Expo e Mose sono solo la punta dell’iceberg.
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Cos’è questa Expo della vergogna? Io so
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quella che viene già chiamata “nuova tangentopoli” (e che in realtà è una serie di “tangentopoli” istituitasi a sistema dentro i centri del potere).
Io so perché l’Expo dei corrotti non si può fermare.
Io so perché tutti adesso invocano l’emergenza cantieri.
Io so che molti dei politici citati nelle intercettazioni ora diranno: sono solo millanterie!
Io so che lo Stato non è più forte dei ladri, perché i ladri sono anche dentro lo Stato.
Io so che ci saranno sempre un Greganti o un Frigerio da immolare.
Io so perché i comandanti “traditi” dai loro vice dichiarano di volersi dimettere, ma poi restano al loro posto.
Io so che il partito dei Dell’Utri, dei Cosentino e degli Scajola non è poi così diverso da quello dei De Gregorio, dei Razzi, degli Scilipoti e dei vari transfughi dall’Udeur e neppure da quello che tollera il “sistema Sesto”, il “compagno G” e compagnia cantante.
Io so che faccia hanno i corruttori seriali.
Io so che mentre molti si indignano, si consumano feste e festicciole per sostenere i candidati alle prossime Europee dove si vedono facce che nessuna persona per bene inviterebbe a casa propria.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato sia la vecchia tangentopoli, sia la nuova tangentopoli, sia infine gli “ignoti” autori materiali di tutti gli episodi di corruzione più recenti.
Io so i nomi del gruppo di potenti che sono sempre pronti a ricostruirsi una verginità.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, assicurano la protezione a vecchi e giovani faccendieri.
Io so i nomi dei personaggi grigi che non si espongono mai.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai criminali comuni e ai tragicomici malfattori dati in pasto alla stampa.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Noi siamo così
A volte mi domando come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto una monarchia debole e acerba, una dittatura ventennale e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza quarant’anni di strapotere democristiano. Senza i governi forchettoni e i governi balneari. Senza i governi monocolore, il pentapartito, l’apertura a sinistra e il compromesso storico. Senza la concertazione, senza la crisi della Balena bianca, senza le stragi, senza la P2, senza gli anni ruggenti dei socialisti, le ambiguità dei comunisti, le velleità dei riformisti. Senza dorotei, morotei, fanfaniani e andreottiani. Senza miglioristi, berlingueriani, ingraiani e cossuttiani. Senza il Vaticano. Senza la democrazia bloccata. Senza il C.A.F. (dall’acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani). Senza Gladio. Senza la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Senza le leghe. Senza la Seconda Repubblica che si è rivelata peggio della prima.
Già, la Seconda Repubblica. Me la ricordo ancora la scritta che ha campeggiato per lungo tempo sul cavalcavia di Piazzale Kennedy a Milano: ‘W Di Pietro’. Era il ’92, l’intera classe politica italiana stava per essere spazzata via dalle inchieste giudiziarie che come in un risiko si abbattevano l’una sull’altra. Che poi, intera no. La furia dei giudici alla fine ha risparmiato l’allora Pci-Pds (sì è vero, fu rasa al suolo la federazione pidiessina milanese, ma l’inchiesta nazionale si fermò alle soglie di Botteghe Oscure) mentre buona parte dei democristiani e socialisti sopravvissuti e le frattaglie dell’ex pentapartito sono migrate verso Forza Italia. Ma allora, nel ’92, alcuni italiani scrivevano ‘W Di Pietro’, in Piazzale Kennedy. E tu guarda come a volta sono proprio i dettagli a svelarti il prosieguo delle storie. John Fitzgerald Kennedy è ricordato per frasi come: «Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese». Tonino Di Pietro per altre del tipo: «Non sono un politico e non penso di entrare in politica. Ma potete voi escludere la possibilità di vestirvi domani da donna?». In ogni caso, la parabola politica dell’ex Pm di Mani Pulite è andata come tutti sappiamo e Tangentopoli non è stata affatto una rivoluzione. Fra qualche tempo qualcuno probabilmente si domanderà come sarebbe stata l’Italia se non avesse avuto vent’anni di berlusconismo e una repubblica caduta nel ridicolo. Come sarebbe stata senza lo strapotere delle banche e della finanza. Senza i ricatti della sinistra arcobaleno e dell’Udc, senza lo sciagurato ciclo del bipolarismo confuso. Senza Previti e Dell’Utri. Senza Mastella, Giovanardi, Follini e Casini. Senza gli ex fascisti e i post fascisti. Senza i governi Dini, Prodi e D’Alema che hanno svenduto le aziende di Stato alla solita oligarchia economico-finanziaria. Senza il partito-giornale e le Tv-partito, senza gli scandali Cirio e Parmalat, le scalate bancarie del 2005, l’Opa di Unipol su Bnl. Senza l’onerosissimo salvataggio di Alitalia, senza Telecom data in pasto prima a Colaninno poi a Tronchetti Provera. Senza i governi tecnici e i governi delle larghe intese. Senza il manto quirinalizio su ogni tentativo di riforma.
