A volte mi domando come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto una monarchia debole e acerba, una dittatura ventennale e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza quarant’anni di strapotere democristiano. Senza i governi forchettoni e i governi balneari. Senza i governi monocolore, il pentapartito, l’apertura a sinistra e il compromesso storico. Senza la concertazione, senza la crisi della Balena bianca, senza le stragi, senza la P2, senza gli anni ruggenti dei socialisti, le ambiguità dei comunisti, le velleità dei riformisti. Senza dorotei, morotei, fanfaniani e andreottiani. Senza miglioristi, berlingueriani, ingraiani e cossuttiani. Senza il Vaticano. Senza la democrazia bloccata. Senza il C.A.F. (dall’acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani). Senza Gladio. Senza la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Senza le leghe. Senza la Seconda Repubblica che si è rivelata peggio della prima.
Già, la Seconda Repubblica. Me la ricordo ancora la scritta che ha campeggiato per lungo tempo sul cavalcavia di Piazzale Kennedy a Milano: ‘W Di Pietro’. Era il ’92, l’intera classe politica italiana stava per essere spazzata via dalle inchieste giudiziarie che come in un risiko si abbattevano l’una sull’altra. Che poi, intera no. La furia dei giudici alla fine ha risparmiato l’allora Pci-Pds (sì è vero, fu rasa al suolo la federazione pidiessina milanese, ma l’inchiesta nazionale si fermò alle soglie di Botteghe Oscure) mentre buona parte dei democristiani e socialisti sopravvissuti e le frattaglie dell’ex pentapartito sono migrate verso Forza Italia. Ma allora, nel ’92, alcuni italiani scrivevano ‘W Di Pietro’, in Piazzale Kennedy. E tu guarda come a volta sono proprio i dettagli a svelarti il prosieguo delle storie. John Fitzgerald Kennedy è ricordato per frasi come: «Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese». Tonino Di Pietro per altre del tipo: «Non sono un politico e non penso di entrare in politica. Ma potete voi escludere la possibilità di vestirvi domani da donna?». In ogni caso, la parabola politica dell’ex Pm di Mani Pulite è andata come tutti sappiamo e Tangentopoli non è stata affatto una rivoluzione. Fra qualche tempo qualcuno probabilmente si domanderà come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto vent’anni di berlusconismo e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza lo strapotere delle banche e della finanza. Senza i ricatti della sinistra arcobaleno e dell’Udc, senza lo sciagurato ciclo del bipolarismo confuso. Senza Previti e Dell’Utri. Senza Mastella, Giovanardi, Follini e Casini. Senza gli ex fascisti e i post fascisti. Senza i governi Dini, Prodi e D’Alema che hanno svenduto le aziende di Stato alla solita oligarchia economico-finanziaria. Senza il partito-giornale e le Tv-partito, senza gli scandali Cirio e Parmalat, le scalate bancarie del 2005, l’Opa di Unipol su Bnl. Senza l’onerosissimo salvataggio di Alitalia, senza Telecom data in pasto prima a Colaninno poi a Tronchetti Provera. Senza i governi tecnici e i governi delle larghe intese. Senza il manto quirinalizio su ogni tentativo di riforma.
Senza “er batman”, Belsito e Lusi. Ecco, fermiamoci qui, a questi nomi. Sono l’espressione più compiuta della gens che è prosperata nei pascoli della Seconda Repubblica. Razza predona, arraffona, spregiudicata e ingorda. Sono passati più di vent’anni da quel 1992, e ci siamo accorti che sono trascorsi in un lungo bunga-bunga al cui richiamo in pochi si sono sottratti. Il dolce fardello dei soldi ha avvinto tutti: leader agili nel cambio di maglia e identità, sigle fantasma, una girandola di correnti e di fondazioni. Credevamo di avere visto il volto più brutto della politica e invece il peggio doveva ancora arrivare. L’ex tesoriere della Dc Severino Citaristi, scomparso nel 2006, all’epoca di Tangentopoli fu raggiunto da 74 avvisi di garanzia, un record per cui divenne il simbolo dell’inchiesta. Ha poi ammesso di avere ricevuto le tangenti, ma ha sempre negato qualsiasi interesse personale («non ho mai preso una lira per me», «non ho mai corrotto nessuno» ripeteva) e ha sempre sottolineato che «tutti le prendevano». Altri tempi. Perfino le ruberie erano più nobili, e non si tratta solo di nostalgia del passato.
«C’era la delegazione di Craxi in visita in Cina, erano a cena, mangiavano. A un certo punto Martelli ha chiesto a Craxi: Senti, ma davvero qui sono un miliardo, tutti socialisti? Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Beppe Grillo, allora era un comico e faceva solo ridere, chiuse con questa battuta nello studio di Fantastico 7 la sua carriera alla Rai. Era il 15 dicembre 1986. Per la risposta si è dovuto attendere più di un quarto di secolo.
