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La montagna remota e arcana di Dino Buzzati

Quarantadue anni fa – era il 28 gennaio 1972, alle ore 16.20 – lasciava questo mondo Dino Buzzati, autore fra i più famosi del Novecento. Aveva 65 anni. In un attico al decimo piano della Casa della Fontana, in viale Vittorio Veneto 24 a Milano, Buzzati abitò per dieci anni. Seppure trascorse gran parte della sua vita nel capoluogo lombardo, prima come studente poi come giornalista al Corriere della Sera, Buzzati sentì sempre sue le montagne bellunesi. Per questa ragione ho scelto di rendergli omaggio percorrendo con la mente i luoghi buzzatiani delle Dolomiti. 

Dalla villa di San Pellegrino, alle porte di Belluno, dove nacque, Buzzati cominciò da subito ad ammirare le montagne, che per prime nutrirono e alimentarono la sua fervida immaginazione. La centralità della montagna nei suoi scritti è un fatto noto. Ed è compito arduo quello di scegliere un brano anziché un altro per iniziare questo percorso. Forse partire da Bàrnabo delle montagne è quanto di meglio si possa fare. Perché in Bàrnabo c’è la montagna intesa in senso buzzatiano. Non un paesaggio stucchevole da cartolina, ma la montagna autentica e severa. “Bàrnabo completamente vestito si è gettato sul letto e con le braccia incrociate dietro la testa, fissando gli occhi nella massa degli abeti che nereggia dietro i vetri, sente come non mai la vicinanza delle montagne, con i loro valloni deserti, con le gole tenebrose, con i crolli improvvisi di sassi, con le mille antichissime storie e tutte le altre cose che nessuno potrà dire mai”. buzzati-a-cima-canali-sulle-pale-di-san-martino-di-castrozzaLe Dolomiti di Buzzati sono montagne “così poco di maniera”. Del resto Belluno e le sue cime erano perlopiù ignorate. “Se io dico che la mia terra è uno dei posti più belli non già dell’Italia ma dell’intero globo terracqueo, tutti cascano dalle nuvole e mi fissano con divertita curiosità…”. Eppure tra il Piave e la Schiara c’è una “Dolomite con tutte le carte in regola – sono sempre parole sue – né più né meno che le Tre Cime di Lavaredo e il Sasso Lungo”. Fin da ragazzo sognava di scalare quelle cime tormentate e fantasticava ad occhi aperti sulle antiche leggende della bella Dolasilla e del principe dei Duranni. La Schiara, anzi “lo” Schiara, come continuerà a scrivere nei suoi articoli anche quando la celebrità lo ha già raggiunto, concedendosi il vezzo affettuoso di perpetuare un uso improprio appreso da bambino, è la montagna della sua vita. Con “l’immortale Gusela”, dito di roccia levato al cielo. La materia in Buzzati si fa metafora, si disintegra e si dissolve per riapparire sotto altre forme fantastiche. E così le sue montagne diventano un luogo “remoto ed arcano” dove osservare “una poiana roteante lassù” e nel silenzio cogliere “il senso della vita che passa, che è passata per sempre”. Oggi le valli e le cime tanto care a Buzzati fanno parte del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, una vasta area che da Feltre a Belluno abbraccia un paesaggio di severa bellezza, conservatosi grazie all’isolamento e alla cura di uomini lungimiranti. Pareti immani sfiorate dal volo possente dell’aquila reale, guglie e creste frustate dal vento, gole impenetrabili dove regna il camoscio. montagna buzzati2“Esistono da noi valli che non ho mai viste da nessun’altra parte. Identiche ai paesaggi di certe vecchie stampe del romanticismo che a vederle si pensava: ma è tutto falso, posti come questi non esistono. Invece esistono: con la stessa solitudine, gli stessi inverosimili dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli pencolanti sull’abisso, e le cascate di acqua, e sul sentiero un viandante piuttosto misterioso. Meno splendide certo delle trionfali alte valli dolomitiche recinte di candide crode. Però più enigmatiche, intime, segrete”. Poste ai margini del grande traffico turistico dolomitico, queste montagne hanno conservato risorse naturali e paesaggistiche di eccezionale pregio. La disattenzione verso le sue amate vette infastidiva Buzzati: “è stata questa faccenda delle Dolomiti e di Cortina a tenere in eclisse il bellunese”. Ma la bellezza recondita della natura che circondava la sua Belluno lo inorgogliva. Perché “di fronte alla natura, se si riesce a guardarla con animo sincero, le miserie si sciolgono, gli uomini si ritrovano l’un l’altro dimenticando di avere questo o quel colore”.