Senza “er batman”, Belsito e Lusi. Ecco, fermiamoci qui, a questi nomi. Sono l’espressione più compiuta della gens che è prosperata nei pascoli della Seconda Repubblica. Razza predona, arraffona, spregiudicata e ingorda. Sono passati più di vent’anni da quel 1992, e ci siamo accorti che sono trascorsi in un lungo bunga-bunga al cui richiamo in pochi si sono sottratti. Il dolce fardello dei soldi ha avvinto tutti: leader agili nel cambio di maglia e identità, sigle fantasma, una girandola di correnti e di fondazioni. Credevamo di avere visto il volto più brutto della politica e invece il peggio doveva ancora arrivare. L’ex tesoriere della Dc Severino Citaristi, scomparso nel 2006, all’epoca di Tangentopoli fu raggiunto da 74 avvisi di garanzia, un record per cui divenne il simbolo dell’inchiesta. Ha poi ammesso di avere ricevuto le tangenti, ma ha sempre negato qualsiasi interesse personale («non ho mai preso una lira per me», «non ho mai corrotto nessuno» ripeteva) e ha sempre sottolineato che «tutti le prendevano». Altri tempi. Perfino le ruberie erano più nobili, e non si tratta solo di nostalgia del passato.
«C’era la delegazione di Craxi in visita in Cina, erano a cena, mangiavano. A un certo punto Martelli ha chiesto a Craxi: Senti, ma davvero qui sono un miliardo, tutti socialisti? Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Beppe Grillo, allora era un comico e faceva solo ridere, chiuse con questa battuta nello studio di Fantastico 7 la sua carriera alla Rai. Era il 15 dicembre 1986. Per la risposta si è dovuto attendere più di un quarto di secolo.
La vita di un giusto. Ambrogio Mauri, l’imprenditore “ucciso” dai corrotti
Monica Zapelli, nota al pubblico come sceneggiatrice del film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, e di alcune popolari fiction televisive come Maria Montessori: una vita per i bambini, Enrico Mattei – L’uomo che guardava al futuro e Il caso Enzo Tortora – Dove eravamo rimasti?, ha ricostruito la storia di Ambrogio Mauri, l’imprenditore della Brianza che nel 1997 si tolse la vita come gesto estremo di protesta contro il sistema delle tangenti che soffoca chi lavora onestamente.
S’intitola Un uomo onesto ed è un libro molto bello. E molto doloroso. Perché dolorosa è la vicenda di Ambrogio Mauri: un uomo normale, dotato di ingegno, che chiedeva solo di vivere in un paese in cui la pubblica amministrazione si liberasse dalla corruzione e di concorrere in un mercato in cui potesse vincere il migliore.
Mauri era persona perbene, un uomo d’altri tempi hanno scritto alcuni, quasi a sottolineare che questo non è più un luogo per onesti. A 66 anni, dopo aver visto andare in fumo i valori che gli avevano insegnato e in cui lui aveva creduto, si è ucciso. Un caso limite, perché non tutti gli imprenditori onesti si suicidano per disperazione. Però è l’estrema conseguenza di un fenomeno vastissimo, che il giornalista Massimo Fini chiama degli “omicidi bianchi della partitocrazia”. “Omicidi bianchi perché non si vedono – scrive Fini. – Si tratta delle vite spente, nelle loro speranze, nelle loro aspirazioni, nelle loro legittime ambizioni, da un sistema che respinge ai margini estremi chi rifiuta di affiliarsi, di sottomettersi, di rinunciare alla propria dignità”.