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La vita di un giusto. Ambrogio Mauri, l’imprenditore “ucciso” dai corrotti
Monica Zapelli, nota al pubblico come sceneggiatrice del film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, e di alcune popolari fiction televisive come Maria Montessori: una vita per i bambini, Enrico Mattei – L’uomo che guardava al futuro e Il caso Enzo Tortora – Dove eravamo rimasti?, ha ricostruito la storia di Ambrogio Mauri, l’imprenditore della Brianza che nel 1997 si tolse la vita come gesto estremo di protesta contro il sistema delle tangenti che soffoca chi lavora onestamente.
S’intitola Un uomo onesto ed è un libro molto bello. E molto doloroso. Perché dolorosa è la vicenda di Ambrogio Mauri: un uomo normale, dotato di ingegno, che chiedeva solo di vivere in un paese in cui la pubblica amministrazione si liberasse dalla corruzione e di concorrere in un mercato in cui potesse vincere il migliore.
Mauri era persona perbene, un uomo d’altri tempi hanno scritto alcuni, quasi a sottolineare che questo non è più un luogo per onesti. A 66 anni, dopo aver visto andare in fumo i valori che gli avevano insegnato e in cui lui aveva creduto, si è ucciso. Un caso limite, perché non tutti gli imprenditori onesti si suicidano per disperazione. Però è l’estrema conseguenza di un fenomeno vastissimo, che il giornalista Massimo Fini chiama degli “omicidi bianchi della partitocrazia”. “Omicidi bianchi perché non si vedono – scrive Fini. – Si tratta delle vite spente, nelle loro speranze, nelle loro aspirazioni, nelle loro legittime ambizioni, da un sistema che respinge ai margini estremi chi rifiuta di affiliarsi, di sottomettersi, di rinunciare alla propria dignità”.
In tal senso c’è un tragico filo rosso che lega la storia di Peppino Impastato, l’ideatore di Radio out che denunciò i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini e fu ammazzato da Badalamenti, a quella dell’imprenditore brianzolo. C’è continuità fra Cinisi a Desio: anche Ambrogio Mauri è stato ammazzato dal metodo mafioso che ha dilagato in Italia.
Qui di seguito la mia chiacchierata con l’autrice di Un uomo onesto.
Cosa l’ha spinta a riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda di Ambrogio Mauri?
Credo che la vicenda umana e professionale di Ambrogio Mauri sia l’espressione di un’Italia migliore, e oggi più che mai questa parte del paese merita di essere conosciuta e ricordata. La sua è una storia passata sempre sotto traccia, perché Mauri non è mai stato un uomo del sistema, nemmeno come industriale. Mi affascinano queste figure destinate all’isolamento dal loro rigore e dalla loro intransigenza. Ad ogni modo è giusto ricordare che, seppure in maniera intermittente, la sua storia è stata tramandata grazie all’impegno di giornalisti come Giancarlo Santalmassi, Massimo Fini, Milena Gabanelli, Marco Travaglio e altri.
Dopo il ’92 Mauri si era illuso che molto sarebbe cambiato e invece è tornato tutto come prima. O peggio di prima?
Per quanto amara, la sua è una bellissima storia di Tangentopoli. Ci restituisce una fotografia di quegli anni scattata, non dagli inquirenti, ma dai cittadini. Ambrogio Mauri era tornato a credere nella giustizia grazie a Mani Pulite. Si era illuso che le indagini e i processi contro la corruzione potessero ripulire l’Italia. Invece, dopo Tangentopoli è scattata la vendetta nei suoi confronti. E c’è stata una selezione darwiniana dei corruttori, sono sopravvissuti i più abili.
Lei che idea si è fatta, era un ingenuo?
Non era un ingenuo. Era un uomo normale, innamorato del suo lavoro e incapace di rinunciare ai suoi principi. Apparteneva ad una generazione che si è trovata a ricostruire l’Italia in un momento di grandi difficoltà e di precarietà e questo richiedeva una tempra eccezionale. In fondo desiderava soltanto fare il suo dovere. Ambrogio Mauri ha tenuto accesa per tutta la vita l’intransigenza della giovinezza, è ciò accade alle persone migliori.
