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E se la smettessimo di volere di più?

consumi

La crescita economica è stata il solo e unico faro che ha guidato per decenni i Paesi del capitalismo avanzato, l’obiettivo da perseguire con ogni mezzo. Ma il prezzo che si è dovuto pagare è stato altissimo. Ecosistemi distrutti, paesaggi devastati, aree urbane isterilite. Per non parlare dei costi umani. Da un lato del pianeta sono emerse nuove forme di schiavismo, dall’altro lato si sono consolidati modi di vita alienanti.

Da tempo, però, una fetta di mondo ha messo in discussione alcuni idoli dei nostri tempi, a cominciare dal mito della crescita e dalla fede nel Pil… (continua) E se la smettessimo di volere di più?.

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Africa: è venuto il momento di restituire

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Se si osserva il panorama economico globale, è facile rendersi conto che molti vecchi protagonisti sono stati spodestati dai nuovi: la Cina, prima di tutti, ma anche la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa, la Corea del Sud. Alcuni di loro hanno già detto che l’epoca dei G8 è finita. Oggi si deve parlare almeno di G20. E in questo ipotetico governo delle potenze più industrializzate, Paesi come Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna non occupano più i primi posti.
Ma c’è anche una terra che sembra invece destinata a restare solo un grande forziere da depredare: l’Africa. Attraverso le sue immense ricchezze naturali, questo continente ha contribuito a finanziare due guerre mondiali e il progresso economico europeo. Al suo saccheggio permanente, grazie al quale l’Occidente si è impadronito di caucciù, oro, avorio, rame, bauxite, petrolio, uranio e forza lavoro a basso costo, ora si sono aggiunte le potenze asiatiche in ascesa, in particolare la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica dell’India che stanno facendo incetta di terreni fertili.
Certo, quella che si affaccia al 2013 è un Africa in profonda trasformazione, segnata dalla crescita del prodotto interno lordo di alcune sue Nazioni, ma anche dalle tante miserie mai risolte. Prima fra tutte la fame. Secondo il Rapporto elaborato dalla Fao, insieme all’Ifad (International Fund for Agricultural Development) e al Wfp (World Food Programme) nel 2012 sono stati 870 milioni i malnutriti cronici. A patire maggiormente sono proprio gli africani, dove gli affamati sono cresciuti da 175 milioni a 239 milioni. È migliorata invece di molto la situazione in Asia e passi avanti sono stati compiuti anche in America Latina. Sono terribili i dati riguardanti l’infanzia: ancora 2 milioni e mezzo di bimbi muoiono ogni anno e 100 milioni di loro sono gravemente sottopeso. Purtroppo la situazione non fa ben sperare: entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero spingere altri 24 milioni di bambini nel baratro della fame, quasi la metà di loro vivono nell’Africa sub-sahariana. (Fonte: Wfp).
Secondo una consolidata leggenda, gli antichi cartografi romani designavano le zone inesplorate dell’Africa con la dicitura: hic sunt leones. Oltre la Tripolitania, la Numidia e la Mauritania cominciava l’ignoto. Sono passati duemila anni, ma quelle terre restano ancora sconosciute a tanti di noi. Eppure, come spiega da tempo il missionario comboniano Giulio Albanese, “l’Africa è la cartina di tornasole delle contraddizioni del nostro povero mondo”. È un continente sconfinato, come del resto i suoi problemi: dalla mancanza d’infrastrutture al deficit di democrazia, passando per la corruzione, il debito estero e, non ultimo, lo sfruttamento delle risorse naturali. Padre Albanese insiste su un punto: per risolvere questi drammi occorre prima di tutto sconfiggere certe malefiche opinioni. Come quella, ad esempio, che l’Africa sia povera, mentre in realtà è soltanto impoverita.
Muore un continente, si sente ripetere da decenni. E invece è ancora lì, pur con tutte le sue disgrazie e le sue sofferenze. Alcuni regioni sono riuscite perfino a dare vita a un’economia informale che ha sorpreso gli economisti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. E in alcuni Stati è attiva una classe intellettuale che rivolge incessantemente un messaggio al mondo occidentale, non con i toni di una supplica ma piuttosto con la forza della testimonianza: il nostro mondo è un villaggio globale. Chissà se la vecchia Europa, ora che sente la propria supremazia minacciata dalla vigoria di nuovi Paesi, non saprà riscattarsi da secoli di arroganza e malefatte. In fondo se sinora si è vissuto sopra le proprie possibilità è anche grazie al fatto che si sono sfruttate le ricchezze degli altri. Adesso è venuto il momento di restituire. Crisi o non crisi.

