su una scala mobile o un tapis roulant, occupano con noncuranza la sinistra, impedendo a chi ha fretta di superare. Quella o quelle persone sono quasi certamente italiani.
Si tratta di un gesto piccolo, di poca importanza, compiuto più per disattenzione che per volontà di ostacolare gli altri. Eppure è paradigmatico della nostra diversità. Conosco molte persone intelligenti che scrollerebbero le spalle di fronte alle lagnanze sul nostro scarso senso civico, ritenendo che altri caratteri positivi del popolo italiano compensino in modo sufficiente questo difetto. Persone normali, a tratti educate, pronte ad accusare di moralismo o esterofilia chiunque osi far notare che nel nostro Paese c’è una diffusa sottocultura della legalità debole e dello scarso rispetto per tutto ciò che è collettivo. Persone per bene, cresciute però con una profonda convinzione: la fantasia e la creatività, la voglia di intraprendere, la capacità di arrangiarsi sono il nostro valore aggiunto.
Si tratta perlopiù di individui incapaci di comprendere che da tempo siamo entrati in una fase di sviluppo diversa. Una fase in cui un “capitale sociale” appropriato è diventato anche un potente motore di sviluppo. Una fase in cui un Paese e la sua economia sono competitivi in misura proporzionale al senso civico, al rispetto delle leggi, alla fiducia nelle istituzioni, alla capacità di cooperare onestamente che sanno esprimere.
Da noi invece serpeggia, e non solo fra i giovani, un generale senso di sfiducia nelle istituzioni. Del resto le istituzioni a loro volta ci restituiscono ogni giorno almeno un motivo per nutrire questa sfiducia. Secondo Eurispes un italiano su quattro non denuncia i reati subiti, in parte perché i danni ricevuti non sono gravi, ma anche perché tende a prevalere fra la gente un senso di arrendevolezza nei confronti delle forze di polizia e del sistema giustizia.
Lo scarso senso civico ci induce a credere sempre che il problema stia altrove, ovunque fuorché dentro noi stessi. La politica non dà risposte efficaci ai cittadini perché i governanti sono corrotti e incapaci. La pubblica amministrazione non funziona perché i dipendenti statali sono indolenti. La sanità è cattiva perché medici e infermieri sono assenteisti. Ma chi sono il politico incompetente e arruffone, il dipendente delle poste sfaccendato e villano, il medico cinico e inoperoso se non noi stessi?
Lo sdegno che mostriamo spesso, io per primo, non è necessariamente l’atteggiamento maturo e consapevole di chi desidera una Italia migliore. Anzi, credo che sia proprio la nostra incapacità di guardarci dentro il male peggiore del Paese. È questa presunta impunità personale che ci legittima a chiedere a gran voce tolleranza zero per i comportamenti illegali o semplicemente incivili, degli altri però. Invece dovremmo domandarci: chi è il maestro del lupo cattivo?

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Un popolo in fuga

Per molti ormai la vita è altrove, lontani da un’Italia che non ha saputo prendersi cura di se stessa e dei suoi abitanti. I numeri parlano di una vera e propria fuga. Secondo l’Istat, lo scorso anno sono stati 50mila gli italiani che hanno deciso di andare a vivere all’estero, più di 4mila al mese. Come se ogni trenta giorni un piccolo centro sparisse per sempre dalla geografia nazionale. I nuovi migranti sono sempre più giovani e istruiti.
Recenti sondaggi Eurispes raccontano che il 60% degli italiani tra i 18 e i 34 anni si dichiarano sfiduciati e sarebbero disposti a intraprendere un progetto di vita all’estero. La sfiducia aumenta tanto più il titolo di studio è elevato.
Le mete sono quelle dell’emigrazione classica: Germania, Svizzera, Regno Unito, ma anche Canada, Australia e Brasile.
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Quando i primi della classe cadono