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Riccardo Cassin, l’uomo che si fece montagna

Riccardo Cassin

Sette anni fa, era esattamente il 22 maggio del 2007 ma lo ricordo come fosse ieri, trascorsi un intero pomeriggio con Riccardo Cassin, uno dei più grandi, per molti “il più grande”, alpinista della storia. Scomparve nel 2009, all’età di 100 anni, e quella che ebbi la fortuna di raccogliere quel giorno è una delle ultime interviste rilasciate dal leggendario “uomo rupe”, come lo definì l’amico Fosco Maraini. Ve la ripropongo oggi, sempre con un filo di emozione.

La prima cosa che gli guardo sono le mani. Quelle mani che infinite volte hanno accarezzato la roccia alla ricerca di solidi appigli o di fessure nelle quali piantare chiodi. Sono mani robuste e nodose, ma agili. Belle da guardare. Il dorso è solcato da vene azzurrognole. Riccardo Cassin è l’iniziatore dell’avventura. È vento nocchiero, esperienza, pensiero e muscolo dell’alpinismo italiano. La sua vita racchiude un secolo d’emozioni, di scalate, di prime assolute. Di imprese d’altri tempi, che oggi nemmeno ci sogniamo. Pronunci il suo nome e ad ogni latitudine del globo il pensiero corre a Lecco e ai Ragni, al Resegone e alle Grigne. Nessuna altra voce può raccontare meglio l’anima montana del Lario. Perché la sua meravigliosa avventura è cominciata proprio qui, sulle pareti e sui pinnacoli di casa.
Riccardo Cassin, mito vivente dell’alta quota, si sta avvicinando al suo centesimo compleanno. Mi riceve nella sua casa di Maggianico, mentre sta guardando il filmato di una spedizione in Afghanistan portatogli da Luigino Airoldi, uno dei suoi allievi prediletti. Prima d’iniziare la nostra chiacchierata mi scruta con i suoi occhi ancora vispi, forse per cercare un’affinità d’ambiente. Anch’io lo osservo. Me l’aspettavo, non so perché, un po’ più alto. Invece è un ometto basso. Me l’aspettavo con la pelle raggrinzita dal vento, dal sole e dal gelo, invece ha un incarnato roseo, a dispetto dei suoi anni.
Pascal disse che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola, non sapersene star quieto in una stanza. Vorrei chiedere a Riccardo Cassin se è questo horreur du domicile che l’ha spinto sulle vette più impervie e imbastire con lui una chiacchierata intorno al pensiero pascaliano. Ma so che il maestro non ama la speculazione intellettuale legata all’alpinismo. La sua è una montagna ben definita, che non rappresenta nulla di simbolico. Tuttalpiù si limita ad essere, come egli ama ripetere, una severa maestra di vita. In un articolo apparso nel 1934 sul settimanale Il popolo di Lecco sta scritto: “Intervistare Riccardo Cassin sulle sue prodezze alpinistiche è faccenda assai seria, qualche cosa come affrontare un sesto grado […] Atleta completo sotto ogni aspetto, fisicamente forte, agile, prudente e calmo, sembra estraneo a tutto ciò che si riferisce alle sue doti eccezionali e alle sue brillanti imprese crodaiole”. Del resto Riccardo è friulano di nascita e lecchese d’adozione, due terre notoriamente laboriose e poco inclini alla ciarla. Consapevole di tutto questo non trovo di meglio che partire dal principio.
Cassin mi racconta come è arrivato a Lecco?
«Era il 1926, avevo 17 anni. Lasciai mia madre e mia sorella a San Vito al Tagliamento per raggiungere l’amico Bepi Minett che si era trasferito da uno zio impiegato nella tramvia Lecco-San Giovanni. Gli avevo scritto per sapere se c’era lavoro sulle rive del Lario e lui mi rispose che sì, il lavoro non mancava, ma la cosa migliore era di venire a vedere. Una volta arrivato a Lecco cominciai a fare il fabbro alla Possenti, una ditta che faceva macchine per insaccati. Una domenica, Emilio Possenti, uno dei tre fratelli soci, mi portò in gita al Resegone. Fu il mio primo contato con la montagna. Ricordo che salii con i vestiti e le pedule da lavoro. Quando arrivammo in cima esultammo. Ci pareva di avere conquistato chissà che cosa. Poi scendemmo per il Canalone di Val Negra e per il Passo del Fò fino alla capanna Stoppani, sempre perseguitati da una fame da lupi. La gita al Resegone segnò una svolta decisiva nella mia vita».