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La crisi è finita

Sissignori, avete letto bene: la crisi è finita. La nuova realtà è questa. È ingannevole inseguire ancora la chimera della crescita. Occorre prendere atto con realismo e umiltà che siamo entrati nella post growth economy, cioè in un’economia del dopo crescita, e che in Italia non ci saranno più incrementi esponenziali permanenti dei consumi e del Pil. Chi ce lo fa credere, ci inganna sapendo di mentire. Tenta solamente di tenerci soggiogati, di promuovere la fabbrica dell’uomo indebitato, di spremerci fino all’ultimo centesimo. 
Lo so, la tesi è muscolosa, ma dobbiamo affrontare la realtà. Vogliamo ricordare quali sono state le cause della crisi economica iniziata nel 2008? Quella crisi trae origine dal debito accumulato negli anni precedenti dalle famiglie americane, un debito contratto per soddisfare consumi eccessivi. Gli americani, e come loro gran parte degli occidentali, italiani compresi, hanno abusato per lungo tempo dei prestiti ipotecari e delle carte di credito vivendo al di sopra delle proprie possibilità economiche reali. Hanno acquistato più beni di consumo, auto più veloci e case più grandi e lussuose di quanto si potessero permettere. Insomma la crisi affonda le proprie radici nella spinta estrema al consumismo. L’epilogo, come è noto, è stato che quella crisi americana ha contagiato il resto del mondo.
Le iniziative messe in campo dalla governance internazionale, e in particolare da quella italiana, hanno assunto la dimensione di un crack senza precedenti che fanno legittimamente dubitare della loro efficacia. La deregulation del mercato del lavoro non ha favorito l’occupazione, anzi l’esercito dei senza lavoro e dei precari è cresciuto in modo vertiginoso. E ormai è chiaro a molti che parole come competitività e rilancio dei consumi nascondono in realtà un segreto indicibile: la necessità di continuare a fare profitti con la scusa della crisi. Non crescita dunque, ma nuova truffa.
Quello a cui stiamo assistendo è un triste circo senza speranza che spera di ridare forza alla bulimia consumistica degli anni passati. Ma il tempo è scaduto. Un numero crescente di cittadini non vuole più vivere in una società che sforna persone sempre più sole e sempre più illuse di poter risolvere i propri problemi acquistando beni materiali. La gran parte di noi non è più interessata a vivere al di sopra delle proprie possibilità e soprattutto non vuole più essere schiava del mercato creditizio. La crisi è finita. La nuova società è questa.

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Squinzi come i Maya

C’è un’eco di Vecchio Testamento, un sentore di piaghe di Egitto, pioggia di rane e sciame di locuste, nella dichiarazione di Giorgio Squinzi. Il presidente di Confindustria,  a colloquio con il presidente del consiglio incaricato, Pierluigi Bersani, ha chiesto di fare presto e di formare subito «un governo stabile» perché per le imprese italiane il tempo sta scadendo. Ormai in uno stato «disperato», le aziende sono «vicinissime alla fine». In un post (Consumo quindi sono) di pochi giorni fa avevo ammirato la pacatezza di Squinzi, ma sono costretto a ricredermi. Definire dissennato il suo commento di ieri è dire poco. Da un imprenditore, anzi dal capo degli imprenditori è lecito attendersi toni più concreti e meno millenaristici. Ci siamo lasciati da poco alle spalle la fanfaluca delle profezia Maya e ora ci troviamo già a fare i conti con la vocazione apocalittica di Confindustria. La radicata tendenza dell’uomo, tramandata nei secoli, a credere sempre di vivere alla fine dei tempi, a considerare la propria scomparsa indissolubilmente legata all’estinzione del mondo intero, ha mietuto una vittima insospettabile. Squinzi, Confindustria, gli imprenditori tutti, o perlomeno buona parte di loro (tutti quelli che non accettano che siamo già entrati nella cosiddetta post growth economy, cioè in un’economia del “dopo la crescita”, e che non saranno più possibili incrementi esponenziali permanenti del Pil) farebbero bene a rivedere rapidamente i propri modelli economici di riferimento se non vogliono implodere divorati dalle loro stesse contraddizioni. La cosiddetta “terapia d’urto” invocata da Confindustria servirebbe soltanto a prolungare un poco l’agonia di un sistema tramontato. Tentare ancora di tenerci soggiogati, di promuovere la “fabbrica dell’uomo indebitato”, di spremerci fino all’ultimo centesimo significa non avere compreso la portata di ciò che sta accadendo.
Le iniziative messe in campo dalla governance internazionale dall’inizio della crisi ad oggi hanno assunto la dimensione di un crack senza precedenti che fanno legittimamente dubitare l’opinione pubblica europea. Austerità e deregulation del mercato del lavoro nascondono in realtà un segreto indicibile: la necessità di continuare a fare profitti. Ma la crisi finanziaria partita nel 2007 affonda le proprie radici proprio nella spinta estrema al consumismo generata in seno alla società americana. L’epilogo, come è noto, è stato che quella crisi ha contagiato buona parte del resto del mondo. E allora è ancora credibile chi ci spinge ad abusare dei prestiti ipotecari e delle carte di credito per vivere al di sopra delle nostre possibilità economiche reali? Chi ci spinge ad acquistare più beni di consumo e auto più grandi e lussuose di quanto ci potremmo permettere?
La crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire nel cambiamento, di spazzare via la logica di breve periodo che ha afflitto la società per decenni, di sostituirla con una politica ponderata e capace di affrontare l’enorme sfida di assicurare una prosperità duratura. Alle persone desiderose di confrontarsi con questi temi dovremmo accordare la nostra stima e il nostro sostegno. Il resto è disperazione fuorviante. Gli stessi soggetti che ci hanno trascinato nel baratro senza lanciare nessun allarme preventivo si erigono oggi al ruolo di professori, medici e stregoni e dettano le soluzioni. O meglio, la soluzione. La solita: crescita economica. E siccome ormai non ci credono più neppure loro, ora ricorrono perfino al mito della catastrofe. La vocazione apocalittica si è inventata un nuovo mostro: la fine delle imprese.

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Cosa ha consumato il consumismo?

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Nel 1962 fece la sua comparsa nelle librerie italiane un titolo profetico, La vita agra di Luciano Bianciardi, capace di prevedere, con mezzo secolo di anticipo, l’Italia di oggi. È un libro che dovrebbe rientrare di diritto nei programmi scolastici e che invece pochi conoscono e ancora meno leggono. In tempi di grande entusiasmo, ha prefigurato i temi che progressivamente hanno preso piede nella nostra società: la crisi economica e di valori, il precariato, lo sfruttamento del lavoro intellettuale.

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