In tal senso c’è un tragico filo rosso che lega la storia di Peppino Impastato, l’ideatore di Radio out che denunciò i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini e fu ammazzato da Badalamenti, a quella dell’imprenditore brianzolo. C’è continuità fra Cinisi a Desio: anche Ambrogio Mauri è stato ammazzato dal metodo mafioso che ha dilagato in Italia.
Qui di seguito la mia chiacchierata con l’autrice di Un uomo onesto.
Cosa l’ha spinta a riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda di Ambrogio Mauri?
Credo che la vicenda umana e professionale di Ambrogio Mauri sia l’espressione di un’Italia migliore, e oggi più che mai questa parte del paese merita di essere conosciuta e ricordata. La sua è una storia passata sempre sotto traccia, perché Mauri non è mai stato un uomo del sistema, nemmeno come industriale. Mi affascinano queste figure destinate all’isolamento dal loro rigore e dalla loro intransigenza. Ad ogni modo è giusto ricordare che, seppure in maniera intermittente, la sua storia è stata tramandata grazie all’impegno di giornalisti come Giancarlo Santalmassi, Massimo Fini, Milena Gabanelli, Marco Travaglio e altri.
Dopo il ’92 Mauri si era illuso che molto sarebbe cambiato e invece è tornato tutto come prima. O peggio di prima?
Per quanto amara, la sua è una bellissima storia di Tangentopoli. Ci restituisce una fotografia di quegli anni scattata, non dagli inquirenti, ma dai cittadini. Ambrogio Mauri era tornato a credere nella giustizia grazie a Mani Pulite. Si era illuso che le indagini e i processi contro la corruzione potessero ripulire l’Italia. Invece, dopo Tangentopoli è scattata la vendetta nei suoi confronti. E c’è stata una selezione darwiniana dei corruttori, sono sopravvissuti i più abili.
Lei che idea si è fatta, era un ingenuo?
Non era un ingenuo. Era un uomo normale, innamorato del suo lavoro e incapace di rinunciare ai suoi principi. Apparteneva ad una generazione che si è trovata a ricostruire l’Italia in un momento di grandi difficoltà e di precarietà e questo richiedeva una tempra eccezionale. In fondo desiderava soltanto fare il suo dovere. Ambrogio Mauri ha tenuto accesa per tutta la vita l’intransigenza della giovinezza, è ciò accade alle persone migliori.
Per spiegare il rigore di Mauri lei ricorda anche una sua partecipazione a Milano, Italia la fortunata trasmissione condotta da Gad Lerner che andava in onda dalla Sala dell’Umanitaria…
Si trattava della trasmissione che in quel momento raccontava meglio di qualsiasi altra il cambiamento in atto nel paese. Ma Mauri era sempre se stesso, in ogni occasione, non aveva quel grado di ruffianeria necessario per sopravvivere in Tv. Non era certamente un uomo di pubbliche relazioni e per dirla con un linguaggio un po’ tecnico quella sera era fuori format. La puntata era dedicata alla crisi economica, non al tema delle tangenti. Lerner intendeva parlare dell’industria italiana travolta dai nuovi equilibri economici che allora scaturivano dall’ingresso sui mercati internazionali dei Paesi dell’Est Europa.
E invece Mauri…
E invece Mauri portava il discorso su altri temi. Lui non aveva il problema della crisi, ma della trasparenza. Ma soprattutto lui non era un ospite televisivo, non aveva nulla dell’accondiscendenza di chi si sente sotto i riflettori. E quella sera probabilmente non scattò una filo di simpatia umana con il conduttore. Anche in questo episodio si legge la sua figura di eretico incapace di compromessi.
Secondo lei quanto ha concorso la corruzione nel determinare l’attuale crisi economica italiana?
