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Fuori Salone FUORI DALLE PALLE

Questa settimana a Milano c’è il Salone del Mobile, i più ‘cool’ lo chiamano Design Week. E poi c’è il il Fuori Salone, cioè quello che anima i principali quartieri della città. Cos’è il Fuori Salone? Il palco per chiunque abbia qualunque cosa – armadi, tavoli, sedie, letti, cessi, cibo, lavapiatti, e poi anche installazioni artistiche (?), musica, servizi, elettrodomestici, auto – da esporre e, sopratutto, da vendere. Tutti espongono tutto e tutti vendono tutto, però condendo le loro proposte con espressioni che dicono e non dicono, riempiono l’aria e fanno chic: tra tradizione e innovazione, valorizzazione dei territori, eccellenze, experience, contaminazione, narrazione, sensoriale. Ecco un estratto di un comunicato per il lancio di un’attività del Fuori Salone 2014:

“Creazioni di luci dai tratti essenziali ed eleganti, stravaganti elementi d’arredo luxury fino agli accessori dalle forme geometriche piuttosto che dal tocco vintage mescolato a linee classiche sono alcune delle peculiarità delle opere  che animano l’ambiente”.

Ci avete capito qualcosa? No? Bene, allora siete i frequentatori perfetti del Fuori Salone. Tanto lì è importante esserci, non capire.

Quest’anno una delle espressioni più usate dagli uffici stampa e dai geni della comunicazione per promuovere i vari eventi  è, manco a dirlo, La Grande Bellezza. Appare un po’ ovunque nei comunicati, perfino per descrivere componenti per bagno.

Altro tema forte dell’edizione 2014 è il ‘food’, guai a chiamarlo cibo! E allora vai con catering, banqueting, finger food, aperitivo rinforzato, apericena e showcooking con lo chef stellato di turno .

Quando si parla di design siamo tutti ‘update’ e ‘cool’. Poco fa l’edizione della Lombardia del Tg3, in un lungo marchettone pro Fuori Salone, ha avuto l’ardire di presentare un concorso indetto per disegnare il kit del pellegrino, destinato a quanti intenderanno percorrere in futuro la Via di Francesco. Roba da non credere, eppure eccolo qui, al minuto 10 e 27 secondi di questo video http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-aed7dd21-863f-48bf-86c0-2d9ea119d781-tgr.html#p=0

Spiegano i promotori, con un mirabile compendio di aria fritta, che il design è ‘trasversale’ e ‘strategico’. Ah, se Francesco d’Assisi avesse avuto il suo ‘lunch box’ quel giorno sul monte della Verna…

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Maratona di Milano versus Maratona di Parigi. La grandeur e la tristesse