Comincia tutto così, con una scampagnata sulla cima che corona la città di Lecco. Per Cassin è amore a prima vista e da quel momento ogni attimo rubato al lavoro viene trascorso in montagna. Nemmeno lui però, quella domenica, poteva immaginare che sarebbero seguite duemilacinquecento ascensioni e cento prime assolute. Partendo dalla Grigna.
«Il contatto con la Grigna avvenne due settimane dopo la salita al Resegone. C’incamminammo di buon mattino lungo la Val Calolden, come si usava fare prima che fosse costruita la strada carrozzabile dei Piani Resinelli. Sopra di noi c’erano nuvoloni carichi di acqua. Tornare indietro, però, manco a parlarne. Per quindici giorni la gita era stata l’argomento principale dei nostri discorsi e a nessun costo eravamo disposti a rinunciarvi. Avanzammo con gamba lesta in mezzo al bosco. Purtroppo avvenne quel che era facile pronosticare: a un tuono ne segui un altro, e appena sopra il rifugio Porta il temporale ci investì».
Ma in tutta la sua carriera l’inossidabile Riccardo è andato sempre e solo avanti, senza cedere neppure nel mezzo di una tempesta. Un commento è diventato celebre “Dove attacca Cassin ci lascia il segno”.
«Una volta che la salita era decisa non tornavo indietro» dichiara perentorio. I suoi occhi vagano con i ricordi. A volte sembra esitare. Poi, come d’incanto la memoria affiora di nuovo e prorompe in battute fulminee. «Non sono mai stato sconfitto. Tutte le mie salite le ho sempre portate a termine al primo colpo. Non ho mai dovuto fare due tentativi della medesima salita».
Non sono mai stato sconfitto. Lo dice più volte Cassin, è il suo mantra. Mi osserva sornione e divertito dopo che l’ha ripetuto ancora. E indugia per un attimo sul mio taccuino che si riempie di appunti. Mi domando se non si stia prendendo gioco di me, così come penso che per tutta la vita si sia preso gioco delle difficoltà che le pareti gli opponevano. Allora, allo stesso modo in cui lui un tempo fissava la montagna davanti a sé e cominciava ad arrampicare, io lo scruto e lo sfido.
Ha compiuto migliaia di ascensioni, ha aperto nuove vie dove prima nessuno aveva nemmeno osato pensare di poter salire. In che cosa consiste la sua eccezionalità? In che cosa lei è diverso da me?
«Dal punto di vista fisico non c’è differenza tra me e lei».
Cassin, la prego…
«Intendo dire che sem du omen, ma ghem una mentalità diversa».
Già va meglio. E allora che cos’è che ci fa diversi?
«Ogni salita ha le sue caratteristiche e le sue difficoltà, così come ogni uomo è differente dall’altro. Non sarebbe nemmeno giusto se tutti e due la pensassimo allo stesso modo. Per andare in montagna conta l’allenamento, poi ci sono le capacità e ciascuno di noi ha le proprie».
L’adrenalina l’abbiamo tutti. Non possiamo eliminarla dal nostro organismo. Tant’è che quando siamo privati di pericoli reali inventiamo nemici artificiali, quali malattie psicosomatiche, vicini di casa o, peggio ancora, noi stessi se siamo lasciati soli nella famosa stanzetta di Pascal. L’adrenalina è la nostra indennità di viaggio, ha scritto Chatwin. Tanto varrebbe allora consumarla in modo innocuo, come ha fatto Cassin. Il mattatore delle Alpi, del McKinley, delle Ande e del Karakorum meriterebbe ben altro spazio. Ma è soprattutto come incontrastato re delle Grigne che a noi interessa conoscerlo.
«Le prime ascensioni in Grignetta risalgono al 1931. Il due luglio scalai la parete Est della Guglia Angelina e il ventisei dello stesso mese raggiunsi lo spigolo Nord del Sigaro Dones».