Ha concorso in modo drammatico. Al di là degli studi che indicano in termini finanziari quanto pesa la corruzione sul nostro sistema economico e produttivo, c’è stato un impoverimento del nostro livello competitivo. Se un’impresa vince pagando sottobanco non ha vantaggio ad investire nella ricerca e nell’innovazione. Però il discorso non riguarda soltanto le aziende, coinvolge tutti noi. C’è un bagaglio di rinunce e di compromessi che investe la vita di molti italiani. Basti pensare alla bassa qualità dei servizi che riceviamo dallo Stato, nonostante il peso della nostra pressione fiscale, o alla difficoltà di vincere un concorso pubblico affidandosi solo alla propria bravura.
In apertura del suo libro ha riportato una frase di Leopoldo Pirelli: “Se una decina di grandi aziende avessero insieme denunciato la corruzione che era diventata sistema, nessuno avrebbe potuto impedircelo e schiacciarci, tutti insieme eravamo forti a sufficienza per cacciare quel malcostume”.
È la triste verità. Cesare Romiti venne condannato per falso in bilancio e finanziamento illecito dei partiti pochi giorni prima che Mauri si suicidasse. Quella condanna in seguito fu confermata in Appello e in Cassazione. Solo successivamente, nel 2002, in seguito alla depenalizzazione del falso in bilancio, la Corte di Appello di Torino revocherà la sentenza dichiarando che il fatto non costituisce più reato. Si dice che la corruzione costa agli italiani sessanta miliardi di euro l’anno, ma al danno economico vanno sommate le conseguenze quotidiane della selezione in negativo delle imprese prodotta dalla corruzione stessa.
Non ci sono più speranze?
Abbiamo l’obbligo di continuare a sperare e di riprenderci il nostro domani. Solo così Ambrogio Muri avrà vissuto per qualcosa, perché nessuno più debba morire come lui. Ho scelto di associare alla vicenda di questo imprenditore brianzolo una storia sintetica dell’Italia proprio per ricordare ai più giovani le vicende che hanno investito il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Non è mai stata mia intenzione fare un libro pessimista. Ho voluto scrivere un libro capace di muovere una rabbia che fa agire. L’Italia del malaffare fa sistema perché ha il collante del denaro. L’Italia degli onesti deve imparare a fare sistema tirando fuori il meglio da se stessa. La crisi che stiamo attraversando deve servire almeno a questo: a fare emergere una classe migliore.
Qualcuno ha scritto: onesti si nasce, delinquenti si diventa. Impossibile trovare parole più adeguate per concludere questa chiacchierata.
Sempre un passo avanti
Ambrogio Mauri, su uno dei suoi bus. L’imprenditore brianzolo introdusse soluzioni impensabili per la sua epoca. Fu il primo in Italia a proporre l’alluminio per le carrozzerie, un materiale che garantisce ai mezzi leggerezza e durata, con un abbattimento consistente dei costi di gestione. Agli inizi degli anni ’80, quando la tecnologia e l’elettronica erano lontanissime dalle conoscenze attuali, concepì il Bibus, una risposta geniale ai problemi dell’inquinamento urbano: il bus poteva funzionare a gasolio nei tratti extraurbani, ma una volta entrato in città era in grado di procedere a elettricità, senza alcun rilascio di anidride carbonica. Sempre negli anni Ottanta, Mauri progettò un nuovo autobus da diciotto metri, non più a quattro assi portanti, ma a tre. Un cambiamento che rese i mezzi più maneggevoli per chi guidava e più comodi per chi ci saliva, perché il motore poteva essere spostato dalla parte centrale a quella posteriore, consentendo di abbassare il pavimento e guadagnare spazio all’interno. Oggi i mezzi in circolazione sono tutti così, a tre assi. Come li aveva concepiti Mauri.
Bettino Craxi, le monetine, l’euro e la svendita dell’Italia
Il 29 aprile del 1993 la Camera dei deputati negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, inquisito dalla Procura di Milano nel corso di Tangentopoli. Il diniego provocò l’ira dell’opinione pubblica e fece gridare allo scandalo numerosi quotidiani. In aula ci furono momenti di tensione, i deputati della Lega e dell’Msi gridarono “ladri” ai colleghi che avevano votato a favore di Craxi. Alcuni ministri del governo Ciampi si dimisero in segno di protesta.