A Milano domenica scorsa si è disputata la 14esima edizione della Maratona, un evento sportivo che in ogni angolo del mondo si trasforma in una festa colorata, non solo per chi corre ma anche per chi vi assiste, mentre nel capoluogo lombardo si trasforma in un’eterna lotta tra i podisti e gli automobilisti. Qualche anno fa, nel disperato tentativo di attenuare l’impatto della manifestazione sulle vie cittadine, è stato deciso dagli organizzatori di trasferire la partenza nell’area fieristica di Rho-Pero. Grazie a questo colpo di genio quasi metà della gara viene corsa lungo anonime strade di avvicinamento a Milano e altrettanto anonimi viali di periferia. Gli stessi organizzatori, arrendendosi all’evidenza, ossia che le iscrizioni non aumentavano di anno in anno, anzi semmai calavano, al contrario di ciò che accadeva altrove, si sono inventati le staffette: squadre composte da 4 partecipanti che correndo circa 10 km ciascuno completano il percorso della maratona lungo 42,195 km. Un’iniziativa che ha il lodevole intento di avvicinare alla corsa anche chi non ha nelle gambe le lunghe distanze, ma che nulla ha a che fare con un’autentica maratona e soprattutto con lo spirito di questa disciplina che ha proprio nella fatica e nella sfida alla sofferenza e alla resistenza la sua stessa ragione di esistere. Risultato: a Milano la maratona non decolla, gli iscritti restano sempre pochi e anche l’aspetto agonistico della manifestazione latita poiché gli atleti di élite preferiscono partecipare a gare più blasonate. Per comprendere la modestia della gara milanese può essere utile fare qualche raffronto con la Maratona di Parigi che tradizionalmente si disputa lo stesso giorno dell’anno. Cominciamo dai numeri. A Parigi domenica scorsa hanno tagliato il traguardo 39.115 maratoneti, a Milano 3.551 (meno del 10%). A Parigi ha gareggiato e vinto Kenenisa Bekele, tre volte campione olimpico e cinque volte campione del mondo nei 5.000 e 10.000 m. A Parigi la gara parte dagli Champs-Élysées, con veduta verso l’Etoile con l’Arco di trionfo, e si dirige verso il centro attraversando Place de la Concorde con il suo obelisco. A Milano, come già detto, la gara parte fra i padiglioni della Fiera di Rho-Pero (che senza ricorrere all’iperbole di Grillo “ma chi c..zo ci viene a Rho?”, è oggettivamente un’area dal fascino assai modesto) e si dirige verso viali desolati fra cantieri, svincoli, autostrade e ferrovie. A Parigi lungo le strade della città si animano circa 100 spettacoli musicali. A Parigi, sempre lungo le strade, gli abitanti e i turisti si radunano a migliaia per salutare, festeggiare e incoraggiare il passaggio dei maratoneti. A Milano, salvo alla zona di arrivo, si corre fra la disattenzione assoluta dei cittadini; al più si ricevono gli insulti degli automobilisti spazientiti e maleducati. A Parigi tutto il percorso è riservato esclusivamente ai podisti; a Milano in alcuni tratti i podisti sono costretti a condividere metà della strada con le automobili. Serve aggiungere altro? Non credo. Ah, se non abitate a Milano e ieri avete letto qualche articolo sulla Gazzetta dello Sport o sul Corriere della Sera in cui si celebra la splendida festa della Maratona di Milano, non dimenticate che RCS è l’organizzatore della manifestazione.

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Silenzio, parla Oscar Farinetti!

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L’altra sera al Tg3 mi è capitato di vedere Oscar Farinetti mentre presentava Eataly Smeraldo, il nuovo supermercato del cibo che domani aprirà i battenti a Milano, proprio laddove una volta c’era il Teatro Smeraldo. Quando si parla di Oscar Farinetti è facile cadere nei luoghi comuni e usare espressioni del tipo “guru della sinistra”, “re del made in Italy culinario”, “renziano doc”. Vorrei invece ricordarlo per altri passaggi della sua carriera: agli inizi degli anni Ottanta fu segretario cittadino del Psi craxiano nella sua Alba, poi fondatore di Unieuro, la catena di centri commerciali che forse più di ogni altra ha spinto l’acceleratore sui consumi illimitati e superflui e sulla fabbrica dell’uomo perennemente indebitato e del consumatore privo di facoltà raziocinante; infine è stato inventore di Eataly, impresa nata a Torino, al Lingotto, tra polemiche che nessuno più ricorda e vuole ricordare, e presto assurta a simbolo dell’Italia che piace. Oggi Eataly, partecipata al 40% da Coop, è presente a Roma, Firenze, Genova, New York, Chicago, Tokio. Da domani sarà appunto anche a Milano. I negozi Eataly sono considerati luoghi di culto, dove non ci si limita a comprare acciughe e caciotta, ma si vive un’esperienza, ci si istruisce, si studiano le nostre radici. A me, come forse ad altri, Oscar Farinetti è sempre parso molto furbo. Un uomo che sa  coltivare le amicizie giuste e fare buoni affari, assai abile poi nel spacciarli per operazioni intrise di cultura e interessi diffusi. L’altra sera, al Tg3, ha un poco esagerato, ma è nel suo stile. Con un calice di vino bianco nella mano sinistra, di fronte al microfono di un cronista compiacente ha srotolato il suo credo: «La nostra non è una catena, aborro i luoghi tutti uguali. Questo (riferendosi al luogo su cui sorgeva il Teatro Smeraldo) è il luogo dove lo spettacolo del cibo può incontrare quello della musica. Le foto di Celentano, Mina, Gaber, Jannacci, ricordano la storia di questo teatro, fondato nel 1942, dove sono passati tutti i più grandi». Già, e dove non passeranno più, perché d’ora in poi al posto del palcoscenico e delle poltroncine rosse ci saranno scaffali colmi di pecorino e prosciutto pepato. Insomma un luogo che evoca  le corsie di un autogrill più che la sala di un teatro. L’indomito Farinetti ha pure aggiunto con tono afflitto che «l’Italia è un Paese strano, dove chiudono le librerie e i teatri». Be’ dove ce n’era uno, lui si appresta a vendere salumi e mozzarella. Comunque migliaia di milanesi e di turisti si metteranno in coda, perché non visitare Eataly è impensabile. Magari potranno evitare di entrare al Refettorio di Santa Maria delle Grazie per osservare il Cenacolo, scanseranno la Pinacoteca Ambrosiana e anche quella di Brera, ma Eataly non se lo perderanno. E la stampa celebrerà il successo di questo imprenditore illuminato che ha saputo coniugare le espressioni migliori del nostro Paese: la buona cucina e la cultura. Per quanto riguarda quest’ultima sarà sufficiente esporre un po’ di libri qua e là, tra un tocco di taleggio e una triglia, e invitare qualche nome altisonante ad esibirsi nelle giornate inaugurali. Si apre domani, mettetevi in coda, siori e siore! Oscar ha scelto non a caso il 18 marzo, data in cui si rievoca la prima delle Cinque Giornate di Milano. Perché lui vorrebbe che questo progetto facesse parte del nuovo Risorgimento italiano. Del resto un tempo inondavamo il mondo con le arie di Verdi, oggi, se va bene, con il prosciutto di Parma. Quello autentico, non contraffatto.

