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C’era una volta il Corriere della Sera…

Curioso articolo quello pubblicato oggi dal Corriere a firma di Aldo Cazzullo. “La fenomenologia dell’insulto in rete”, questo è il titolo roboante, prende spunto dalla vicenda riguardante le maledizioni gli insulti seguiti alla notizia sul malore di Bersani. Non voglio dilungarmi sulla vicenda. Sono state già state sprecate sufficienti parole di dubbia solidarietà all’ex segretario del Pd, pertanto mi affido a un sincero e rispettoso silenzio. Mi interessa invece soffermarmi sulle parole usate da Cazzullo per disegnare il mondo dei social: “Nel villaggio globale, che i social network hanno nello stesso tempo dilatato e rimpicciolito, (…) tutti parlano, molti gridano, minacciano, offendono; e non si capacitano che nessuno ascolti”. Apparentemente partecipe al disagio di chi si trova solo nell’immensa piazza elettronica, l’editorialista del Corriere in realtà mostra i muscoli di chi è ancora convinto di scrivere per il più importante e diffuso quotidiano italiano e getta uno sguardo sdegnato alla plebaglia che sgomita e fatica inutilmente tra blog, pagine Facebook e frattaglie varie. Senza accorgersi che sono proprio lui e il suo giornale a dirigersi a vele spiegate verso la solitudine. Nel 1995 il Corriere della Sera vendeva mediamente 650mila copie al giorno, nel 2013 ne ha vendute 350mila. Procedendo a questo ritmo il deserto si avvicina rapidamente, se solo salisse sulla sedia della scrivania Cazzullo scorgerebbe già le prime dune. Qualcuno potrebbe obiettare che a compensare il calo delle vendite cartacee interviene la maggiore diffusione delle copie digitali. Vero, ma la media di queste ultime è inferiore a 70mila, quindi comunque la si giri il principale quotidiano italiano ha perso circa il 40% dei propri lettori. Il declino inglorioso di un giornale e dei suoi giornalisti.

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Stampa e Tv non vi sopporto più. Ma sarà vero?

Un tifoso che ha seguito in trasferta la squadra del cuore sarà pronto a giurarvi che allo stadio si sentivano solo i cori del settore ospiti. Non perché sia andata effettivamente così, ma piuttosto perché lui, immerso tra i compagni, sentiva solo le urla a sostegno della propria squadra. Lo stesso accade a chi magnifica senza senso critico il ruolo di Internet, ormai decisivo secondo alcuni nel determinare successi e sconfitte elettorali, imprenditoriali e di ogni altro genere. Insomma decisivi nel determinare le sorti di un Paese. Chi trascorre la giornata su blog e social network finisce per convincersi che tutte le idee interessanti debbano passare per forza soltanto da lì. La televisione probabilmente ha perso parte della sua capacità di creare opinione e indirizzare il consumatore, ma arrivare a sostenere che è finita denota scarsa capacità di osservare la realtà. Secondo i più recenti rapporti, la televisione resta saldamente il medium preferito dagli italiani, con percentuali bulgare di utilizzo del mezzo (oltre il 95% per cento). Seguono radio, quotidiani e siti web. I telegiornali sono ancora considerati fonti tra le più affidabili (!?), e nelle preferenze dei connazionali prima di Google viene addirittura il Televideo. Bastano questi pochi dati per comprendere che l’Italia è spaccata in due: giovani e istruiti da una parte, anziani e poco istruiti dall’altra. Fatte salve le dovute eccezioni. I primi navigano con facilità sul Web, usano almeno un social network (e lo considerano strumento di democrazia), e non leggono un giornale nemmeno della free press. Gli altri sono fermi a Bruno Vespa, Affari tuoi e Mediashopping con il suo circo di materassi, frullatori e panche per gli addominali. Idolatrare i nuovi media in quanto portatori in sé del “vento che cambia” rischia di generare gravi errori di prospettiva: siamo in Italia, gente. Non dimentichiamolo.