Quest’ultima via viene dedicata a Valentino Cassin, in memoria del padre scomparso in un incidente nei cantieri per la costruzione della Canadian Pacific Railway quando Riccardo aveva solo tre anni. Nel giro di poco tempo Cassin percorre tutti i vecchi itinerari sulle Grigne e si cimenta nell’apertura di nuove vie che, ancora oggi, sono guardate con rispetto. In particolare merita di essere ricordata quella lungo la parete Sud della Torre Costanza, tracciata nel 1933.
«La domenica salivo lassù e cercavo i passaggi che non erano stati ancora percorsi. La Grigna è un agglomerato di cime che offre un’ampia gamma di itinerari su roccia, dai più facili ai più impegnativi. Oggi appare meno difficoltosa, ma è ancora una palestra interessante. Poche montagne hanno esercitato un fascino tanto prepotente e formato intere generazioni di alpinisti».
Generazioni che hanno scritto pagine memorabili nella storia dell’alpinismo. Se le dico Ragni di Lecco quali ricordi le tornano alla mente?
«Io sono i Ragni di Lecco».
Per un attimo si potrebbe pensare di avere a che fare con un vanaglorioso. Poi guardi quel volto schietto e ti ricordi che hai di fronte il grande vecchio dell’alpinismo mondiale. Cassin, tra l’altro, ha sempre rifiutato la dimensione eroica. Sembra quasi non comprendere l’eccezionalità delle proprie imprese. Salire le vette delle montagne gli era così connaturato che i suoi racconti rasentano talora l’ingenuità. Corruga la fronte. Indugia ancora sul mio taccuino, poi leva gli occhi verso l’alto. Pare che in un solo momento tutte le gioie e le amarezze dei ricordi gli vengano di nuovo incontro. Mi confida che se si mette al bello salirà ai Resinelli. A lui lassù piace anche quando è brutto, sono i familiari che non lo portano se piove e fa freddo.
Perché le piace tanto andare ai Resinelli?
«Mi metto sul prato di fronte a casa e guardo la Grigna. L’è semper bela».
Secondo lei se Riccardo Cassin non fosse venuto a Lecco sarebbe diventato Riccardo Cassin?
Un profondo sospiro è la sua risposta. Sul volto appare un’espressione serena. L’uomo rupe, come lo definì l’amico Fosco Maraini, mi sorride tendendomi la mano. Senza fiato per la meravigliosa ispirazione di questo “piccolo” alpinista, mi alzo, lo ringrazio e me ne vado con la speranza di rivederlo presto, magari durante uno degli eventi che la Fondazione Cassin, nata da un’idea della famiglia e da lui stesso fortemente voluta, ha programmato per celebrare il centenario. Appena fuori volgo lo sguardo al cielo. Sopra i dirupi del San Martino s’innalza la Grigna, la cui sagoma mai mi era parsa così familiare e rassicurante.

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Walter Bonatti: una vita libera

Walter BonattiWalter Bonatti è uno di quegli italiani che ha rappresentato il proprio Paese meglio di quanto a volte esso meriti. Grande alpinista, tra i migliori di sempre insieme a Riccardo Cassin e Reinhold Messner, ed eccellente reporter dalla metà degli anni Sessanta, è stato un uomo che bisognerebbe sempre additare quale esempio, proprio perché non è stato un uomo facile. È passato attraverso oltre cinquant’anni anni di menzogne e cattiverie, quelle che hanno accompagnato la travagliata conquista italiana del K2 nel 1954. È stato attaccato e umiliato. Per anni incompreso da molti, isolato. Alla dirigenza Cai dell’epoca, a tanti giornalisti e anche a gran parte dell’opinione pubblica la sua sembrava solo cocciutaggine. Protestava la verità dei fatti, ma in tanti sbuffavano spazientiti o al più tergiversano. Forse a nulla gli sono servite le battaglie giudiziarie vinte. Dentro di lui si era rintanata un’amarezza che comunque non gli ha impedito di vivere, lottare e amare. Ormai forgiato dalla vita a sopportare ogni nefandezza, l’ha attraversata a testa alta. Continua a leggere