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Un logo vintage per il Padiglione Italia di Expo Milano 2015

Un germoglio tricolore stilizzato. È il logo del Padiglione Italia per l’Expo di Milano 2015, presentato ieri a Roma nella sede della Stampa estera. Non c’è molto da dire. Qualche delusione è trapelata subito, nonostante le parole cariche di entusiasmo usate da Diana Bracco, presidente di Expo 2015 spa e commissario generale di sezione del Padiglione Italia. Nel logo si nasconde “tutta l’Italia nelle sue tante articolazioni, le sue moltissime diversità – ha spiegato Bracco, – in una maniera da cui emerge unità, una rappresentazione univoca del nostro Paese”. L’ho fissato a lungo, quasi rapito. Caspita! mi sono detto, ma io mi identifico davvero in questo marchio. Sento che appartiene alla mia memoria. Poi si è accesa la luce. Il ricordo è affiorato con prepotenza. Il disegno è pressoché identico a quello che campeggiava sulla carta da parati del tinello di una mia vecchia zia. Negli anni Settanta.

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Expo Milano 2015 “Nutrire il Pianeta”. Ma il piatto forte è il cemento

Verranno a dirvi che Expo 2015 sarà un’occasione unica per rilanciare l’Italia.
E che sarà un’occasione unica per riprogettare Milano.
Verranno a dirvi che Expo 2015 sarà uno straordinario evento universale, che darà visibilità alla tradizione, alla creatività e all’innovazione nel settore dell’alimentazione.
Difatti lo slogan di Expo 2015 è “Nutrire il Pianeta”. Al centro dell’evento dovrebbe esserci il tema del diritto ad una alimentazione sana, sicura e sufficiente per tutto il mondo.
Verranno a dirvi tutto questo e molto altro ancora: che si è già ottenuto il record di adesioni, che è previsto il record di visitatori, che senza Expo 2015 saremmo destinati al declino. Esattamente come ci avevano detto che senza l’euro saremmo precipitati in una crisi drammatica…
Ogni volta che sentirete queste parole, naturalmente pronunciate con l’enfasi che si accorda a simili ‘ghiotte’ occasioni, vi invito a guardare immediatamente dopo le immagini riportate qui sotto. Documentano l’immenso cantiere aperto da mesi a Milano su un’area racchiusa tra la linea ferroviaria dell’alta velocità, il polo fieristico di Rho-Pero, il tratto urbano della A4, la statale del Sempione e il cimitero Maggiore. Qui sorgerà il sito espositivo, progettato secondo la mente fervida degli organizzatori come espressione del tema ‘Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita’. A una persona comune e raziocinante invece pare soltanto una spaventosa colata di cemento, che si aggiunge ai grattacieli del quartiere Porta Nuova-Garibaldi e ai palazzoni in costruzione o già costruiti nell’area della vecchia Fiera, a Santa Giulia e a Porta Vittoria. Sembra del tutto evidente che il piatto forte con cui si pensa di nutrire il Pianeta è a base di cemento, condito da asfalto e trivelle, il tutto sapientemente miscelato da ruspe.

