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Se il buongiorno si vede da Gramellini… siamo senza speranze

Posso capire che è più semplice leggere poche banali righe dell’imbonitore Gramellini piuttosto che un pezzo di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, edizione italiana di Scientific American. Ma a volte è proprio la complessità a svelarci l’inutilità di certe letture. Vi invito a leggere il pezzo di Cattaneo, che pubblico integralmente qui sotto. Perché vi garantisco che leggendolo potreste apprendere cose che prima non sapevate, mentre leggendo ogni Buongiorno di Gramellini non imparerete mai nulla.

Se il buongiorno si vede dal Gramellini
di Marco Cattaneo (da Le Scienze Blog)

Sarò io che ho un brutto carattere, ma nutro sempre una certa diffidenza nei confronti dei monopolisti dei buoni sentimenti. Così ieri ho affrontato con il solito sopracciglio mezzo alzato, e solo previa segnalazione, il Buongiorno che Massimo Gramellini dispensa quotidianamente ai lettori di “La Stampa”, attirato più che altro dal titolo singolare: Abbasso gli algoritmi.

Le prime righe riassumevano superficialmente uno spettacolare studio di Lars Backstrom e Jon Kleinberg che con ogni probabilità Gramellini non hai mai nemmeno pensato di leggere. Ma se c’è da semplificare a partire da resoconti già di terza mano e pontificare a dovere, guai a tirarsi indietro. Parlano, i due esperti di computer science della Cornell University, di una bella ricerca sulla forza delle relazioni sentimentali misurata attraverso un nuovo parametro, che chiamano “dispersione” delle relazioni sociali. Uno studio realizzato grazie a un nuovo strumento, gli “amici” di un social network diffuso come Facebook.
I giornali lo hanno etichettato come l’algoritmo che prevede quanto durerà una storia d’amore, e a Gramellini non deve essere sembrato vero di aver trovato un nuovo, efferato nemico della bontà: l’algoritmo.

Così si è lanciato in un’appassionata invettiva degna di miglior causa. “La dittatura dell’algoritmo – scrive di getto il severo custode delle nostre anime – è l’ultimo rifugio di un certo tipo di persone, per lo più maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro…”. E per fortuna ci risparmia dettagli sulla forma di altri organi.
Ma rincara la dose: “Questi aridi manichini del sapere moderno pensano di controllare la realtà, racchiudendola in una previsione statistica…”. Vi risparmio il resto. Se proprio ci tenete a farvi del male lo trovate qui.

Vorrei rassicurare Gramellini su un paio di cose. La prima è facile facile, alla portata delle sue semplificazioni. Gli aridi manichini di cui parla sono persone non diverse da lui. Si alzano al mattino, fanno colazione, vanno al lavoro, si fanno quattro risate alla macchinetta del caffè, magari scambiano due battute sull’ultima partita dei New York Yankees (precisazione per Gramellini: i New York Yankees sono, a grandi linee, la Juventus di New York), tornano a casa in metropolitana, la sera, e magari tengono pure famiglia. In alcune nazioni particolarmente evolute quei manichini lì li chiamano scienziati, e a quelli bravi danno anche dei premi.

La seconda è un po’ più ardita, ma confido che con qualche sforzo ce la possa fare. Scrivere “Abbasso gli algoritmi” e deprecarne la dittatura è un po’ come scrivere “Abbasso la forza di gravità” o “Abbasso la postura eretta”. In parole povere, una sciocchezza.
La parola algoritmo deriva dal nome di uno dei massimi matematici dl Medioevo; quello sì, un gigante del sapere. Vissuto nel IX secolo, si chiamava Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, probabilmente perché proveniva dalla regione persiana del Khwārezm. Matematico, astronomo e geografo, è considerato uno dei padri nobili dell’algebra, quell’arida branca della matematica con cui si calcolano per esempio i diritti dei libri di Gramellini. E il termine algoritmo deriva dalla trascrizione latina del suo nome perché fu tra i primi a fare riferimento al concetto di procedimento per risolvere un problema in un numero finito di passi: un algoritmo, appunto.

Gli algoritmi, non me ne voglia Gramellini, sono dappertutto, infestanti come la gramigna. A modo loro erano algoritmi, anche se loro non lo sapevano, pure i calcoli che permisero agli antichi abitanti del Neolitico di decidere il momento della semina in funzione dell’alternarsi delle stagioni. E di lì in poi non abbiamo fatto che infilare algoritmi nella nostra vita. Perché gli algoritmi scovano le regolarità nei fenomeni, e ci permettono di descriverli con una lingua sintetica, quella della matematica. Non sempre semplice, ma sintetica.

Ci sono algoritmi nei frigoriferi, negli impianti elettrici, nelle automobili. Ci sono algoritmi che permettono di risparmiare spazio, o materiali nella manifattura. Ci sono algoritmi negli strumenti diagnostici, come la risonanza magnetica: servono a raddrizzare l’immagine grezza prodotta dal campo magnetico, che sarebbe troppo deformata per permettere diagnosi precise. Ci sono algoritmi nei computer con cui Gramellini scrive i suoi testi, o perlomeno nelle macchine che li stampano, se lui si ostina a vergarli sulla pergamena con la penna d’oca. Ci sono algoritmi nelle telecamere che settimanalmente lo riprendono e nei televisori che ci portano a casa la sua immagine rassicurante. Ci sono algoritmi persino nella testa di ognuno di noi. In qualche caso, magari, a sua insaputa.