Davanti ai rovinosi crolli e alle pianure alluvionate, fotografie di un’Italia colpita da un inverno particolarmente piovoso, vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quello di sempre. Politici che invocano la fatalità e il caso. Perché tutto è sempre e solo eccezionale: la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane, divinità ostili. E naturalmente sentiremo pronunciare le più solenni promesse: “Presto un piano contro il dissesto idrogeologico”, proclameranno pensosi ministri e sottosegretari.
Ma lo sappiamo bene, in Italia si parla di dissesto idrogeologico solo nei giorni successivi a frane o alluvioni. Dopodiché ce ne dimentichiamo, almeno fino a un nuovo disastro. Ogni anno siamo costretti a sopportare perdite di vite umane e costi elevati a causa di calamità che in molti casi potrebbero essere evitate, se solo si seguissero le più elementari regole di pianificazione e si facessero investimenti seri nella cosiddetta messa in sicurezza del territorio. Mentre milioni di italiani sono senza un lavoro, ampie parti del Paese crollano per mancanza di cure. C’è una sinistra affinità fra il fragile paesaggio italiano devastato dall’incuria e il tessuto sociale che si dissolve sotto i colpi impietosi di una crisi inarrestabile. Possiamo continuare a guardare alla disoccupazione e alla mancanza di prevenzione come a fatalità ineluttabili. Oppure possiamo agire. Oggi agire significa trasformare il dissesto idrogeologico in un’emergenza nazionale, cioè nella prima grande opera da realizzare per porre in sicurezza le zone più a rischio dello Stivale e creare nuova occupazione. Il 13% del territorio nazionale è in forte erosione e a rischio frane. Occorrerebbero circa 7 miliardi di euro per gli interventi più urgenti, 40 per la totale messa in sicurezza. Tanto, tantissimo soprattutto in un periodo di vacche magre. Ma secondo il “Rapporto sullo stato del territorio italiano” realizzato nel 2010 dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi, il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra a oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Dunque la scelta sembra essere fra l’inazione e la mancanza di pianificazione, destinata a far sprofondare l’Italia in tutti i sensi, o l’intervento per sanare le ferite territoriali e sociali. Forse migliaia di giovani, e non solo, sarebbero ben più orgogliosi di occuparsi del riassetto del paesaggio nazionale e della tutela dei beni ambientali piuttosto che zampettare da un call center all’altro. Ma i principali attori della scena politica italiana si sono sempre occupati di altro e sembrano intenzionati a farlo ancora. Fra i governi Berlusconi, quelli di centro sinistra e i governi Monti e Letta c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, lo zero assoluto. E allora nessuno si stupisca se l’Italia frana. Solo gli stupidi lo fanno.
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Alluvione in Sardegna: il silenzio degli onesti e il gracchiare dei corvi
Uno degli aspetti drammatici meno evidenti dell’alluvione che ha colpito la Sardegna è il silenzio degli onesti. Il silenzio di quelle persone, studiosi o semplici appassionati, che già negli anni Sessanta e Settanta del secolo passato invocavano interventi atti a prevenire, a investire sulla tutela del suolo, a ridare il giusto valore al paesaggio. Alcune di quelle persone, penso ad Antonio Cederna, Giorgio Bassani, Renato Bazzoni, non sono più fra noi. Le loro battaglie si sono infrante contro il muro di gomma della cattiva politica e dell’indifferenza generale. Altri hanno semplicemente smesso di credere nella possibilità di un cambiamento, si sono rassegnati alla peggiore delle loro previsioni, ossia che in questo disgraziato Paese le cose non potranno mai cambiare in meglio. Così oggigiorno ogni disastro ambientale, magari provocato da fenomeni eccezionali ma le cui conseguenze sono sempre aggravate dalle dissennate politiche urbanistiche, è accompagnato soltanto dalle vuote, retoriche parole dei corvi istituzionali, corresponsabili a differenti livelli, e dalle inopportune denunce dei profittatori, cioè di chi si avvantaggia di situazioni eccezionali o delle altrui disgrazie per ricavarne guadagno, magari con un bell’editoriale, un libro o una comparsata in Tv. Giornalisti, opinionisti e commentatori di 50, 60 e anche 70 anni che non ricordo di aver mai visto in prima linea a battersi a favore dell’ambiente quando pochi prestavano attenzione a simili “bagatelle”. In questi giorni sfogliando le pagine dei più noti quotidiani leggerete pezzi intrisi di indignazione e di denuncia. Sono firmati da celebri editorialisti, a volte autori di titoli che negli ultimi anni hanno incassato molto bene in libreria. Ebbene, dopo aver dato la vostra adesione ai toni profetici di questi signori ponetevi una domanda: dov’erano venti o trenta anni fa, quando già si consumava l’atto finale del saccheggio al territorio italiano, ma tutti ancora danzavano e brindavano inebriati da un falso progresso che poggiava solo sul malcostume e la peggiore devastazione?
C’è ancora tanta bellezza da salvare
«Nessuno si batterebbe con rigore, con rabbia, per difendere questa cosa e io ho scelto invece proprio di difendere questo. (…) Voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome che però hanno lavorato all’interno di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi e più assoluti nelle opere d’arte e d’autore. (…) Con chiunque tu parli, è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere (…) un monumento, una chiesa, la facciata della chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico è ormai assodato ma nessuno si rende conto che quello che va difeso è proprio (…) questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare».
Così si espresse Pier Paolo Pasolini per difendere un “selciato sconnesso e antico” presso Orte.
Ecco, oggi voglio appropriarmi indegnamente delle sue parole per difendere questo.
Un campo di papaveri e margherite alla periferia di Milano. C’è ancora tanta bellezza da salvare. Anche attorno alle nostre città. Cose piccole. All’apparenza insignificanti. Cascinali, piccole chiese isolate nella campagna, filari di alberi, fossi, rogge. Basta saper guardare. Basta.
L’Italia barbara: più cemento per tutti
Se il compianto Francesco Rosi potesse girare un remake del film Le mani sulla città, sposterebbe il set da Napoli a Milano. Nella prima inquadratura, dall’alto, ci sarebbero i grattacieli in costruzione nel quartiere Porta Nuova-Garibaldi. Poi sorvolando la grigia città, la camera riprenderebbe l’area della vecchia Fiera, Santa Giulia, Porta Vittoria. Il sacco di Milano, quello che ha trasformato l’Expo del 2015 (dedicato all’alimentazione!) in una colossale operazione immobiliare, si consuma nel silenzio assoluto. Eppure i milanesi sanno pasolinianamente tutto, conoscono i nomi dei responsabili politici, degli operatori immobiliari, dei finanziatori.
Il consumo di suolo è la più grande emergenza ambientale italiana, dalla quale discendono gli altri disastri: impoverimento della biodiversità, perdita irreversibile di suolo fertile, alterazioni del ciclo idrogeologico, mutamenti microclimatici. Continua a leggere