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Sullo sfondo di queste ultime due foto si possono osservare il Monte Rosa  e altre cime delle Alpi innevate. Costituiscono un’elemento di naturalità che potrebbe disturbare. Ma non preoccupatevi. I Tre Moschettieri (che come ben sappiamo in realtà erano quattro) raffigurati nell’immagine sottostante si stanno diligentemente adoperando per risolvere anche questo problema. Soffieranno con forza il loro vento barbaro fin verso le pendici dei monti. E qualcosa magari accadrà.

letta-sala-maroni-pisapia- expoda sinistra Giuseppe Sala, Enrico Letta, Roberto Maroni, Giuliano Pisapia. 

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BookCity Milano: aria di MinCulPop

Parto con un’ammissione: li attendevo al varco. Attendevo i dati “ufficiali” del numero dei partecipanti a BookCity, evento promosso dal Comune di Milano. Ero certo che sarebbero circolati numeri sospetti, non immaginavo che si arrivasse alla propaganda. Titola il Corriere della Sera: “Folla a Bookcity, 130 mila visitatori. Raddoppia la città dei lettori”. Per chi non lo sapesse, il Gruppo RCS figurava tra i promotori dell’iniziativa. Ora non voglio tediarvi con cifre e percentuali per non cadere nel ridicolo balletto di numeri fra manifestanti e questura che segue ogni manifestazione. Però non posso nemmeno tacere l’evidenza. Sabato pomeriggio ho assistito alla conferenza di Jamie Ford, autore de “Il gusto proibito dello zenzero”, milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si è svolta alla Sala delle otto colonne di Palazzo Reale, di fianco al Duomo, in uno dei luoghi più centrali, prestigiosi e noti fra quelli che ospitavano gli eventi di BookCity. Pubblico presente: 90 persone. Quando si entrava a Palazzo Reale non c’era nessun cartello evidente che informasse dell’evento e il personale in servizio rilasciava informazioni confuse e imprecise.
Villa Necchi Campiglio, elegante e raffinata dimora del Fai, anch’essa nel cuore di Milano, ha ospitato 4 conferenze dedicate al giardinaggio e alla natura: totale dei partecipanti 100, per una media di 25 persone a ciascun incontro.
200 persone per 5 eventi, e non 5 eventi qualsiasi, bensì ospitati in sedi di prestigio. Una media di 40 partecipanti, che moltiplicata per 650 eventi (tanti erano più o meno quelli in programma) dà un totale di 26.000 visitatori. Possiamo essere clementi e accettare che qualche conferenza abbia clamorosamente alzato la media. È comunque davvero difficile credere che il numero di persone che hanno assistito, anche magari solo per qualche minuto, agli incontri proposti da BookCity 2013 sia stato superiore a 35.000/40.000. Figuriamoci 130mila! Non ci arriva neppure se ci mettiamo quelli che erano già in giro per lo shopping natalizio e si sono affacciati per errore a un evento, magari solo per sorseggiare un po’ dei 50 litri di vin brûlé distribuiti. Sì, sì, ben 50 litri, lo hanno fatto sapere con solerzia gli organizzatori.
L’anno passato, prima edizione, i visitatori, sempre secondo gli organizzatori, furono 80mila. Dunque se fossero davvero raddoppiati, come titola il Corriere, oggi avremmo dovuto festeggiare 160mila partecipanti, non 130mila. Ma il problema, come ho tentato di spiegare, è che anche 130mila se li sono solo sognati il Comune di Milano, Rcs e la pletora di grandi sponsor, banche, assicurazioni, società energetiche, che hanno sostenuto la kermesse. L’unica folla che si è vista durante il weekend per le strade di Milano era quella assiepata in Corso Vittorio Emanuele, di fronte allo Swatch Store, per vedere Mika che presentava l’orologio Mika 4 Swatch, lo Swatch Kukulakuku. Un nome profetico, che invita a salutare i promotori di BookCity così: Cucù, e il pubblico non c’è più.

