Perché i libri ci appassionano tanto? Perché li accumuliamo nel corso di tutta la vita? Non esiste una sola risposta a queste domande, ciascuno di noi ha la propria, o meglio le proprie. I libri che leggiamo, i libri che collezioniamo, i libri che conserviamo in modo apparentemente disordinato, ci legano al passato, al presente e al futuro in modo semplice e facilmente accessibile.
I libri sono generosi: ti regalano una storia da cui trai godimento. Di quella storia diventi per qualche tempo custode, conscio che altri prima di te l’hanno “posseduta” e ne hanno goduto per poi passarla ad altri. Nella vita di un lettore ci sono tanti momenti meravigliosi: la scoperta di un nuovo autore, l’incontro con un capolavoro, la magia di un racconto che ti accompagnerà per sempre. Credo che ciascuno di noi debba la propria passione per i libri a un titolo in particolare. Nel mio caso la fiamma è stata accesa da Madame Bovary. Non che prima d’imbattermi nell’eroina di Gustave Flaubert non avessi letto nulla, ma sento di poter dire che solo dopo aver attraversato la storia di Emma Rouault, sposata Bovary, sono diventato un lettore maturo.
Tentai di leggere le vicende di questa piccola adultera di provincia quand’ero ancora al liceo. Come tutti gli adolescenti mi sentivo tormentato. Avevo letto che quella della Bovary era la storia di un’anima travolta nella ricerca del sogno, dell’ideale a cui anela chi non può assolutamente adeguarsi alla realtà. Così cercai in quelle pagine una comunione di tribolazioni e tormenti. Ma non vi trovai nulla di tutto questo. Anzi la storia mi parve del tutto convenzionale. Le mie ansie e i miei afflati adolescenziali non si specchiarono affatto nella vicenda di una donna che si avvelena a causa della sua condotta immorale. Ricordo che lessi il romanzo a singhiozzo, inframezzandolo con lunghe pause e saltando intere parti, una su tutte quella lunghissima dedicata ai Comizi agricoli.
Ma un’altra straordinaria generosità dei libri è quella di concederti sempre una seconda occasione. Ripresi in mano Madame Bovary durante una breve vacanza concessami dopo la laurea. Terminai il libro in tre giorni e dopo di allora credo di averlo letto per intero almeno altre tre volte, per singoli brani, invece, un’infinità di volte. Spiegare le ragioni personali per cui ci s’innamora di un’opera che è universalmente riconosciuta come un capolavoro assoluto può essere fonte di imbarazzo. Attorno a Madame Bovary hanno scritto tutti i più illustri critici letterari del mondo, è dunque difficile aggiungere qualcosa di utile e, soprattutto, intelligente. Tuttavia voglio provare a condividere la mia personale chiave di lettura di questo strepitoso romanzo.
Flaubert, per il quale qualcuno ha riservato l’appellativo di Cristo della letteratura, fu definito il descrittore accanito, e questo suo modo di procedere fu considerato da alcuni addirittura un limite. Certi critici sono rimasti infastiditi dal rilievo concesso al materiale scenico, che, a loro dire, giunge a soffocare i personaggi. Io invece adoro il dettaglio flaubertiano, perché possiede una natura funzionale. Prendiamo ad esempio proprio la sua creazione più celebre: Emma Bovary. Fin dal primo incontro con Charles si ricevono puntuali e per niente occasionali descrizioni della signorina Rouault. Tali da farci divenire subito familiare il suo corpo. Le labbra carnose, che era solita mordicchiare nei momenti di silenzio. I capelli spartiti da una riga sottile sulla sommità del capo, che, lasciando intravedere appena il lobo dell’orecchio, scendevano ad ammassarsi dietro in una crocchia opulenta. Gli stessi capelli nelle pagine dedicate agli incontri amorosi con Leon sono attorti in una massa pesante, con indolenza, e secondo le vicende dell’adulterio, che ogni giorno li discioglieva, paiono quasi disposti da un artista abile nel raffigurare la corruzione. Pian piano conosciamo tutto di lei: le sue palpebre che sembrano tagliate apposte per i lunghi sguardi amorosi, gli occhi che per quanto fossero bruni sembravano del tutto neri per il gioco delle ciglia, il forte respiro che dilatava le narici fini e rialzava gli angoli carnosi delle labbra, ombreggiati nella luce da una lieve peluria nera, le unghie brillanti, fini in cima, più lisce dell’avorio di Dieppe e tagliate a mandorla. Perfino i dettagli, apparentemente più insignificanti, sembrano avvicinarci a lei e svolgono una funzione, potremmo dire tattile, come l’occhialetto di tartaruga che portava, al pari d’un uomo, infilato fra due bottoni della blusa. Foglio dopo foglio, la Bovary cessa di esistere solamente nella finzione letteraria e si materializza fisicamente dinanzi al lettore.