Ministri_Terzi_e_Di_Paola

Diciamoci la verità, i primi della classe non sono mai simpatici. Li si guarda con fastidio, perché lui e non io? Oppure con sospetto, mah sarà davvero tanto bravo!? A volte poi succede che i primi della classe sbaglino. E noi mediocri godiamo. Giustamente. Sì, perché il primo della classe non ha meriti. Il più delle volte è arrivato in cima perché ha un talento che altri non possiedono, e il talento non se l’è mica conquistato. E’ arrivato per caso, come un 6 al superenalotto. O è arrivato per vie genetiche, perché la biologia non è democratica. Ci sono poi delle volte in cui il primo della classe non è davvero primo. Lo è diventato solo perché è ruffiano, paraculo  o raccomandato. Ecco quando cadono quei primi della classe, noi mediocri godiamo ancora di più.
Quelli che sono entrati a Palazzo Chigi un anno e mezzo fa, i Monti, Fornero, Passera, Ornaghi, Grilli e compagnia cantante ci sono stati venduti dalla stampa e dalle televisioni “importanti” (i giornali e le Tv che vogliono influenzare l’agenda del Paese, non raccontare i fatti) neppure come i primi della classe, ma come autentici fuoriclasse, di quelli che sei costretto a guardare con sudditanza: economisti e tecnici onniscienti, provenienti dalle migliori università, banche e accademie. Gente che con un solo battito di ciglia sparge saggezza in tutta una sala dove uditori adoranti attendono di essere illuminati. Ebbene, ora questi geni stanno ripiegando rovinosamente, in modo scomposto e senza orgoglio, al pari di soldati senza gloria e senza onore. Alzi la mano chi non si è vergognato di essere italiano ieri dopo aver visto Terzi e Di Paola, uno accanto all’altro alla Camera, uno che si dimetteva e l’altro no. Ma quei due lì, Bibì e Bibò della diplomazia nostrana, sono stati scelti da un uomo che il mese scorso, durante la campagna elettorale, di fronte alla domanda chiara di un giornalista (lei è favorevole o contrario ai matrimoni omosessuali?) ha gorgogliato e rantolato per sessanta secondi prima di rispondere in modo confuso.
Ecco chi erano, i salvatori della patria, i primi della classe. Che ora se ne andranno e, percorrendo a ritroso la strada che avevano disceso con tanta tracotanza, torneranno ai loro stipendi milionari nelle nostre università, nelle nostre banche e nelle nostre accademie. W l’Italia.

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Perché non amiamo l’Italia?

crollo del muro perimetrale della domus del Moralista

Chissà se i delegati del Touring Club Italiano e del Wwf avranno spiegato a Bersani la portata di ciò che ha fatto l’altro ieri Barack Obama. Il presidente Usa ha proclamato cinque nuovi monumenti nazionali: sono il Charles Young Buffalo Soldiers in Ohio, che preserva la casa del primo colonnello afroamericano, il First State in Delaware, che racconta la storia del primo Stato americano a ratificare la Costituzione, l’Harriet Tubman Underground Railroad in Maryland, che celebra la vita di un conduttore di treni e attivista per i diritti degli afroamericani, il canyon del Rio Grande del Norte in New Mexico e l’arcipelago San Juan Islands nello Stato di Washington.  “Questi siti onorano gli eroi pionieri, i paesaggi spettacolari e la ricca storia che hanno plasmato il nostro Paese straordinario. La loro nomina a monumenti nazionali fa in modo che possano continuare a ispirare e essere goduti dalle future generazioni di americani” ha affermato il presidente durante la cerimonia di proclamazione. Nel suo primo mandato Obama aveva già “promosso” altri quattro siti. La legge che permette la nomina di monumenti storici, l’Antiquities Act, fu istituita nel 1906 dal presidente Theodore Roosevelt.
Secondo uno studio della National Parks and Conservation Association, ogni dollaro investito nei parchi nazionali genera almeno quattro dollari di indotto. Negli Stati Uniti le attività ricreative all’aperto creano un giro d’affari annuo di 646 miliardi di dollari, dando lavoro a più di sei milioni di persone.
Ci rendiamo conto di cosa si potrebbe fare in Italia? Ce lo sentiamo ripetere in continuazione: siamo il Paese che conserva la più alta percentuale di beni culturali al mondo. Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è sconfortante. C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici e paesaggistici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare. Ma se non sappiamo neppure quanti sono! Non esiste oggi una catalogazione dei nostri beni, specialmente dei reperti archeologici. E per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute. Molte delle quali restano chiuse nei magazzini. Serve sollevare ancora una volta lo scandalo della gestione di Pompei? In nessun altro luogo al mondo un’area archeologica tanto importante sarebbe abbandonata all’incuria e al degrado in modo così riprovevole. Da noi si aspetta il prossimo crollo prima di tornare ad occuparcene.
I nostri politici da anni ripetono al pari di scimmiette ammaestrate: “la cultura deve agire come volano reale per la crescita”. Ma la verità è un’altra: in Italia la cultura e la natura non sono viste come occasioni di sviluppo. Ci si strappa le vesti contro il vandalismo e contro i musei che non possono competere con quelli delle altre nazioni. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe. I fondi per i beni artistici e culturali sono allo 0,19% della spesa pubblica. Eppure qui si parla di crescita. Quella vera!