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Oggi si parte con Bookcity Milano 2013. La cognizione del grigiore

Se Milano avesse avuto un suo festival della letteratura attorno alla metà del Novecento, probabilmente avrebbe ospitato scrittori come Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Giorgio Scerbanenco, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. A Bookcity Milano 2013, kermesse promossa dal Comune di Milano e sostenuta da una corposa schiera di aziende, al via oggi, al più si potranno ascoltare autori di dubbia fama, e a volte sconosciuti meriti, chiacchierare attorno alle opere dei sopra citati letterati. Sempre meglio che assistere agli incontri, il programma di Bookcity ne è colmo, con autori-comici, autori-conduttori tv, autori-deejay, autori-cheef, autori-editorialisti, autori-sociologi, autori-psicologi e via discorrendo.
Sempre se Milano avesse avuto un suo festival della letteratura quando era davvero una delle capitali dell’editoria, forse avrebbe ospitato anche figure del calibro di Ernest Hemingway, Jorge Luis Borges, Marguerite Duras, Truman Capote, Simone de Beauvoir, William Faulkner. Invece la star internazionale di Bookcity Milano 2013 sarà Rupert Everett. Non me ne voglia il simpatico e brillante attore britannico, che sì, va bene, ha scritto un paio di memoir dopo che il mondo del cinema gli ha voltato le spalle, ma la domanda, come si dice in questi casi, sorge spontanea e la formulo con le parole di uno dei maggiori pensatori della nostra epoca: ma che c’azzecca Rupert con la letteratura?

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La macchina del fard

Sono anni che Milano scivola nelle retrovie, ma nemmeno i più pessimisti si erano immaginati di dover assistere a ciò che sta accadendo in questi giorni. La triste querelle fra Dolce e Gabbana e la Giunta Pisapia è roba degna del peggior avanspettacolo. I due stilisti s’indignano per le parole dell’assessore comunale alle Attività produttive Franco D’Alfonso (“Qualora stilisti come Dolce e Gabbana dovessero avanzare richieste per spazi comunali, il Comune dovrebbe chiudere le porte, la moda è un’eccellenza nel mondo ma non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali”) e per ripicca non alzano le saracinesche delle loro botteghe. Anzi twittano contro il Comune di Milano “Fate schifo”. Pisapia tace per 48 ore, poi sbotta: “D&G chiedano scusa a Milano. Gli indignati in questo caso siamo noi”.
Ecco, pensavamo di avere visto tutto (scandali su scandali, tangenti su tangenti, cemento su cemento) e invece c’è chi riesce a spingere l’asticella della desolazione ancora più in alto. I milanesi assistono rassegnati a questo scontro tra titani: da una parte imprenditori mutandari del cattivo gusto, dall’altra amministratori pubblici arroganti e incapaci. Amen.

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Due o tre cose su Milano. Sulla speculazione edilizia. E sulle rivoluzioni mancate.