Per spiegare il rigore di Mauri lei ricorda anche una sua partecipazione a Milano, Italia la fortunata trasmissione condotta da Gad Lerner che andava in onda dalla Sala dell’Umanitaria…
Si trattava della trasmissione che in quel momento raccontava meglio di qualsiasi altra il cambiamento in atto nel paese. Ma Mauri era sempre se stesso, in ogni occasione, non aveva quel grado di ruffianeria necessario per sopravvivere in Tv. Non era certamente un uomo di pubbliche relazioni e per dirla con un linguaggio un po’ tecnico quella sera era fuori format. La puntata era dedicata alla crisi economica, non al tema delle tangenti. Lerner intendeva parlare dell’industria italiana travolta dai nuovi equilibri economici che allora scaturivano dall’ingresso sui mercati internazionali dei Paesi dell’Est Europa.
E invece Mauri…
E invece Mauri portava il discorso su altri temi. Lui non aveva il problema della crisi, ma della trasparenza. Ma soprattutto lui non era un ospite televisivo, non aveva nulla dell’accondiscendenza di chi si sente sotto i riflettori. E quella sera probabilmente non scattò una filo di simpatia umana con il conduttore. Anche in questo episodio si legge la sua figura di eretico incapace di compromessi.
Secondo lei quanto ha concorso la corruzione nel determinare l’attuale crisi economica italiana?
Ha concorso in modo drammatico. Al di là degli studi che indicano in termini finanziari quanto pesa la corruzione sul nostro sistema economico e produttivo, c’è stato un impoverimento del nostro livello competitivo. Se un’impresa vince pagando sottobanco non ha vantaggio ad investire nella ricerca e nell’innovazione. Però il discorso non riguarda soltanto le aziende, coinvolge tutti noi. C’è un bagaglio di rinunce e di compromessi che investe la vita di molti italiani. Basti pensare alla bassa qualità dei servizi che riceviamo dallo Stato, nonostante il peso della nostra pressione fiscale, o alla difficoltà di vincere un concorso pubblico affidandosi solo alla propria bravura.
In apertura del suo libro ha riportato una frase di Leopoldo Pirelli: “Se una decina di grandi aziende avessero insieme denunciato la corruzione che era diventata sistema, nessuno avrebbe potuto impedircelo e schiacciarci, tutti insieme eravamo forti a sufficienza per cacciare quel malcostume”.
È la triste verità. Cesare Romiti venne condannato per falso in bilancio e finanziamento illecito dei partiti pochi giorni prima che Mauri si suicidasse. Quella condanna in seguito fu confermata in Appello e in Cassazione. Solo successivamente, nel 2002, in seguito alla depenalizzazione del falso in bilancio, la Corte di Appello di Torino revocherà la sentenza dichiarando che il fatto non costituisce più reato. Si dice che la corruzione costa agli italiani sessanta miliardi di euro l’anno, ma al danno economico vanno sommate le conseguenze quotidiane della selezione in negativo delle imprese prodotta dalla corruzione stessa.
Non ci sono più speranze?
Abbiamo l’obbligo di continuare a sperare e di riprenderci il nostro domani. Solo così Ambrogio Muri avrà vissuto per qualcosa, perché nessuno più debba morire come lui. Ho scelto di associare alla vicenda di questo imprenditore brianzolo una storia sintetica dell’Italia proprio per ricordare ai più giovani le vicende che hanno investito il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Non è mai stata mia intenzione fare un libro pessimista. Ho voluto scrivere un libro capace di muovere una rabbia che fa agire. L’Italia del malaffare fa sistema perché ha il collante del denaro. L’Italia degli onesti deve imparare a fare sistema tirando fuori il meglio da se stessa. La crisi che stiamo attraversando deve servire almeno a questo: a fare emergere una classe migliore.
Qualcuno ha scritto: onesti si nasce, delinquenti si diventa. Impossibile trovare parole più adeguate per concludere questa chiacchierata.
Sempre un passo avanti
Ambrogio Mauri, su uno dei suoi bus. L’imprenditore brianzolo introdusse soluzioni impensabili per la sua epoca. Fu il primo in Italia a proporre l’alluminio per le carrozzerie, un materiale che garantisce ai mezzi leggerezza e durata, con un abbattimento consistente dei costi di gestione. Agli inizi degli anni ’80, quando la tecnologia e l’elettronica erano lontanissime dalle conoscenze attuali, concepì il Bibus, una risposta geniale ai problemi dell’inquinamento urbano: il bus poteva funzionare a gasolio nei tratti extraurbani, ma una volta entrato in città era in grado di procedere a elettricità, senza alcun rilascio di anidride carbonica. Sempre negli anni Ottanta, Mauri progettò un nuovo autobus da diciotto metri, non più a quattro assi portanti, ma a tre. Un cambiamento che rese i mezzi più maneggevoli per chi guidava e più comodi per chi ci saliva, perché il motore poteva essere spostato dalla parte centrale a quella posteriore, consentendo di abbassare il pavimento e guadagnare spazio all’interno. Oggi i mezzi in circolazione sono tutti così, a tre assi. Come li aveva concepiti Mauri.