Poi ci sono le descrizioni cariche di un erotismo più esplicito, seppure molto cerebrale. Come quando Emma si punge le dita cucendo e se le porta più volte alla bocca per succhiarne il sangue; oppure il modo particolare con cui getta indietro la testa per bere il bicchierino quasi vuoto di curaçao, con le labbra sporgenti e il collo teso, mentre con la punta della lingua tenta felinamente di leccarne le poche gocce rimaste. Tutto di lei sembra suggerire un forte potenziale erotico: il modo languido con cui parla, i suoi sussurri, le palpebre semisocchiuse, la lieve peluria dietro al collo accarezzata dal vento, le goccioline di sudore sulle spalle nude. Quando usciva prima dell’alba, per recarsi all’incontro con Rodolphe, Emma entrava nella stanza a tentoni, socchiudendo gli occhi, e le gocce di rugiada, sospese sulle bande dei capelli, formavano come un’aureola di topazio attorno al suo viso. Queste descrizioni accanite, che la prima volta senz’altro concorsero a rendere assai faticosa la lettura, in realtà testimoniano la piena consapevolezza con cui Flaubert sceglieva i dettagli. C’è una sua precisa volontà di accendere il romanzo mediante un sottofondo potentemente sessuale. L’impiego insistente di alcuni vocaboli, che potremmo definire prediletti, mollesse, assoupiment, torpeur, rimandano inevitabilmente ad un vago, languido stato di compiacimento sensuale.
Fra i critici contemporanei circola una sciocca considerazione, di quelle che passano di penna in penna senza ulteriori approfondimenti: il processo a Madame Bovary oggi ci appare incomprensibile. Com’è noto Flaubert dovette subire un processo per offesa alla morale e alla religione. Processo che l’autore vinse e che contribuì a dare notorietà al libro. D’accordo, l’accusa fu esagerata, ma chi oggi liquida questa vicenda giudiziaria solo come un’inadeguata risposta dei tempi, o non ha mai letto il romanzo, oppure non è stato capace di avvertire la forte pulsione erotica di cui è impregnato. Domando: è mai stato scritto qualcosa di più eccitante della famosa scena d’amore nella carrozza? Per l’intera durata, al lettore è concessa soltanto la vista della vettura con le tendine abbassate, e l’unica nudità appare alla fine, una mano senza guanto che s’infila di sotto alle tendine di tela gialla e getta frammenti di carta che, come farfalle bianche, ricadono su un campo di trifoglio rosso in fiore. Ma la carrozza che procede dapprima lentamente e poi in un furioso galoppo, il crescendo vertiginoso e i movimenti scomposti evocano altro. A chi sa fantasticare.
Nel libro non si trovano oscenità. E di questo ne era convinto lo stesso Flaubert, che, dopo la pubblicazione sulla Revue de Paris e le prime voci di scandalo, scrisse al fratello Achille: “Sto diventano la celebrità della settimana, tutte le puttane d’alto bordo si contendono la Bovary per cercarvi oscenità che non ci sono”. Ma quel culto per la descrizione degli oggetti ha consegnato per sempre alla storia della letteratura mondiale la figura di un cronico feticista. L’intero romanzo è disseminato di semplici oggetti che, quantunque ai più appaiono privi di qualsiasi carica interiore, sono sapientemente trasformati da Flaubert in feticci.
Anni dopo la seconda lettura di Madame Bovary, venni a sapere che Flaubert custodiva gelosamente le pantofoline di Louise Colet, letterata con cui egli intrattenne una relazione tenera e tempestosa. Le teneva in un cassetto dello scrittoio e di tanto in tanto le estraeva e le osservava. In una lettera alla sua Musa, Gustave si abbandonò disperatamente alla sua inclinazione feticista, paragonando i vari stili di scrittura alle diverse calzature. “… Sandalo, che parola magnifica e che suono solenne. Non è così? Quelli dell’estremità a punta, rivolte all’insù come lune crescenti, ricoperti di lustrini d’oro scintillanti carichi di splendide decorazioni simili a edifici indiani. Vengono dalle rive del Gange. Con tali calzature ai piedi si può passeggiare all’interno di pagode dai pavimenti di aloe oscurato dal fumo di incensi profumati e odorosi di muschio. Sono gli stessi che ti conducono negli harem su tappeti scomposti da disegni simili ad arabeschi. Viene da pensare a inni perenni di amore soddisfatto…”.
Flaubert coltivava una vera e propria passione per i piedi femminili. Calzati o non, sono costantemente al centro della sua attenzione. Per tutte le protagoniste dei suoi romanzi riserva al lettore minuziose descrizioni delle loro estremità e delle calzature che indossano. Ma il momento più alto e intrigante di questa mania non va cercato fra le pagine di Madame Bovary, bensì in quelle di Salambò. La critica contemporanea guarda a questo romanzo soprattutto in chiave di ricostruzione storica. In effetti si tratta di un grande affresco che narra le gesta dei Cartaginesi contro i barbari mercenari. Ma l’opera è interamente percorsa da un gusto sofisticato del macabro e della perversione e mostra anche doti spiccatamente cinematografiche, sorprendenti oltre ogni modo se si tiene conto che fu pubblicato nel 1862. Il modo in cui Flaubert fa entrare in scena Salambò dà vita alla pagina più erotica di tutta la letteratura: la sacerdotessa di Tanith discende le scale con una catenella d’oro alle caviglie per dare la misura al suo passo. E naturalmente, ancorché l’autore non lo precisa, per garantirne la purezza.