Due anni fa buona parte della stampa nazionale, quella che vuole dettare l’agenda politica anziché raccontare i fatti, ha incoronato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come il liberatore, il leader capace di innescare quel riscatto che il capoluogo lombardo attende da tempo. giuliano-pisapiaOggi quella stessa stampa ha cominciato a processare il primo cittadino per l’inerzia fin qui dimostrata. Nei consigli di amministrazione di quei giornali siedono i rappresentanti di molti operatori interessati al sacco edilizio che si sta consumando sotto il cielo di Milano, milioni di metri cubi di altro cemento gettati in pasto alla più becera speculazione. Potrebbe dunque essere anche lecito pensare che, dopo essere passati dalla cassa, ora possono gettare il sindaco arancione alle ortiche. Come? – dirà qualcuno – tutte le lottizzazioni in corso sono state decise dai predecessori di Pisapia! Vero, anche se sarebbe più corretto affermare che dietro il sacco di Milano ci sono tali e tante complicità che per passarle al setaccio ci vorrebbe una specie di Tribunale dell’Aja. Ma a parte questo, vi pare possibile che un sindaco insediatosi con l’obiettivo di moralizzare la città non abbia speso, né lui, né i suoi assessori, compreso le assessore a cui molti hanno guardato con tanta speranza, una sola parola di denuncia nei confronti di tanta bruttezza? Pisapia e la sua giunta avrebbero dovuto piantare le tende in mezzo al cantiere di Porta Nuova-Garibaldi, fra il ferro e il cemento che si alza sopra le poche vecchie case sopravvissute all’assalto, soffocandole e martirizzandole. Avrebbero dovuto raccogliere intorno a loro lo sdegno e la protesta di chi sognava una città differente, non dico una metropoli romantica, ma nemmeno quell’infamia di asfalto e cemento che ha immaginato la Moratti (e le forze che l’hanno sostenuta) per Expo 2015. Invece, niente. L’infernale cantiere delle ex Varesine/Isola avanza, al pari di quelli di Fiera City, Santa Giulia e Porta Vittoria. Porta NuovaIl primo, quello che ospita il grattacielo di Unicredit e il nuovo Palazzo della Regione (orgoglio di Formigoni) e poi in mezzo una selva di palazzi di 20 e più piani, racconta in modo esemplare che Milano ormai è fottuta. Nessuno, con una qualche conoscenza architettonica e urbanistica, avrebbe mai potuto pensare che all’interno di quel dedalo di vie si potesse costruire tanto. Venite a fare una passeggiata se non mi credete: vi mancheranno l’ossigeno e la prospettiva. Se alzate gli occhi, lo sguardo sbatte sui vetri. E anche se guardate da lontano non avrete alcuna speranza di apprezzare le strutture o lo skyline. Perché Milano è piccola, stretta e congestionata.
Certo, a pensarci bene era davvero difficile immaginarsi Giuliano Pisapia accampato per protesta in mezzo alle gru in compagnia di Stefano Boeri (assessore alla cultura ‘licenziato’ tre mesi fa), architetto-politico interessato al progetto dato che i due grattacieli denominati «bosco verticale» all’Isola sono firmati dal suo studio. E ve lo sareste immaginato Bruno Tabacci (ex assessore al bilancio di Milano che ha lasciato l’incarico a gennaio per volare di nuovo in Parlamento), politico di lungo corso, già presidente della Regione Lombardia dal 1987 al 1989, uno dei punti di snodo tra i poteri economici e la politica di centro, ricevere una tazza di caffè fumante dai colleghi di giunta dopo aver trascorso la notte in tenda in mezzo all’orrido cantiere?
Siamo seri, se ancora è possibile. La ‘rivoluzione arancione’ di Pisapia è finita il giorno dopo che è stato eletto, anzi diciamo pure che non è mai cominciata. Spiace, ma lo dico in modo sincero non col ghigno di chi aveva già previsto tutto, spiace per quei giovani che ci hanno creduto davvero. Ma ora vi domando: pensavate davvero di poter cambiare una città come Milano in compagnia di architetti-politici e di gente come Bruno Tabacci, un democristiano uscito indenne da varie indagini, puro tra gli impuri?