Il giorno seguente si svolsero manifestazioni di dissenso: alcuni giovani sostarono in piazza Colonna scandendo slogan contro il Parlamento; altri protestarono davanti alla sede del Psi in via del Corso. Ci furono anche manifestazioni del Movimento Sociale Italiano e del Pds. Migliaia di persone si radunarono in piazza Navona per ascoltare i discorsi del segretario Occhetto, di Rutelli e di Ayala. Una folla infine invase Largo Febo e attese Craxi all’uscita dell’hotel Raphael, che da anni era la sua dimora romana.
Quando l’ex segretario del Psi uscì dall’albergo, i manifestanti lo bersagliarono con lanci di oggetti, insulti e monetine. Quest’episodio, riproposto centinaia di volte dai Tg, fu preso come simbolo della fine politica di Craxi e di un intero periodo.
Il giorno successivo, ritagliai dalla prima pagina di un quotidiano la foto che ritraeva quel momento e l’appesi alla parete del mio ufficio di allora. Avevo sempre nutrito una profonda antipatia per Bettino Craxi, un’antipatia umana prima ancora che politica. Di lui non sopportavo i toni, le lunghe pause, quel modo un po’ teatrale di parlare alla stampa e agli astanti. Nella mia visione immatura e integralista della situazione italiana, Craxi rappresentava la peggiore espressione del potere.
Mi ci vollero anni per comprendere che la vicenda umana e politica di quell’uomo era assai più complessa di quanto avessi inteso fino ad allora. E mi vergogno ancora oggi per avere affisso quel ritaglio di giornale. Fu un gesto sciocco e vigliacco.
Il processo di revisione storica sulla figura di Bettino Craxi è tuttora in corso e la temperatura è sempre altissima quando di parla di lui. I fomentatori di odio che si arricchiscono attraverso la stampa nazionale e anche una parte della classe politica continuano a usare insulti non appena si evoca la figura di Craxi.
Non provo neppure a riassumere in queste poche righe l’esperienza craxiana, né intendo esprimere un giudizio politico sul suo percorso di segretario di partito, premier e statista. Il Psi in quegli anni degenerò e diede vita a una classe politica locale compromessa. Questo è un fatto che molti hanno potuto osservare. Tuttavia dipingere Craxi come un criminale è una caricatura stupida e inaccettabile. I suoi peggiori nemici si annidano a sinistra, sebbene Craxi sia stato indubitabilmente un politico di sinistra, nel solco della storia del socialismo riformista. Ha rivitalizzato il Psi, ha intuito prima di altri quanto l’Italia avesse bisogno di una modernizzazione economica e istituzionale, e su questo sfidò due grandi forze come la Dc e il Pci.
La storia di questi ultimi due decenni ha ampiamente dimostrato che il malcostume nelle vicende politiche italiane è così ben radicato da non poter essere estirpato mediante l’uso di simboli e capri espiatori. Non occorrono nomi, ma credo che ciascuno di noi possa elencare molti episodi al cui confronto le malefatte socialiste di quegli anni paiono furtarelli. In ogni caso non si restituisce la verità sul caso Craxi stando a ragionare se lui fu meglio o peggio, o come tanti altri. Di alcune cose però possiamo essere certi. La prima: tutta la classe politica italiana fu reticente e ambigua davanti al discorso che Craxi fece alla Camera e nel quale disse con parole crude che il problema del finanziamento illegale non riguardava soltanto il Psi ma l’intero sistema. La seconda: Craxi si assunse spesso la responsabilità di posizioni difficili e decisioni conflittuali, soprattutto nelle scelte internazionali. Chiudo riproponendo lo stralcio di una sua intervista rilasciata nel 1997, da due anni era considerato, per lo stato italiano, un latitante. Le sue previsioni in merito all’euro e all’Europa e alle conseguenze devastanti che avrebbero portato si sono dimostrate vere in forma drammatica. Attenzione, Bettino Craxi non fu mai un oppositore dell’idea di un’Europa unita. Anzi, più volte si espresse a favore di una grande Europa, ma dall’ampio respiro mediterraneo. Ecco, non vorrei scivolare nella fantapolitica, però è lecito interrogarsi, a distanza di anni, se un uomo con queste idee potesse sopravvivere alla forza ineluttabile dei poteri che si stavano affermando.