Milano non è cambiata, anzi sprofonda. Per carità, ora non si possono addossare tutte le colpe a Giuliano Pisapia. Sarebbe stato davvero un uomo dei miracoli se fosse riuscito a invertire la rotta. Perché, diciamoci la verità, il declino di Milano è in atto da anni, decenni ormai. Sembra quasi una barzelletta, ma gli ultimi sindaci che hanno governato con una prospettiva sono stati quelli socialisti. Lasciamo perdere il sindaco-cognato Paolo Pillitteri, però occorre tornare per esempio a Carlo Tognoli per trovare l’ultimo primo cittadino che ha operato con una visione acuta del rapporto centro-periferie e che in queste ultime ha portato strutture e progetti. Poi c’è stato il vuoto, è cominciata l’era dei diminutivi: Formentini e Albertini. Nei riguardi del primo mi pare uno spreco spendere parole, il secondo sarà ricordato per aver sfilato in mutande. E questo in realtà è un errore, perché l’imprenditore prestato alla politica, come si definì lui stesso, ma che dalla politica non si è mai più allontanato, ha avviato la maggior parte dei progetti di riqualificazione della città, dalla Vecchia Fiera alla zona Porta Nuova-Varesine. Progetti che sono stati implementati da Letizia Moratti; lei poi ha anche messo il fiocco sul pacco regalo per gli immobiliaristi e i costruttori (tutti naturalmente privati) che  possiedono i terreni sui quali Milano ospiterà l’Expo e su cui all’indomani del 2015, con una nuova colata di cemento, nascerà una cittadella da 400mila metri quadrati e circa 15mila abitanti.
Intanto, dicevo, Milano sprofonda. E non occorre essere architetti e urbanisti per coglierlo, anzi forse aiuta non esserlo. Milano è vittima dell’incuria e dell’abbandono. L’arredo urbano è indegno, la progettazione e la manutenzione del verde, salvo rarissime eccezioni, sono vergognose. Non soltanto nelle periferie, anche in centro. Milano è asfittica, ripiegata su se stessa. Triste. Chi di voi è stato in giro per l’Europa sa come si crea il sentimento di una città e come si ottiene l’equilibrio tra palazzi, strade, luce, verde e persone, quell’equilibrio che passa sotto il nome di respiro metropolitano. Per anni mi sono vergognato di scrivere queste cose, perché mi pareva di accodarmi a quel fenomeno un po’ facilone e grezzo chiamato esterofilia. Ma basta entrare in un museo, passeggiare in un parco, salire su un mezzo pubblico, sedersi ai tavolini di un caffè per rendersi conto che altrove la qualità della vita è migliore. Fare l’elenco delle città europee risorte dopo un periodo più o meno lungo di decadenza è un esercizio fin troppo semplice. Così come raccontare dei tanti quartieri periferici perduti e malfamati reinventati grazie a un’accorta regia tra mano pubblica e mano privata.
Concludo raccontandovi un episodio. Qualche settimana fa, dopo aver trascorso il pomeriggio al Parco delle Cave, un’area verde Parco-delle-Cave-situata alla periferia occidentale di Milano ben progettata e curata con amore, una di quelle poche eccezioni di cui parlavo, ho scelto di fare due passi nel popolare quartiere di Baggio, lambito dal nuovo parco. Nel nucleo storico ancora oggi si vedono scorci del vecchio borgo e si possono ammirare alcune ville in stile Liberty. L’emblema resta però la chiesa di Sant’Apollinare, con il meraviglioso campanile romanico risalente all’anno Mille. Quel giorno all’interno della chiesa si esibivano al piano un gruppo di ragazze e ragazzi diretti dalla pianista e concertista russa Tatiana Larionova. Lei stessa, al termine del saggio, ha regalato agli astanti una breve, quanto intensa esibizione con il marito Davide Cabassi, uno dei migliori pianisti italiani della sua generazione. All’uscita dalla chiesa, una sciabolata di sole illuminava ancora i vecchi edifici di Baggio. Ho pensato che in qualsiasi altro luogo d’Europa, attorno a una chiesa così antica e fascinosa e ai resti di vetusti palazzi e cascine sarebbe sorto un quartiere animato da piccole botteghe, caffè e locande. A Milano no.via anselmo da baggio

 

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Libero gelato in libero stato. Il declino di Milano in un cono

Quando è divenuto sindaco di Milano, contro le previsioni di molti, Giuliano Pisapia non poteva certo immaginarsi che un giorno sarebbe dovuto apparire di fronte alle telecamere dei telegiornali nazionali per spiegare che i milanesi possono gustarsi il cono gelato anche dopo la mezzanotte. Riassumo la vicenda per i distratti: a Milano da un paio di giorni ci si è scordati di tutti i problemi e si dibatte solo del cono gelato. Un’ordinanza del Comune scritta male e comunicata peggio vieta infatti, testualmente, «la vendita di cibi e bevande per asporto» dopo la mezzanotte, «per bar, ristoranti e artigiani» compresi «gli artigiani del gelato». Lo scopo dichiarato sarebbe quello di «dissuadere la formazione di assembramenti notturni sui marciapiedi di fronte ai locali». Apriti cielo! Silvio Berlusconi in persona è sceso in campo con un tweet: «Forza milanesi, avete ancora sei ore di tempo per gustarvi un gelato». Da lì in poi i social network sono impazziti e il sindaco Pisapia è stato travolto da tweet, ironie e proteste per tutto il weekend. Lui, non pago della pessima figura raccolta con quella maledetta ordinanza, ha rotto il silenzio e per rimediare all’autogol ha inserito la retromarcia. Ma lo ha fatto sfoderando un linguaggio da vecchia politica che neanche Mariano Rumor era mai arrivato a concepire. Ha detto che verrà chiarito ogni equivoco e che non c’è nessun coprifuoco e mai è stato previsto. Però l’ordinanza è stata firmata, allora tanto valeva dire: scusate, ci siamo distratti e abbiamo firmato un atto sbagliato.
Vabbè, qui archiviamo il problema del… cono, per non dire peggio. Ciò che invece merita di essere analizzato con molta più attenzione è la dinamica dell’accaduto. Un tam tam di tweet, a cui poi hanno fatto seguito approfondimenti sui blog, sui quotidiani online e infine sulla carta stampata, ha inchiodato il sindaco costringendolo a una ridicola e imbarazzante marcia indietro. Attorno alla questione del cono gelato i milanesi hanno sfoderato l’uso intelligente dei social e della Rete. La generazione di cittadini 2.0 ha ottenuto ciò che voleva grazie al web. Qualcosa di simile, in fondo, era accaduto anche in occasione dell’elezione di Pisapia, allorché le cosiddette Morattiquotes, ossia citazioni fasulle ma verosimili del sindaco uscente Letizia Moratti, cominciarono a circolare in rete alla velocità della luce. Cose tipo: “Pisapia mi ha detto che mi rubava un attimo, ma non me lo ha più restituito” oppure “Pisapia ti chiama al telefono, fa una pernacchia e mette giù”. Non si può affermare che Pisapia ha vinto le elezioni del 2011 grazie a questo, però le Morattiquotes hanno dato l’abbrivio a una tendenza.
Purtroppo i milanesi continuano invece a tacere e ignorare il sacco della propria città. La colossale operazione immobiliare partita nel segno dell’Expo 2015 (dedicato all’alimentazione!) si sta consumando nell’indifferenza. Nei quartieri Porta Nuova-Garibaldi, Fiera vecchia, Santa Giulia e Porta Vittoria metri cubi di cemento si alzano verso il cielo imbrattando una città che avrebbe avuto invece bisogno di spazi verdi e aria pulita. I milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari e dei finanziatori, eppure tacciono.
Certo, la città della concretezza è ormai un ricordo lontano, Milano da tempo è soltanto la capitale di un’economia frivola (moda) oppure impalpabile e inafferrabile (finanza) e per strada è più facile imbattersi in un leisure manager o un broker piuttosto che in un idraulico o un panettiere. Sarà anche per questo che la sola rivoluzione possibile è rimasta quella del cono gelato. A New York Occupy Wall Street. A Istambul Occupy Gezy Park. A Milano Occupy Gelato.

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L’Italia barbara: più cemento per tutti

Cemento

Se il compianto Francesco Rosi potesse girare un remake del film Le mani sulla città, sposterebbe il set da Napoli a Milano. Nella prima inquadratura, dall’alto, ci sarebbero i grattacieli in costruzione nel quartiere Porta Nuova-Garibaldi. Poi sorvolando la grigia città, la camera riprenderebbe l’area della vecchia Fiera, Santa Giulia, Porta Vittoria. Il sacco di Milano, quello che ha trasformato l’Expo del 2015 (dedicato all’alimentazione!) in una colossale operazione immobiliare, si consuma nel silenzio assoluto. Eppure i milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari, dei finanziatori.
Il consumo di suolo è la più grande emergenza ambientale italiana, dalla quale discendono gli altri disastri: impoverimento della biodiversità, perdita irreversibile di suolo fertile, alterazioni del ciclo idrogeologico, mutamenti microclimatici. Continua a leggere